Una sfacciata, irritante fragilità

Ho 59 anni, di cui 28 passati dietro le sbarre e altri 4 tra affidamento sociale e sorveglianza speciale.

Vengo arrestato per numerose rapine (17). Passata la prima settimana di euforia nel rivedere gli amici e a raccontare che il mio arresto non dipendeva dalla mia scarsa bravura di rapinatore ma dalle informazioni di un pentito, incominciai a sentire la mancanza di mio figlio, che all’epoca aveva 16 mesi, e della mia ex compagna.

Dovevo trovare il modo di uscire il prima possibile. Quello era il mio solo obbiettivo. Forte del fatto che era la quarta volta che venivo arrestato, mi sentivo padrone della situazione, sapevo come muovermi. Così, dopo aver esaminato le solite proposte del carcere, individuai una novità: il gruppo della trasgressione.

Ero convinto che quella novità mi avrebbe fatto uscire prima, perciò dovevo assolutamente sfruttarla. Avevo già girato 18 carceri e non avevo mai visto né sentito di un gruppo di studenti, neo laureati e liberi cittadini, che si sedevano insieme ai detenuti attorno a un tavolo e senza la presenza degli agenti. Di solito, a quei tempi in carcere, si stava noi da una parte e loro d’altra e c’era sempre la presenza degli agenti. Era impensabile che ci potesse essere un dialogo, figuriamoci un confronto.

Per 4 mesi ascoltai i temi che si discutevano, intervenendo pochissimo, ma cominciai a notare una anomalia. Sentivo gli studenti mostrare la loro fragilità con una naturalezza che trovavo sfacciata e persino irritante. Come è possibile parlare di fragilità in carcere, dove non puoi assolutamente essere fragile? Devi essere forte, un duro, se sei debole vieni calpestato!

Il mio disagio aumentava a ogni incontro… anche perché cominciavo a condividere i loro pensieri e i loro stati d’animo. Ricordo ancora, come se non fossero passati 15 anni, che iniziai a domandarmi perché, se loro provavano le mie stesse sensazioni, io ero dentro e loro no. Ad accrescere sempre più la mia confusione erano le domande che mi esplodevano nella testa come fuochi d’artificio.

Così, quasi senza rendermene conto, incominciai a comunicare le mie sensazioni e, più esprimevo quello che sentivo, più la distanza fra loro e me si accorciava, addirittura cominciavo a sentire non così distante anche l’autorità su cui all’epoca il gruppo aveva fatto un convegno.

Fra noi e gli esterni del gruppo le distanze si accorciavano sempre di più e questo mi portava a domande che non mi ero mai fatto prima, ma anche a una certa confusione. Di solito, quando provavo malessere, lo scacciavo via procurandomi una eccitazione dietro l’altra… anche se il rimedio che adottavo non durava molto. Adesso la situazione era senza soluzione, allora cominciai a scrivere e a portare quello che scrivevo al gruppo, un po’ come sto facendo adesso.

Passo dopo passo, le colpe che avevo sempre attribuito agli altri adesso mi sembravano mie e questo peggiorava la situazione. Cominciavo a non essere più tanto sicuro di chi era responsabile di avermi rubato la vita. E così è nato un conflitto interiore che non avevo mai provato prima. Incominciai a mettere in discussione ogni mio pensiero, ma anche a condividere con loro quello che mi passava per la testa e che non riuscivo a risolvere.  A poco a poco, non ero più tanto sicuro dei pregiudizi che avevo sempre creduto la gente avesse nei miei confronti (e che avevo io stesso verso di loro).

Le volte in cui il mio malessere svaniva senza dover ricorrere all’eccitazione diventavano più numerose e aspettavo i giorni in cui c’era il gruppo a San Vittore. Compresi che quello che io chiamavo “malessere” era in realtà la mia fragilità, la mia coscienza e la mia voglia di sentirmi utile, di avere uno scopo, una funzione.

Compresi che fino a quel momento non avevo mai fatto una scelta che fosse figlia di un progetto o di un obbiettivo. Le mie scelte dipendevano dal mio stato d’animo rancoroso. La rabbia aveva il potere di decidere cosa io dovevo fare, ero in balia della corrente e la rabbia era il mio sestante. E andando avanti, mi sono reso conto di essere stato il suo burattino per quasi 40 anni.

Incominciai a vedere le cose non più in bianco e nero, ad assaporare la bellezza della diversità dei colori e dei loro contrasti. Incominciai a sentire i componenti esterni del gruppo come alleati, alcuni addirittura amici. Non li vedevo più come un oggetto, come il mio carnefice o come la mia vittima. E ogni settimana nascevano nuove iniziative che preparavamo insieme, cosa che succede anche oggi.

Il mio progetto iniziale di usare il gruppo per uscire in fretta non mi è riuscito, ma sono riuscito a sentirmi libero anche se ero in carcere. Ora so di avere uno scopo, una funzione, ho tanti progetti e obbiettivi, ma soprattutto sento di non essere più un burattino.

Ora è quasi un anno che non sono più detenuto (non ho scritto “libero” di proposito, perché ho incominciato a sentirmi libero già anni fa, quando ero ancora dietro le sbarre). Adesso continuo a sentirmi sempre più libero di fare le mie scelte, perché so che sono figlie dei miei progetti e dei miei obbiettivi. Il mio divenire lo sto costruendo con mio figlio e con i miei alleati e non mi sento più solo contro il mondo.

Grazie Juri e grazie a tutti i componenti del gruppo vecchi e nuovi.

Antonio Tango

Percorsi della devianza

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