Un gioco di squadra al Piamarta

L’esperienza con gli studenti del “Piamarta” si sta rivelando estremamente coinvolgente. Innanzitutto perché per la prima volta noi del Gruppo della Trasgressione stiamo interagendo con ragazzi che si trovano già concretamente al confine tra il continuare la propria evoluzione o perdersi; poi perché confrontandomi con loro e percependo chiaramente il loro disagio, sto rivivendo il malessere che ha caratterizzato la mia infanzia e la mia adolescenza, rendendomi facile preda della devianza.

Nell’ultimo dei quattro incontri che abbiamo avuto sinora con questi giovani, abbiamo avuto una prova di maturità dei membri del Gruppo poiché, per la prima volta, ci siamo confrontati con loro senza il supporto del dott. Aparo, che coordina il gruppo da vent’anni e da quasi quaranta lavora come psicologo nelle carceri.

Nell’ultimo incontro, membri del nostro gruppo e studenti si sono divisi in due gruppi. Quello di cui ho fatto parte, sin dall’inizio l’incontro, si è svolto sorprendentemente bene. Abbiamo rotto il ghiaccio dicendo, semplicemente, il nostro nome, cosa che poi, riflettendoci, non è così banale, poiché il nome è la prima forma di riconoscimento individuale e ricordandosi come si chiama la persona con cui ti relazioni è come se gli dicessi: “io ti riconosco tra tanti!”

A turno ognuno dei partecipanti ha raccontato qualcosa di sé e, man mano che le testimonianze andavano avanti, i ragazzi entravano sempre più in profondità. Ascoltandoli parlare, sono riuscito a immedesimarmi nelle loro storie perché anch’io sono cresciuto con la sensazione costante di essere fondamentalmente solo. Non nascondo la mia preoccupazione, perché in questa fase della loro vita questi ragazzi sono veramente in pericolo; al punto in cui sono, è sufficiente un evento che in qualche modo li turbi per scaraventarli negli abissi dai quali difficilmente si può risalire.

Nonostante il disagio che vivono, durante l’incontro ponevano anche delle domande che dimostravano per la loro pertinenza l’attenzione con cui ascoltavano. La cosa che ho percepito maggiormente è il bisogno dei ragazzi di essere ascoltati senza essere giudicati; inoltre, penso sia fondamentale non minimizzare mai i loro problemi e instaurare un rapporto paritetico che, oltre a farli sentire “riconosciuti”, permetta loro di sentirsi parte integrante di un mondo dal quale, purtroppo, ricevono continuamente messaggi fuorvianti.

Penso che il compito principale del gruppo, a maggior ragione di noi detenuti riemersi dalle nostre vecchie paludi, sia di infondere nei ragazzi quella fiducia in se stessi che noi, “Beni confiscati alla mafia” come ci ha affettuosamente definito il dott. Aparo, non abbiamo avuto durante la nostra adolescenza.

La nostra “rinascita” dimostra che, nonostante il mondo sia abbastanza incasinato, quando una persona incomincia a dialogare con se stessa e con le proprie fragilità, e a intrecciare relazioni che favoriscono la nascita di progetti a lungo termine, è possibile trovare la propria strada senza aver bisogno di cercare la felicità. In questo modo si può può fare facilmente a meno di quella strana e perversa eccitazione alla quale puntano le persone in difficoltà, ricorrendo all’uso sistematico della violenza e dell’arroganza o di sostanze che, non solo ci distruggono fisicamente e psicologicamente, ma ci allontanano ogni giorno di più gli uni dagli altri, rendendoci sempre più sordi ai segnali che la coscienza ci invia.

Ho la netta sensazione che con questi giovani possiamo costruire una base che ci consentirà di sostenere il peso del loro malessere di oggi e delle nostre scelte sbagliate di ieri con le quali i membri detenuti del gruppo devono convivere; ritengo, altresì, che attraverso il loro recupero io e i miei compagni potremo risanare in parte le ferite emotive della nostra infanzia e dare un valore al nostro folle passato, recuperando ulteriori energie per essere sempre più incisivi nella lotta contro la devianza e gli effetti collaterali che essa comporta.

Senza empatia è impossibile scardinare i meccanismi difensivi distorti che ognuno a proprio modo e spesso inconsciamente adotta. Solo mettendosi in gioco totalmente si può convincere un ragazzo a comunicare il proprio malessere e a indirizzare l’energia della rabbia che si porta dentro verso obiettivi funzionali alla sua evoluzione.

Certamente noi del gruppo dobbiamo essere consapevoli della grande responsabilità che abbiamo nei confronti dei giovani; per questo è necessario che ogni membro del Gruppo della Trasgressione ricordi sempre che solo facendo gioco di squadra possiamo riuscire nel difficile compito che ci spetta e per il quale, in un certo senso, ci prepariamo da anni: evitare che questi ragazzi distruggano la vita degli altri e la propria.

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Vittime e Carnefici a confronto

Da “La Repubblica”: “Guardarsi dentro aiuta a cambiare vita

SANDRO DE RICCARDIS

«ERAVAMO sordi, vuoti, ragazzi che non capivano e non ascoltavano, facevamo quello che ci ordinavano », dice l’uomo che sconta l’ergastolo per aver ucciso un poliziotto in Sicilia. «Adesso mi sento meno povera, meno sola. Mia figlia mi è stata strappata quasi ventisette anni fa, mi sembra ancora più importante perché mi ha fatto incontrare tanti altri figli. E oggi la sento viva come non l’ho mai sentita dal giorno in cui è stata uccisa», gli dice la madre di una vittima della Sacra corona unita, la mafia salentina.

Al carcere di massima sicurezza di Opera, vittime e carnefici sono gli uni accanto agli altri. Un centinaio di detenuti per gravissimi fatti di sangue, e una decina di parenti di vittime delle mafie. Dopo un incontro tra un familiare e un gruppo di detenuti lo scorso settembre, nell’ambito delle attività del “Gruppo della trasgressione” e con il supporto del “Centro per la mediazione penale e la giustizia riparativa” del Comune, è nata l’idea di leggere in carcere l’elenco delle vittime innocenti di mafia. La direzione del carcere si è fatta promotrice dell’iniziativa, e Libera ha inserito Opera nell’elenco dei luoghi in cui si dà lettura dei nomi.

Al centro del teatro, c’è un leggìo. Sopra, i fogli con oltre novecento nomi. Per oltre un’ora, chiunque tra i presenti può alzarsi e leggere. Il primo a farlo è un detenuto. Raggiunge i piedi del palco e inizia coi primi nomi. «Emanuele Notarbartolo, Emanuela Sansone, Luciano Nicoletti..». Altri si alzano e aspettano al lato della sala il loro turno. Ognuno legge una pagina, poi porta con sè il foglio. «Abbiamo lavorato con fatica perché questo momento di confronto potesse avvenire qui, il primo in un carcere in Italia — dice il direttore di Opera, Giacinto Siciliano — . La sicurezza è anche questo: che le persone s’incontrino e si dicano quello che c’è da dire, con l’obiettivo di restituire a ogni uomo il significato profondo della responsabilità delle proprie azioni. La vera sicurezza nasce quando si abbandona la contrapposizione e si restituisce spazio alla persona. Guardare dentro se stessi è difficile, ma se si capisce che si può cambiare vita, facciamo un servizio alla sicurezza, ma anche qualcosa di più duraturo per la società».

A rappresentare il coordinamento lombardo dei familiari che si riconoscono in Libera, ci sono i parenti di diverse vittime: la madre di Marcella Di Levrano, la sorella e il fratello di Gaetano Giordano, la nipote di Giuseppe Tallarita. Dopo la lettura dei nomi, ascoltano i detenuti che da tempo riflettono sul proprio passato. «Mi sento in dovere di regalare alle persone che hanno avuto i loro congiunti uccisi alcuni beni sequestrati alle mafie — dice Angelo Aparo, lo psicologo che coordina il “Gruppo della trasgressione” — Sono beni che hanno voce per parlare, che non possono restituire la vita a chi è morto, ma possono dare ai parenti delle vittime una gioia, quella di dire che chi ha ucciso è ancora vivo. Dopo aver affogato se stessi nella palude dell’odio e del rancore, oggi sono vivi. Sono beni che i clan hanno usato per uccidere, ma che i clan non sono stati capaci di uccidere: dopo aver cancellato la loro coscienza, l’hanno recuperata».

«Mentre leggevo quei nomi, mi sono tornati in mente quelli che ho ucciso io — confida uno di loro —. La prima volta ho provato soddisfazione, finché sono stato fuori non me ne sono più ricordato. In carcere la nebbia lentamente si è diradata, sono venuti fuori l’uomo che era, i suoi figli. La sofferenza è venuta fuori, ora è un dolore che purifica, ogni giorno ci faccio i conti. Il dolore è di voi vittime e di noi carnefici, ma sono diversi: uno è stato subito, l’altro causato. Voi dimostrate grande coraggio a stare qui a dialogare con noi».

Accanto al detenuto, è seduta una ragazza. «Ho sempre vissuto a Milano, la mafia era qualcosa di lontano, quando mio nonno è stato assassinato in Sicilia, ero piccolina. I miei genitori hanno impiegato un sacco di tempo a spiegarmi cos’era successo. In questi anni ho sentito spesso parlare di perdono, sentivo molta retorica ed ero molto intransigente, perché chi uccide stravolge la vita di una famiglia, di chi c’era e di chi ci sarà. In un incontro ho conosciuto un ex camorrista. Mi ha raccontato la situazione di Scampia, storie a cui non credevo. Sono andata a vedere e ho capito cosa voleva dire quando mi spiegava che i ragazzini lì non hanno scelta. Ho cominciato a capire che il mio dolore non è molto lontano dal vostro. Che nella vita sbagliamo tutti. Forse mio nonno non apprezzerebbe quello che sto facendo. Ho pensato spesso: lui è morto, loro sono vivi. Ma sono venuto per conoscervi, per sentire il dolore di tutti, perché il mio lo conosco abbastanza. Non so se saprò perdonare. Ma sono sicura che ho fatto la scelta giusta».

 

 

Carcere di Opera: detenuti e vittime

Da “GIUSTIZIAMI”: Mafia, a Opera i detenuti leggono i nomi delle vittime e incontrano i familiari

Manuela D’Alessandro

C’è il silenzio denso e la ritualità assorta delle cerimonie mistiche. Stanno in coda, stringendo il foglio con la lista. Uno a uno, chi con voce tenue, chi spavalda, si avvicinano al leggio in ferro e pronunciano con cura i nomi, ripetendoli quando inciampano nel pronunciarli.

Il pubblico è diviso a metà: sulla sinistra i condannati in regime di massima sicurezza, a destra quelli che devono scontare pene per reati meno gravi. In tutto sono più di un centinaio. Tra loro i familiari delle vittime e chi li accompagna ogni giorno nelle strade della prigionia.   Arrotolano il foglio, tornano in platea e danno le mani a chi li aspetta, anche agli agenti delle polizia penitenziaria.

“Sono stato combattuto fino all’ultimo perché non me sa sentivo di sporcare quei nomi con la mia voce.  Mi sono detto ‘mi alzo o non mi alzo’, poi alla fine la mia coscienza mi ha suggerito ‘alzati, devi fare qualcosa’”. A Opera va in scena quella che il direttore Giacinto Siciliano, padre dell’iniziativa a cui ha aderito anche ‘Libera’, definisce “una prima assoluta in un carcere italiano”. Alcuni detenuti per reati di sangue salgono sul palco dell’auditorium per ricordare i 940 nomi delle vittime della mafia e, al termine della lettura, incontrano una decina di familiari caduti per mano della criminalità organizzata, dando vita una discussione carica di emozioni e contenuti.

L’idea era nata a settembre durante uno scambio tra la mamma di una ragazza uccisa e dei carcerati nell’ambito delle attività del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano e del Gruppo della Trasgressione.

Quello che provano adesso lo raccontano loro, col viso rivolto ai parenti delle vittime accanto ai quali occupano le dieci poltrone bianche sul palco, vuote durante la lettura.

“Mentre leggevo i nomi, mi sono venute in mente le persone che ho ucciso io. Mi è venuta in mente la prima volta che ho ucciso un uomo e la soddisfazione che ho sentito. Quell’uomo si chiamava Roberto. Fino a che sono entrato in carcere, non mi ricordavo come fosse fatto, poi, dopo il lungo lavoro che ho fatto qui dentro, ho cominciato a mettere a fuoco lui, i suoi figli. In quel momento è cominciata la sofferenza ma anche la purificazione. Il nostro dolore è diverso dal vostro che, come vittime, dimostrate una grande apertura dialogando con noi. Cosa possiamo fare per riparare? Noi del Gruppo della Trasgressione ci stiamo relazionando coi ragazzi in bilico che incontriamo nelle scuole. Questo è il nostro modo per dire che siamo vivi, per dare un senso al nostro passato. Il vostro coraggio è un modo per darci forza”.

“La voce mi tremava, mi sono sentito piccolo piccolo davanti a voi. Quando dall’altra parte c’è chi, come voi, non guarda il reato ma la persona, si avverte una grande forza dentro. La parola perdono è una parola grande, però il dialogo mi fa vivere”.

“Tutti fuori che dicono che ‘dobbiamo morire’ ed è giusto, il pregiudizio ci deve essere, siamo stati condannati. Mi vergogno a stare qua e mi vergognerei a scrivere una lettera alla ragazza figlia dell’ispettore che ho ucciso, a lei che a 12 anni disse in un’intervista che mi perdonava. Ma in carcere possiamo assumerci le responsabilità e crescere”.

“Né perdono, né pentimento”, è il senso di questo cammino, precisa una delle mediatrici del Comune. “Questi percorsi vogliono dare riconoscimento alle persone, sia alle vittime che ai carnefici e dare spazio all’indicibile”.

Il senso lo raffigura in modo folgorante Angelo Aparo, psicologo coordinatore del Gruppo della Trasgressione. “Voglio regalare qualcosa ai familiari delle vittime che sono qui. Dei piccoli beni sequestrati alla criminalità organizzata. Questi beni hanno la voce per parlare, non possono restituire la vita a chi è morto ma possono dare un piacere ai congiunti dei morti perché, dopo essere andati vicini alla cancellazione della loro coscienza, ora l’hanno recuperata e sono stati confiscati alle mafie”.

Eccoli, i familiari che raccolgono questi beni come un tesoro. Marisa, la mamma di una ragazza uccisa: “Da quando vi ho incontrati ho ritrovato mia figlia che è diventata più importante perché mi ha fatto incontrare altri figli. Sentirvi leggere i nomi è stato molto emozionante. Oggi sento mia figlia viva e presente come non l’ho mai sentita”.

Rosy, la nipote di un pensionato assassinato dalla mafia: “Per tanti anni sono stata piena di rabbia verso chi l’ha ucciso, me li immaginavo come dei mostri. Poi, dopo una visita a Scampia suggerita da un camorrista incontrato durante un evento pubblico, ho capito cosa vuol dire quando si dice che lì i bambini non possono scegliere. Ho cominciato a capire che nella vita si sbaglia tutti e oggi, quando ho varcato le soglie del carcere, mi sono sentita male. Ho visto le sbarre dappertutto e ho compreso cosa vuol dire non essere liberi. Sono qui per sentire il dolore di tutti voi perché il mio l’ho già sentito abbastanza”.

Il direttore Siciliano prende l’ultimo microfono: “Voglio provare a dire qualcosa, ma con molta fatica. E’ stato un susseguirsi di emozioni, è stato veramente difficile assistere alla lettura. Dietro chi leggeva c’erano dieci poltrone bianche vuote che a un certo punto si sono riempite. Non posso dire che le vittime abbiano riacquistato la vita, ma la vita è comunque salita su questo palco dando un senso a quello che facciamo. Giovanni Falcone diceva che la mafia sarebbe stata sconfitta quando ogni palermitano avesse appeso un lenzuolo bianco. Oggi le persone che hanno avuto il coraggio di leggere questi nomi erano tante lenzuola bianche”.