Nessun bambino nasce cattivo

Non esistono risposte giuste o risposte sbagliate su un piano universale, eppure di fronte all’affermazione “nessun bambino nasce cattivo” penso sia molto difficile andare a dimostrare il contrario. Questo, almeno, è ciò che penso io.

Si potrebbe mai immaginare e prevedere che un neonato intento a guardarti e sorriderti con occhi grandi e luminosi, un giorno diventerà violento, aggressivo, vendicativo, pieno d’odio e di rancore? Proprio lui che in quel preciso istante sembra protetto da un’aurea angelica e pura. Qualcosa deve essere andato storto, qualcuno deve avergli fatto del male e deve aver tradito il suo amore. Si dice che l’odio non sia altro che un grande amore ferito e che gli adulti siano bambini feriti diventati grandi: alla fine siamo sempre noi, solo con qualche anno in più man mano che il tempo passa.

E allora quando ci viene chiesto come mai molto spesso capiti di provare una certa simpatia, e oserei dire anche tenerezza/compassione, verso una o più persone detenute, la mia risposta sta proprio in quell’affermazione iniziale. Nessun bambino nasce cattivo. Il lupo dorme dentro ognuno di noi, ma forse continuerebbe a dormire se nessuno si prendesse la briga di andarlo a svegliare.

Quando un essere umano viene cresciuto in condizioni estreme, come nel caso del nostro Smerdjakov, e quando fin da bambino è abituato a sentirsi dire “Questo qui, a me e a te, non ci vuole bene, questo mostro. E non vuole bene a nessuno. Tu non sei un essere umano, tu sei venuto fuori dal fradicio di un bagno, ecco cosa sei tu…”, quali sono le probabilità che cresca con un’immagine di sé stesso amorevole e positiva? Quali sono le probabilità che, quel mostro, lo diventi davvero?

Durante la conversazione tra Ivan Karamazov e il diavolo, quest’ultimo dice di essere sinceramente buono, ma che i suoi sentimenti migliori (ad esempio la gratitudine) gli vengono proibiti a causa della sua posizione sociale. Il suo compito è infatti quello di non mostrare e non esprimere mai la sua benevolenza, perché altrimenti tutto il mondo smetterebbe di esistere, si estinguerebbe. C’è bisogno del bene e del male per permettere l’esistenza della vita stessa. E chi meglio del diavolo può portare a perfetto compimento e realizzazione questo compito? Ma non era forse anche il diavolo il più bello e splendente tra tutti gli angeli? Mitologia a parte, si potrebbe azzardare che anche il diavolo in persona sia un bambino ferito?

A questo proposito vorrei introdurre un punto di vista secondo me molto interessante e diverso rispetto a ciò di cui si sente spesso parlare riguardo l’impulsività emotiva e all’impossibilità di autogenerare o meno le proprie emozioni.

Ultimamente ho avuto modo di leggere alcuni libri sul pensiero dello psicologo austriaco Alfred Adler e questo è ciò che ho interpretato e compreso. L’autore sostiene la tesi secondo cui il trauma non esiste in quanto appartiene al passato, che a sua volta non esiste, e le emozioni non sono reazioni istintive a un qualche stimolo esterno/interno, ma vengono autogenerate per raggiungere uno scopo del quale si è o meno consapevoli. Di conseguenza secondo Adler, un’emozione come può essere la rabbia, viene generata da un individuo principalmente allo scopo di poter dominare su qualcun altro, di sentirsi potenti.

Perciò in quest’ottica, se una persona ne aggredisce un’altra, ha bisogno di autogenerare rabbia così da riuscire ad avere l’energia e la forza necessarie per farlo e per raggiungere il suo obiettivo di dominanza. Secondo Adler io aggredisco, urlo e attacco perché voglio dominare su qualcun altro e mi servo della rabbia perché è l’emozione migliore per raggiungere il mio scopo.

Rispetto alla non esistenza del trauma, quindi, una persona non aggredirebbe perché ha subito un trauma in passato o perché non è stato cresciuto con amore in passato, ma perché sta continuando a ricercare quell’amore, quell’affetto e quelle attenzioni nel presente e si serve dell’emozione della rabbia per raggiungere questo scopo. In sostanza spera di ottenere quell’amore e quell’affetto, che pretende, servendosi della rabbia e della violenza. Forse Adler cambierebbe l’espressione “ho agito così perché i miei genitori si sono comportati in questo modo” (causa-effetto: eziologia) con “ho agito così perché voglio raggiungere questo obiettivo X nel presente” (azione-scopo: teleologia).

Mi sono trovato più volte a riflettere su quale sequenza possa essere più vicina al vero, se il rapporto di causa-effetto o quello di azione-scopo e ovviamente non ho una risposta conclusiva. Proprio per questo, al momento mi accontento di una piccola grande boa di salvataggio che Dostoevskij ci offre: “Una volta che gli uomini avranno rinnegato Dio, uno per uno (e io credo che questo periodo sopraggiungerà di pari passo con i periodi geologici), tutta la precedente visione del mondo verrà a cadere, senza ricorso all’antropofagia, e soprattutto cadrà la vecchia morale, e partirà tutto da zero. Gli uomini si uniranno per prendere dalla vita tutto quello che essa potrà dar loro, ma soltanto per la gioia e la felicità della vita terrena. L’uomo sarà sollevato da uno spirito di divina, titanica fierezza e apparirà l’uomo-dio. Quest’amore sarà soddisfacente soltanto per un attimo della vita, ma basterà la consapevolezza della sua fugacità per intensificarne l’ardore, che in passato invece veniva dissipato in speranze di amore eterno e ultraterreno…

Ma dal momento che, considerata l’inveterata stupidità umana, quest’era non arriverà che fra mille anni, colui che riconosce la verità sin da adesso può organizzare legittimamente la propria vita secondo i nuovi principi. In questo senso, “gli è tutto permesso”.

Ruben Corbellini

I Conflitti della famiglia Karamazov

Siamo tutti un po’ Karamazov

Ogni giovedì ci sediamo tutti in cerchio nel teatro di Bollate, illuminati dai fasci di luce dei faretti che ti permettono di vedere tutti i volti di tutti i presenti e pronti per incontrare una nuova persona. Ogni settimana, infatti, abbiamo fatto la conoscenza di uno dei quattro fratelli Karamazov, sviscerando, analizzando e interrogandoci sui loro comportamenti, sul loro essere e sul loro animo all’interno del romanzo.

La prima settimana abbiamo parlato di Dimitrij e del suo credito verso il padre, la seconda settimana di Alesa e della sua spiritualità, lui orfano che ha trovato un nuovo padre nella figura dello starec Zosima e di Dio, la terza settimana di Ivan, della libertà e del diritto al rancore e, infine, la quarta settimana di Smerdjakov e dell’omicidio che ha commesso.

Durante gli incontri nella mia testa un’idea si è fatta strada, cioè che forse tutti noi siamo un po’ i fratelli Karamazov: ognuno di noi ha crediti verso qualcuno, alcuni vivono la spiritualità e si affidano a Dio, molti serbano rancore verso altri, alcuni sono impulsivi come Dimitrij, altri riflessivi come Alesa, altri ancora si tormentano come Ivan. Ma poi siamo arrivati a Smerdjakov, colui che ha ucciso il proprio padre. E lì tutto è cambiato.

E allora questa idea diventa una domanda: ma allora siamo tutti un po’ Karamazov? Forse no. Io non ho mai vissuto senza una madre e con un padre assente, niente di tutto quello che hanno passato i fratelli Karamazov ha che fare con me e con il mio vissuto, però con quello di qualcun altro sì. E quindi chi sono i Karamazov oggi?

In questo percorso i quattro fratelli sono stati impersonificati da quattro detenuti: Fabio, Salvatore, Giuseppe e Beqar. Tutti loro hanno raccontato la loro storia, il loro vissuto, che per molti versi è simile a quello dei quattro personaggi del romanzo. Poter dare loro un volto di una persona reale, che esiste, a cui posso sedermi di fianco e con cui posso parlare, mi ha aiutato a poter dare una rilettura del romanzo nella mia realtà e in ciò che mi circonda. Oltre a loro anche altri detenuti hanno raccontato della propria infanzia, di condizioni di disagio, di tossicodipendenza e di rapporti difficili soprattutto con la figura paterna, e quindi forse loro sì possono capire fino in fondo i quattro fratelli.

Con questo non vorrei che passasse il messaggio che solo chi è dentro un carcere possa immedesimarsi in loro, perché sicuramente anche tra i miei colleghi universitari, tra i famigliari delle vittime, tra i pubblici ministeri e gli psicologi ci sono dei Karamazov. Ma allora ritorniamo alla domanda: per me cosa vuol dire essere un Karamazov oggi?

È difficile rispondere, ma mi sono rimaste impresse le parole del dott. Aparo che, parlando riguardo al grado di consapevolezza di chi compie un reato, diceva che, secondo lui, il grado di libertà (e quindi di consapevolezza) aumenta in proporzione all’amore che si è ricevuto. Allora forse per me un Karamazov è qualcuno a cui è mancata una qualche forma di amore e che però comunque ha diritto a vivere una vita, ha diritto a ricercare l’amore negli altri, ha diritto di affidarsi a Dio, ha diritto a essere arrabbiato e a serbare rancore per questo, ma allora in nome di ciò ha anche diritto a commettere reati, ad uccidere? No, e in questo a mio parere ne sono esempi e testimonianze preziose Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro.

Ma allora come biasimare chi agisce come Smerdjakov, chi commette un reato, sapendo quello che ha vissuto? Non lo so, ma proprio questo è l’impegno che mi porto a casa: a scuola e in famiglia mi è stato insegnato come comportarsi, cosa si può fare e cosa no, in questi cinque anni di giurisprudenza ho studiato cos’è un reato, come viene punito, quali sono le conseguenze e le implicazioni, tutta questa conoscenza è essenziale ed importante ma ciò che ho capito è che tutto questo dovrebbe essere accompagnato da una ricerca: una ricerca di chi sono i condannati, del loro vissuto, una ricerca per prevenire, dove è possibile, la commissione dei reati e, se già avvenuti, una ricerca per trovare dei modi di riparare a questi.

Marta Miotto

I Conflitti della famiglia Karamazov

Smerdjakov, l’ombra

Disprezzato da tutti e isolato, Smerdjakov, viceversa, ha differenti legami e conosce a sufficienza le persone che lo circondano.
Smerdjakov mi fa una certa simpatia.
Non perché ha ammazzato il padre o perché da piccolo impiccava gatti crudelmente. Questo meriterebbe una riflessione a parte.
No, lo immagino, come in un teatro, dietro le quinte, che conosce a menadito, diciamo così, le parti dei vari attori in scena.

Del padre, Fedor, che pure lo disprezza e lo umilia in continuazione, conosce praticamente tutto: la sua lascivia e voracità e le sue inclinazioni nascoste. Smerdjakov è l’unico a cui è permesso di entrare nella sua stanza. Fedor chiede addirittura la sua complicità su come avvertirlo segretamente quando la desiderata Grusenka si fosse fatta viva, cosa che aspetta con ansia e passione.

Con Alioscia, il seminarista devoto e guidato dal santo starec, Smerdjakov usa l’arma dell’ironia e del sarcasmo.
Il dissoluto, irascibile e passionale Dimitri, invece, gli fa paura e lo tiene a bada.
Solo Ivan ha la sua ammirazione: ha belle idee, le espone in modo razionalmente appropriato e lo ascolta incantato e questo basta a renderglielo accettabile, anche quando ne riceve maltrattamenti aggressivi.

Insomma, Smerdjakov conosce bene…i suoi polli, ma ne riceve oltraggio e rifiuto. Anzi, direi proprio che egli possa plasticamente rappresentare il rifiuto, il negativo, in fin dei conti l’ombra.
L’ombra.

Ora, non c’è dubbio, tutti, più o meno consapevolmente, hanno quel lato umbratile che non vorrebbero, che rimuovono bellamente o che proiettano sugli altri, ma di cui non è possibile liberarsi impunemente.
A meno che, con faticoso lavoro, non ci si abbassi a fare i conti con lei e non se ne veda la reale e inevitabile portata.
Non ci resta, allora, che guardare a Smerdjakov-ombra con occhi diversi e venirne a patti. Sperabilmente, per una maggiore propria completezza.

Piero Invidia

I Conflitti della famiglia Karamazov

Sentirsi in credito

Il primo giovedì di febbraio 2024, tra le 14:30 e le 17:30, fra le mura della Casa di reclusione di Bollate, durante il primo incontro del progetto “Essere oggi Ivan, Aleksej, Dmitrij e Smerdjakov. I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate”, sotto lo sguardo artistico di Andrea Spinelli (primo illustratore giudiziario italiano), muovendo dalla descrizione di Dmitrij Fёdorovic e del suo rapporto col padre, alcuni detenuti, Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro (famigliari di vittime inno- centi della criminalità organizzata, rispettivamente, madre di Marcella di Levrano e fratello di Emanuela Setti Carraro), una sessantina di miei colleghi studenti universitari, altri membri della società civile ed io, guidati da Angelo Aparo (psicoterapeuta, fondatore del Gruppo della Trasgressione) e Francesco Cajani (Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano), abbiamo dato vita ad una discussione sul “sentirsi in credito”.

Le ore trascorse all’interno dell’istituto penitenziario sono state “animate” prevalentemente dalle narrazioni dei detenuti Fabio, Salvatore, Giuseppe e Stefano, che hanno condiviso col resto del gruppo verso chi e per quale motivo si sono “sentiti in credito” nel corso delle loro vite.

Il primo a prendere la parola è stato Fabio, che ha affermato di “essersi sentito in credito” verso la sua famiglia, in particolare verso il padre. Infatti, a partire da quando aveva all’incirca quattro anni, Fabio iniziò a sentirsi «accantonato» dai suoi genitori, poiché questi, dopo aver scoperto che il loro secondo figlio era affetto da Talassemia, iniziarono a riservare sempre meno attenzioni nei confronti di Fabio; dunque, questi iniziò a ricercare altrove qualcuno che fosse in grado di dargli il riconoscimento che pretendeva. Quel qualcuno Fabio lo ritrovò nel suo gruppo di amici, che, purtroppo, era formato da persone poco raccomandabili. Questo, unito al fatto che era «casinista dalla nascita», che voleva «fare un dispetto» al padre e desiderava affermarsi nell’ambito della sua nuova “famiglia”, composta da «idoli, perché rispettati e potenti», portò Fabio a commettere i primi crimini.

Successivamente è stato il turno di Salvatore, che, in breve, ha detto di aver iniziato a “sentirsi in credito” verso il padre dopo che quest’ultimo aveva deciso di abbandonare la famiglia, nonché di aver inflitto alle sue vittime il dolore che avrebbe voluto far patire al padre. Giuseppe, a sua volta, ha sostenuto di “essersi sentito in credito” per via della sua infanzia difficile, durante la quale la sua “famiglia naturale”, non in grado di soddisfare i suoi bisogni e desideri materiali, è stata surrogata da quella composta dai suoi amici criminali; il che lo ha portato a delinquere per prendersi ciò che non ha potuto avere da bambino.

Infine, Stefano, dubbioso tra “essersi sentito in credito” ed “essersi sentito in debito” nei confronti della vita, fra le altre cose, ha raccontato che il padre, gran lavoratore ma pessimo genitore in quanto assente e violento, gli mise la prima pistola in mano.

Dalle parole dei detenuti sembra emergere che, tra le possibili cause che hanno indotto gli stessi a perpetrare condotte criminose, vi siano la legittimazione derivante dal “sentirsi in credito” (in termini di assistenza sia morale che materiale) nei confronti dei propri genitori e la frequentazione di ambienti devianti.

Ora, come si può evitare che un soggetto arrivi a “sentirsi in credito”? Qualora non si raggiunga questo prima obiettivo, quali correttivi posson essere messi in campo?

Un ruolo fondamentale in dette questioni dovrebbe essere giocato dalle istituzioni, in particolare, da scuola e carcere, e, quindi, rispettivamente, da educazione e rieducazione, che, ahimè, non risultano essere temi di particolare tendenza. La stessa Costituzione, rispettivamente, al secondo comma dell’articolo 31 e al secondo comma dell’articolo 27, afferma che «[la Repubblica] protegge […] la gioventù» e «le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato». Quindi, lo Stato dovrebbe guidare ogni consociato, libero o condannato in via definitiva, in quello che Angelo Aparo, durante l’esperienza “Essere Raskol’nikov oggi. Delitto e castigo al carcere di Opera”, ha definito “viaggio alla ricerca della coscienza”, offrendo sempre delle valide alternative alla devianza. In particolare, gli istituti scolastici e penitenziari, ossia i luoghi dove, rispettivamente, giovani e detenuti trascorrono gran parte del loro tempo, dovrebbero, per mezzo di collaboratori credibili e realtà come il Gruppo della Trasgressione, ricordare quotidianamente ai menzionati soggetti che la strada della criminalità, oltre ad essere un vicolo cieco, non è la sola percorribile.

Inoltre, è vero che (il richiamo va al primo comma dell’articolo 27 della Costituzione, il quale afferma che «la responsabilità penale è personale» e alle finalità della sanzione penale) la commissione di un reato deve far sorgere in capo a colui che lo commette l’obbligo, corrispondente al c.d. “debito con la giustizia”, di ripagare il torto subito dalla collettività, dalla persona offesa e dai famigliari di quest’ultima (senza dimenticare che anche le famiglie dei condannati possono patire sofferenze non indifferenti); ma è altrettanto vero che, in virtù di quanto sin qui detto, si possa concludere che la società, in quanto largamente disinteressata all’educazione e, soprattutto, alla rieducazione (elemento che mette in luce come il nostro paese sembri sostanzialmente ignorare il fatto che, ad un certo punto, i detenuti smettono di essere tali), oltreché verso quest’ultimi, è sicuramente debitrice verso sé stessa.

Credo che ognuno di noi dovrebbe pretendere qualcosa di meglio rispetto ad uno stato che, per dirlo con le parole di Fabrizio de André, «si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità».

G. R.

I Conflitti della famiglia Karamazov

La libertà dentro il diritto a sbagliare

All’inizio del nostro percorso ero genuinamente curioso di scoprire come e quali tematiche avremmo potuto sviscerare nel tragitto. C’è un delitto, il delitto per antonomasia, l’atto estremo, nel romanzo, certo, ‘ma dove ci porterà l’analisi intorno ad esso?’, mi chiedevo.

Siamo al terzo incontro quando nella piazza viene sbattuto, come un fulmine a ciel sereno (almeno per me), un nuovo interrogativo: Esiste il diritto al rancore? L’odore di pioggia era già nell’aria, non a caso a Milano in questi giorni piove parecchio, ma delle nuvole ancora nessuna traccia, eppure il fulmine si è abbattuto rumorosamente al centro del teatro del carcere di Bollate.

Esiste il diritto al rancore? Cosa vuol dire diritto al rancore? Posso odiare? Mi è riconosciuto? Io non so rispondere a tutte queste domande, sicuramente non ne ho la presunzione. Posso però dire che, se il conflitto esiste, esisterà anche il rancore di chi a quel conflitto soccombe.

Il conflitto non è sempre violento (certi progetti, come questo, vorrebbero proprio rendere ogni conflitto non violento) e il percorso che porta ad una diversa composizione dei conflitti passa necessariamente dal riconoscimento dell’altro e quindi anche del diritto al rancore della vittima e sorprendentemente (per alcuni) dal riconoscimento che anche gli autori di reato hanno del, e talvolta sono mossi dal, rancore.

Per questo motivo, per me il diritto al rancore esiste, ma non tanto (e non solo) come causa del crimine, ma soprattutto come punto di partenza per il riconoscimento dell’altro difficile. Riconoscere il diritto al rancore come parte dell’individuo è un passo verso il riconoscimento della dignità altrui, fondamentale per riconoscersi e modulare diversamente i conflitti, nel rispetto di questa. Perché proprio il rispetto della dignità altrui è la chiave per raggiungere una modulazione non violenta dei conflitti.

Ecco, più che diritto al rancore sarebbe forse più corretto parlare di diritto a sbagliare e correlato diritto alla risocializzazione come il più recente diritto penitenziario afferma. Questa coppia di diritti, che dovrebbe iniziare seriamente a farsi spazio nelle discussioni circa la funzione della pena, è una conseguenza naturale della riconosciuta corresponsabilità sociale al crimine, che a noi è piaciuto chiamare credito.

Facciamo un esempio. Sono convinto che se nel necessario conflitto tra i personaggi de I Fratelli Karamazov questi si fossero vicendevolmente riconosciuti il diritto al rancore, il diritto a sbagliare, si sarebbe probabilmente potuto prevenire il conflitto violento.

Ivan Karamazov propone un suo modo per prevenire il conflitto violento, e lo fa attraverso la critica della libertà per mezzo del Grande Inquisitore nel capitolo V, libro V, Parte II.

Il Grande Inquisitore, nel racconto di Ivan, critica la figura del Cristo per aver concesso la libertà agli uomini, i quali non ne sono all’altezza poiché spinti da bisogni e necessità terrene useranno tale libertà in modo egoista e meschino, per perseguire i loro personalissimi desideri. Propone invece un sistema diverso, basato su dare agli uomini uno tale che tutti credano e si inchinino davanti a lui, e che immancabilmente ciò avvenga tutti assieme. Propone un’esigenza di comunanza di adorazione che ponga fine ai conflitti per mezzo dell’idolo al quale tutti si inchineranno perché convinti dal vessillo di questo: il pane terreno. Che altro non è che l’esigenza di sicurezza.

Anche noi abbiamo parlato di libertà, grazie ad Ivan e soprattutto grazie al dottor Aparo, concordando sul fatto che ci sono una serie di prerequisiti necessari al raggiungimento di questa. Per me uno su tutti, la dignità.
In generale con dignità umana si indica una particolare posizione dell’essere umano nei confronti degli altri esseri della natura e, conseguentemente, una particolare considerazione e trattamento che ad esso dovrebbero essere riservati. È bene sottolineare che oltre una condizione empirica essa esprime una condizione normativa.

Nel senso comune ci sono oggi due concezioni della dignità che devono essere considerate, una positiva ed una negativa. La prima coincide all’incirca con quanto su espresso, la seconda invece, sommariamente, con l’esigenza di sicurezza. Non è detto che le cose non debbano coincidere.
Conseguenza della concezione negativa è la ricerca di un uomo-entità, un idolo per dirla come il Grande Inquisitore, cui obbedire, che decide per gli altri.

In entrambi i casi il fine ultimo è ottenere una comunità di uguali in cui esprimere la propria libertà. Nel primo caso sarà una comunità di destino di uomini democraticamente pari in cui la guida è assunta dalla legge-insegnamento che tutela la condizione normativo-empirica del singolo.
Nel secondo caso sarà invece una comunanza di adorazione sotto la guida di un capo-idolo, un despota.

Né io, né probabilmente la storia è ancora stata in grado di decidere quale percorso sia effettivamente il migliore.

L’inquisitore tace, aspetta per un po’ quello che il suo prigioniero gli risponderà. Il suo silenzio gli pesa. Ha visto che il prigioniero l’ha ascoltato per tutto il tempo, guardandolo dritto negli occhi con il suo sguardo calmo e penetrante e, con ogni evidenza, senza voler ribattere alcunché. Il vecchio vorrebbe che gli dicesse qualcosa, sia pur d’amaro, di terribile. Ma Egli all’improvviso s’accosta al vecchio e dolcemente bacia le sue labbra esangui, da novantenne.

Vincenzo Caragnano

I Conflitti della famiglia Karamazov

I fratelli Karamazov a Bollate

Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria, da effettuare entro il 2 marzo 2024 su lostrappo.net/karamazov

I Conflitti della famiglia Karamazov

Non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio

Con le canzoni di quale autore potrebbero interloquire al meglio i “trasgressivi”, coloro cioè che hanno infranto le regole del sistema sociale catapultandosi nell’angustia di una muta cella?

Con chi se non col cantautore che da sempre conosciamo vicino ai ratés, ai derelitti, agli ultimi insomma, colui che prefigura un Dio compassionevole ed auspica una suddivisione del bene e del male in parti uguali fra gli umani, colui che ha nome Fabrizio De André e con la sua produzione poetica si è meritato un posto nell’olimpo della Treccani?
“Gli occhi grandi color di foglia” è un verso tratto da una delle prime e più note composizioni di questo grande esegeta dell’amore, Via del campo.
Solo un animo sensibile come il suo ha potuto conferire un aspetto idilliaco nella sua evanescenza a chi si presta ad un rapporto mercenario: la “sua” puttana diventa infatti ora bambina, ora graziosa e suscita addirittura il desiderio di farsi sposare. Il tutto perché De André, nonostante le sue origini borghesi, sa bene che non nel denaro ma nel fetore della vita umile ma vera va cercato l’humus che dà origine ad ogni forma di bellezza.
Ascoltate con empatia il concerto, subitene il fascino catartico e, soprattutto, non abbiate paura del destino della diversità perché, per dirla sempre con Faber, “non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”.

Siamo tutti fratelli Karamazov

Le parole del dottor Cajani mi hanno dato modo di riflettere. Condivido con lui la sorpresa nell’osservare lo stile di guida del dottor Aparo. Uno stile unico, direi quasi sincopato, a volte apparentemente disordinato, ma che alla fine ti porta con piacevole sorpresa dove sapevi o almeno intuivi di dovere andare, ma non sapevi di starlo facendo, ancora.

Sarà forse il callo della professione, ma c’è un incredibile invito alla ricerca di significato nel percorso guidato che stiamo compiendo insieme.
La ricerca di senso è sempre stata per me il rifugio sicuro di ogni esperienza ed anche in questo progetto sento oggi di aver intravisto la strada, maieutica, verso questo locus amoenus.

Mi sono chiesto, allora, perché. Il perché della domanda ‘chi è il protagonista de I fratelli Karamazov?’. La domanda è semplice, la risposta è complessa, lo scopo porta ad affacciarsi sul contesto dialogico della nostra ricerca.
Nella critica letteraria le risposte alla domanda si avvicendano. E non senza ragione. Molte sono già state date e molte ancora, probabilmente, verranno.
Sarebbe forse corretto parlare del carattere polifonico del romanzo che esplorando le diverse prospettive dei fratelli e del padre, Fedor Pavlovic, racconta la complessità dell’esperienza umana in ogni aspetto che ognuno dei personaggi rappresenta. Ed è tenendo questo bene a mente che suggerisco una diversa risposta.

I protagonisti del ‘nostro’ I fratelli Karamazov siamo proprio noi, nelle nostre complessità, nelle nostre esperienze, nelle nostre diversità.
In questa risposta inizio a rivedere le tappe del nostro tragitto.
Ci vedo il credito che ognuno potrebbe vantare verso gli altri, il modo di affrontarlo, infinitamente diversificato da individuo ad individuo, declinato in una serie di aspetti ed esperienze che colorano la crescita di ciascuno.
Ci vedo tutte le soggettive letture del mondo, degli errori, e del modo di affrontarli.
Ci vedo la necessità di ricomporre tutte le pagine strappate, per leggere il libro nell’insieme, di ascoltare le voci di chi ha fatto e di chi ha subito, per iniziare a capire e per non sbagliare più.

Dostoevskij ha bisogno dei suoi personaggi principali per raccontare la complessità della società russa, dei temi della morale, della religione, della libertà, della ricerca del senso della vita esattamente come noi tutti siamo i necessari protagonisti del nostro racconto.
Il tutto di cui siamo parte si scopre soprattutto nell’altro. La difficile presa di coscienza della comunità di destino di cui siamo i pezzi è il percorso per riscoprire una diversa composizione dei conflitti, che parta e sia fondata sul riconoscimento dell’altrui dignità e sullo sperimentare un’Esperienza contraddistinta dalla fiducia.

Siamo tutti fratelli Karamazov, tutti insieme protagonisti della Nostra storia.

Vincenzo Caragnano

I Conflitti della famiglia Karamazov

Gli occhi grandi color di foglia

Concerto Trsg.Band
Sabato 2 marzo 2024 – 21:00

Teatro Civico Roberto De Silva – Rho

Una selezione delle canzoni di Fabrizio De André combinate con le riflessioni dei detenuti del Gruppo della Trasgressione sui loro periodi più bui e sul lavoro di questi ultimi anni con i componenti esterni del gruppo.

La serata prende il nome da un verso di Via del campo, una delle prime e più note canzoni di De André. Una bambina e una puttana vivono entrambe in Via del Campo, tanto vicine l’una all’altra da far germogliare fiori, illusioni e speranze d’amore in chi va a trovarle. La prossimità fra l’una e l’altra c’è, ma per coglierla occorrono occhi grandi color di foglia, capaci di accettare parentele nascoste fra personaggi apparentemente incompatibili.

Scritta in collaborazione con Enzo Jannacci, Via del campo invita al dialogo con ciò che a una prima lettura sembra distante e privo di valore; la canzone è un’anticipazione del tema che rimarrà il filo conduttore di tutta la produzione poetica di De André: l’importanza della comunicazione con le proprie parti dimenticate o negate, cioè con quegli errori, fragilità, insicurezze o, come dice la canzone, con quel letame da cui possono nascere progetti e riconoscimento reciproco fra persone diverse. 

Juri Aparo dal 2005 incrocia le canzoni di De André con i temi e la ricerca del Gruppo della Trasgressione  che opera a Milano dentro e fuori dal carcere e di cui è il coordinatore.

Non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio

Gli interventi e del canzoni del concerto a Rho

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