Il più crudele dei mesi

Aprile è il più crudele dei mesi, lillà da terra morta, confondendo
memoria e desiderio, risvegliando
le radici sopite con la pioggia della primavera
[…]

Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: Stetson!
Tu che eri con me, sulle navi a Milazzo!
Quel cadavere che l’anno scorso piantasti nel giardino,
ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola?

[T.S. Eliot, La terra desolata. I – La sepoltura dei morti] 

I morti erano di ritorno da Gerusalemme, dove non avevano trovato ciò che cercavano. Mi pregarono di lasciarli entrare e implorarono il mio verbo, e così iniziai il mio insegnamento. Ascoltate: io inizio dal nulla. Il nulla è uguale alla pienezza. Nell’infinito il pieno è come il vuoto. Il nulla è vuoto e pieno. Potreste dire altrettanto bene qualche altra cosa del nulla, per esempio che è bianco e nero o che non è o che è. Una cosa infinita ed eterna non ha alcuna qualità poichè ha tutte le qualità.

[Carl Gustav Jung, Septem Sermones ad Mortuos – Sermone I]

Io non c’ero, quel giorno, a Palazzo.

La mattina del 9 aprile 2015 mi trovavo a Firenze, per motivi di lavoro uniti a passioni per le investigazioni informatiche coltivate da tempo anche tramite lo studio del Manuale di computer forensics di Eoghan Casey, che stavo ascoltando completamente assorbito dalle parole del suo intervento. Il telefono suona una, due volte. Me ne accorgo in ritardo e penso che sia strano che Francesca mi chiami con tale insistenza. Esco dalla sala e mia sorella quasi scoppia in un pianto liberatorio, al pensiero che ci fossi anche io dentro quel macello di cui erano giunte in Redazione le prime notizie.

Notizie confuse ma che, dopo una mia prima telefonata al responsabile della sezione antiterrorismo della Procura, impongono di non sottovalutare quello che sta succedendo: si, qualcuno sta sparando nel Palazzo di Giustizia, a Milano. E non si sa né perché nè contro di chi.

Così, per superare un senso di inutilità mai provato fino a quel momento, chiamo il mio amico Carlo. Da giornalista di razza quale è, mi invita a seguire in streaming RaiNews24 perché un suo collega era già sul posto. E sono, al momento, le uniche notizie certe. Da chi sta fuori.

Mentre con una mano tengo così a stento un piccolo schermo per cercare di vedere più da vicino, con l’altro telefono mi accerto della situazione delle persone che stanno invece dentro, e che lavorano nel mio ufficio prendendosene uguale cura, come una seconda famiglia: Mirella racconta che Loredana, sua collega cancelliera presente durante la prima sparatoria, aveva trovato la via di fuga risalendo le scale che arrivano dirette al nostro corridoio (siamo infatti proprio sopra l’Aula 2 al terzo piano, da dove si sono sentiti i primi spari); Giuseppe invece, Carabiniere di lunga esperienza, ha lasciato Fabio ed era sceso – arma di servizio in pugno – lungo quelle stesse scale, a presidiare il piano dove lavora sua moglie.

E poi chiamano alcuni Colleghi, pensando che forse noi Pubblici Ministeri abbiamo – per natura o funzione – qualche pronta soluzione in tasca. O almeno qualche buon consiglio, come quello da dare alla mia amica Caterina che voleva soltanto sapere quando potesse uscire da quella stanza nella quale si era rinchiusa insieme ad altre 40 persone. O meglio mi chiamava per sapere quando poteva uscire lei, insieme alla figlia che aveva in grembo, da quella stanza.

E poi, il giorno dopo, le poche parole di Luigi, il Pubblico Ministero che in quell’Aula di udienza non ci doveva neppure andare, quel giorno. Miracolosamente salvo, lui come tutti gli altri presenti a Palazzo di Giustizia ad eccezione di Lorenzo Alberto Claris Appiani, Giorgio Erba e Fernando Ciampi, uccisi per mano di uomo armato, Claudio Giardiello, che con quella stessa arma aveva ferito anche altre due persone.

Pur non conoscendo personalmente nessuna delle tre vittime, ricordo di aver voluto andare proprio con Caterina ai loro funerali in Duomo. E, nel tratto a piedi in un pomeriggio di aprile, abbiamo entrambi pensato a quanto lavoro sarebbe stato necessario per cercare di riparare i mille piccoli traumi che un simile evento aveva generato.

Non erano i terroristi, come molti di noi avevano pensato nei primi minuti di concitazione e confusione. Eppure lo scenario immaginato poteva essere simile a quello accaduto pochi mesi prima a Parigi, in quel 7 gennaio 2015 dentro la sede di Charlie Hebdo e lungo le strade ad esse adiacenti. E poi ripetutosi, nel novembre del medesimo anno, dentro il teatro Bataclan. Immagini, viste ugualmente alla TV molte e molte più volte, rimaste così indelebili nella mia memoria che ho sentito l’esigenza, complice il mese scorso una breve vacanza con la mia famiglia, di fare una passeggiata solitaria – di buon mattino – quasi per riconciliarmi con quei luoghi e con quei volti.

     

Perché è forse caratteristica intrinseca dell’essere umano temere di più quello che non riesce a vedere. Come durante il lockdown, quando ho dovuto accettare – sulla mia pelle- che in guerra non dovevano andare gli uomini, quelli che nel mentre erano poi diventati a tutti gli effetti componenti della sezione antiterrorismo della Procura di Milano e che erano stati capaci di ricercare i foreing fighter financo in Siria, nei territori dello Stato islamico. Perché invece io, e quell’uomo che è dentro di me, dovevo rimanere a Milano chiuso in casa, per 52 lunghissimi giorni da solo con due figli piccoli, ad aspettare una donna medico che tornasse, finalmente guarita, dal fronte.

Siamo passati con le ragazze e i ragazzi del nostro workshop scout, nei primi anni successivi a quella sparatoria a Palazzo di Giustizia, anche davanti alla stanza 250, al secondo piano. E abbiamo ascoltato, con le lacrime agli occhi, la testimonianza di un’altra Caterina, anche lei magistrato ma che quel giorno si trovava invece proprio nella stanza accanto a quella dove è stato ucciso il Giudice Fernando Ciampi, l’ultimo bersaglio. E pur non essendo presenti quel 9 aprile, anche quei giovani hanno finalmente visto.

E oggi, a distanza di 10 anni da quella sparatoria, dentro quell’Aula di udienza siamo stati tutti testimoni del dolore dei familiari delle vittime, ed in particolare di Alberta Brambilla Pisone, mamma dell’Avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani. Ritorna, per un attimo, sui sistemi di sicurezza mancanti quel giorno, “un teatrino di cartapesta” costato una montagna di soldi a carico dei contribuenti. Ma poi spiazza molti confidando che ha passato dieci anni, commemorazione dopo commemorazione, nel tenere vivo l’orgoglio di fare parte di una famiglia che ama il Diritto senza mai ricordare doverosamente chi fosse veramente suo figlio. E oggi, con parole così affettuose che solo una mamma è in grado di partorire, riesce a farcelo vedere, li ancora presente in quell’Aula mentre si accingeva a testimoniare.

E ricorda anche le sue ultime parole, “verità”, imprigionate dentro una fonoregistrazione di udienza prima del suono degli spari.

Per un attimo penso a Marisa Fiorani e alla nostra ricerca di quei nastri per far risuonare la voce di Marcella, ancora una volta dopo quel 24 giugno 1987 nella Questura di Lecce. Ma poi ritorno alla fatica delle parole di questa altra madre in piedi davanti a tutti noi, in questo 9 aprile del 2025, che a me sembra siano davvero generatrici di quel germoglio del racconto di Eliot. Una fatica capace di far ritornare i morti per cercare di fare – tutti – pace con loro.

Ed è in quel momento che l’affresco di “Adamo ed Eva dopo il peccato” che sta alle sue spalle, e che aveva catturato nuovamente il mio interesse anche ieri pomeriggio (in udienza, in quella stessa Aula 2 che ciascuno di noi ha frequentato anche negli anni successivi a 9 aprile 2015 con un senso di rimozione – a tratti meschino quanto utile per la naturale sopravvivenza della specie) mi sembra assumere un  significato nuovo. E mentre, per i casi della vita e del lavoro, mi tocca correre a prendere un treno ancora una volta per Firenze, penso anche a Daniela Marcone e al suo ultimo 31 marzo di fronte ai gradini dell’ingresso condominiale dove hanno ammazzato suo padre, ingresso che lei ogni santo giorno deve varcare per entrare ed uscire di casa.

E concordo che sarebbe davvero bello che quell’Angelo – al posto della spada – avesse portato oggi, anche in quest’Aula e in questo Palazzo (quasi una seconda casa per molti dei presenti), una benedizione.

Acqua capace di far crescere quel germoglio per prendersene davvero cura, acqua capace di pulire le ferite da quella terra sporca che i nostri occhi, troppo spesso distratti, contribuiscono ad infettare.

Siamo noi che scriviamo le lettere

 

Dal sito www.lostrappo.net potete ancora scaricare la nostra cartolina speciale creata per RAIRadio2 Caterpillar.

In questo primo giorno di primavera, ci sta a cuore che in tanti possiate indirizzare i vostri pensieri al Gruppo della trasgressione e ai giovani adulti detenuti a San Vittore,che riceveranno il vostro messaggio nei nostri prossimi incontri del progetto “Alla ricerca del padre” ad aprile e maggio.

🎙 Enzo Jannacci e Sara Zambotti
📸 Chiara Azzolari e Tania Morgigno
✏️ Andrea Spinelli

[Il nostro impegno in memoria delle vittime innocenti della criminalità organizzata🌹]

Materiali per Denaro Falso

Abbiamo trovato 9 classi (di licei ma anche di istituti professionali) per dare forma – dentro le mura del carcere di Opera e Bollate – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, dialogando insieme a chi ne ha già commessi parecchi e chi ne ha subiti alcuni.

Dopo la nostra lettera di invito, ecco le candidature che sono state accettate:

II G liceo classico (Tito Livo, Milano)
III liceo delle scienze umane (B. Melzi, Legnano)
III liceo socio economico (B. Melzi, Legnano)
IV A liceo scientifico sportivo (Leone XIII, Milano)
IV A liceo delle scienze applicate (E. Torricelli, Milano)
IV C liceo delle scienze applicate (E. Torricelli, Milano)
IV B istituto tecnico informatico (E. Torricelli, Milano)
IV G liceo scientifico (Einstein, Milano)
V istituto professionale per la sanità e l’assistenza sociale (B. Melzi, Legnano)

Siamo lieti di annunciare che l’incontro di restituzione pubblico dei risultati della nostra ricerca avverrà mercoledì 28 maggio 2025, dalle ore 16,30 alle ore 19.30, nell’ aula 211 della Università degli Studi di Milano, via Festa del Perdono – in collaborazione con il progetto carcere della Università Statale.

Tale incontro sarà preceduto da un laboratorio a numero chiuso per gli studenti universitari, sempre presso l’Università degli Studi di Milano (aula 433), che si terrà il 5 maggio 2025 dalle 17.00 alle 19.00.

Ecco i materiali per seguire anche a distanza la nostra ricerca (ulteriori informazioni anche sulla pagina Instagram de “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”):

Diari dell’esperienza al carcere di Opera

Il giro di boa

Attraverso il bosco

 

“guarda come son tranquilla io

anche se attraverso il bosco”

[Ron]

 

“Frate(llo) tu fai molti danni in queste parti, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza, e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto ardire d’uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se’ degno delle forche come ladro e omicida pessimo; e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t’è nemica. Ma io voglio, frate(llo), far la pace fra te e costoro, sicché tu non gli offenda più, ed eglino ti perdonino ogni passata offesa, e né li uomini né li cani ti perseguitino più”.

“Frate(llo), poiché ti piace di fare e di tenere questa pace, io ti prometto ch’io ti farò dare le spese continuamente, mentre tu viverai, dagli uomini di questa terra, sicché tu non patirai più fame; imperò che io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male. Ma poich’io t’accatto questa grazia, io voglio, frate(llo), che tu mi imprometta che tu non nocerai mai a nessuna persona umana né ad animale: promettimi tu questo?”.

“Udite, fratelli miei: (il) frate(llo) che è qui dinanzi da voi, sì m’ha promesso, e fattomene fede, di far pace con voi e di non offendervi mai in cosa nessuna, e voi gli promettete di dargli ogni dì le cose necessarie; ed io v’entro mallevadore per lui che ‘l patto della pace egli osserverà fermamente”.

 

Fioretti, capitolo XXI

Marisa Fiorani e il gruppo Trsg

Credo che la giornata di ieri sia andata bene e che gran parte dei presenti sia stata contenta delle 3 ore spese insieme.

È stato benevolmente notato, tuttavia, che nel corso dell’incontro si è prodotto uno sbilanciamento, essendosi tanto parlato dei percorsi di chi ha praticato il male e molto meno di chi lo ha subito.

A me sembra, tuttavia, che tale sbilanciamento (che nella quantificazione dei tempi è netto) può risultare spiacevole se Marisa Fiorani viene pensata come rappresentante del polo delle vittime e i detenuti come rappresentanti del polo dei carnefici (pur se “redenti”).

Dal mio punto di vista, è invece opportuno presentare Marisa e i detenuti come due poli che si arricchiscono vicendevolmente mentre vanno verso la luce di cui parlava Don Gianluigi, una luce che, per come ho inteso io, completa il suo lavoro quando i poli si ricongiungono.

In altre parole, quando Marisa viene presentata come componente attiva del gruppo più che come parte offesa, lo sbilanciamento non c’è più. Nella mia ottica, la funzione di Marisa e di Paolo Setti Carraro all’interno del gruppo della trasgressione è quella di lievito della coscienza più che di memoria della colpa e della ferita, cosa che ieri Matteo Manna ha espresso in modo chiaro e toccante.

Forse io, essendone il coordinatore, esalto troppo il ruolo e il lavoro del gruppo, una cosa è però certa: la coscienza di Matteo, come lui stesso dichiara, è stata chiamata dalle voci di Marisa e di Paolo e dal lavoro di tutto il gruppo.

La vocazione di San Matteo, Caravaggio

Per finire, ieri Marisa ha avuto meno tempo a disposizione di Matteo, Antonio, Adriano, Raffaele. Certo che sì, ma credo che Marisa e la figlia che porta nel cuore vincono soprattutto quando i detenuti parlano come hanno saputo parlare ieri e riconoscono Marisa come madrina della loro coscienza. Non a caso, chi ha partecipato all’iniziativa su Dostoevskij che abbiamo svolto nel carcere di Opera non ha avuto difficoltà a riconoscere in Marisa la Sonia di “Delitto e Castigo”.

Caravaggio in cittàGiustizia Riparativa

Il credito

Un credito, qualcosa che sentiamo ci sia stato tolto e pretendiamo ci sia ridato. Io. Tu. Stefano a cui è morto il fratello, poi il padre e che ha trovato rifugio nella droga. Marisa a cui la Sacra Corona unita ha portato via la figlia.

Ognuno di noi in questa stanza, in qualche momento, si sente creditore. Il debito è spesso d’amore, il debitore non sempre chiaro. A volte chiarissimo ma non escutibile e il credito insaldabile. In questi casi cosa si può fare? Chi lo deve pagare il mio credito?

Secondo Fabio, Giuseppe, Salvatore e gli altri detenuti questo credito per tutta la vita è stato visto come un qualcosa di non compensabile. Tutti loro odiano il padre che li ha abbandonati o che gli ha fatto mancare tutto quello che gli altri avevano. Hanno iniziato a delinquere perché questo credito qualcuno lo doveva pur pagare. Alla fine, lo hanno pagato loro. E lo stanno pagando tutt’ora dall’interno delle mura del carcere di Bollate.

Come dicevo anche Marisa ha un credito: sua figlia tossicodipendente, dopo una vita di abusi, ha tentato di collaborare con le istituzioni raccontando tutto ciò che aveva visto in sette anni. Quelle stesse istituzioni non sono riuscite a salvarla da chi la voleva far tacere. Marisa, davanti a quelli che il loro credito hanno provato a riscattarlo a danni di altri, ci racconta commossa come lei il suo credito continua a saldarlo giorno dopo giorno nelle carceri, a contatto con i detenuti che abbraccia e accoglie tutti. Così come Paolo, che non si dilunga sulla sua storia, già nota, ma, come Marisa, ci invita a riflettere su come è meglio viversi questo credito, in particolare su quanto quel credito che ognuno di noi crede di avere sia oggettivo e quanto invece sia solo una maschera che cela abusi dai quali ci si vuole deresponsabilizzare.

Un libro, I fratelli Karamazov, è al centro della nostra ricerca e forse ci può aiutare a rispondere ad alcune domande su questo credito, la mia ricerca personale, che si affianca alle ricerche di tutti gli altri presenti nell’Aula Dostoevskij, riguarda il ruolo della società in tutta questa faccenda del credito.

I quattro protagonisti del romanzo Dmitrij, Ivàn, Aleksej e Smerdjakov non sono in aula con noi mentre parliamo, ma è come se lo fossero, Salvatore a un certo punto dice infatti “A me nella vita è capitato di essere quattro fratelli in un solo uomo: come Dimitrij ero arrabbiato con mio padre, come Ivan non ho creduto, come Smerdjakov ho ucciso e come Aleksej alla fine mi sono rifugiato nella fede”. A questo punto il libro, diventa per noi subito un capolavoro, proprio perché lo stiamo leggendo insieme, all’interno del teatro di Bollate. Mi accorgo di questa fortuna quando torno a casa e racconto al tavolo della cena del primo incontro di questo progetto a cui sto partecipando e mia sorella mi dice “ma come fai a guardare in faccia una persona che ne ha uccisa un’altra”. Mi accorgo anche di quanto è difficile spiegare che dietro ad un fatto di reato c’è un uomo e che dall’azione deriva sicuramente una responsabilità penale, ma quell’uomo non è racchiudibile in quel fatto, c’è molto di più. Penso allora che probabilmente mia sorella se avesse letto il romanzo avrebbe, nel suo cuore, subito condannato Smerdjakov, uccisore materiale del padre, negandogli forse addirittura di parlare per spiegare, per lo meno, quale fosse il credito che sentiva di dover compensare in qualche modo. Le dico semplicemente che deve venire assolutamente a vedere con i suoi occhi, mi dice che ci sarà all’incontro di restituzione. Il 9 marzo è presente a Bollate all’incontro di restituzione e all’uscita mi dice solo “ho capito, grazie”.

A questo punto so di aver partecipato a qualcosa di importante e forse mi do anche una risposta alla domanda con cui ho iniziato questa ricerca: il ruolo della società in tutta questa faccenda del credito è innanzitutto riconoscere che un credito esiste. Se poi il credito viene riscosso in modo sbagliato e il creditore diventa debitore e si ritrova a dover giustamente rispondere delle proprie azioni, a volte parte della colpa è della stessa società che non è stata in grado di fornire gli strumenti o dei giusti modelli al creditore. Determinata la responsabilità per fatto di reato e nell’esecuzione della pena, il ruolo della società diventa quello di evitare lo stigma che ci impedisce di vedere e soprattutto riconoscere dietro il fatto più o meno grave un uomo, proprio come tutti noi. Questa è la missione più importante della società e ciò che consente alla nostra Costituzione di non restare lettera morta quando al suo articolo 27 comma 3 ci dice che le pene devono tendere alla “rieducazione”, meglio risocializzazione del condannato.

Maria Valenti

I Conflitti della famiglia Karamazov

Il romanzo dalle mille sfaccettature

Prima di condividere la mia testimonianza ho voluto aspettare il termine dell’ultimo incontro e ora, finalmente, penso di aver maturato un pensiero abbastanza completo e consapevole circa l’esperienza che stiamo svolgendo.

Conclusa una prima lettura del romanzo “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij, ho provato ad effettuare una seconda ri-lettura, ponendo uno “sguardo trasversale” tra i vari capitoli e ho notato che, paragrafo dopo paragrafo, l’autore indaga numerosissimi aspetti dell’animo umano: la complessità dei rapporti familiari, il contrastato rapporto con Dio, l’ascolto reciproco, i tradimenti, la sofferenza dei bambini, il perdono, la violenza – fisica e verbale- , la capacità di saper scegliere cosa è Bene e cosa è Male, l’attaccamento al denaro, le fragilità ed insicurezze dell’essere umano.

In particolare, mi hanno colpita i numerosissimi intrecci relazionali tra i vari personaggi, con le loro diversità, che contribuiscono a creare una storia dinamica ed appassionante.

Sicuramente, di importanza fondamentale per la narrazione è il rapporto tra il padre ed i quattro fratelli.

Il vecchio Fëdor si mostra da subito tanto superficiale nella gestione della vita privata quanto poco presente nella crescita dei suoi figli. Si pone in contrasto con il suo primogenito per questioni economiche e sentimentali (ha un grande debito da saldare ed entrambi sono innamorati della stessa donna dal fascino misterioso: l’usuraia Grušenka)

Dmitrij mostra in più occasioni una indole violenta e passionale. Cova dentro di sé un forte desiderio di riscatto e vendetta nei confronti del padre per le ingiustizie subite e per l’infanzia negata che, però, non sfoceranno in alcun gesto estremo. In lui batte un cuore buono, ma ancora disorientato ed impulsivo.

Il secondogenito Ivàn, al contrario, non condivide le scelte di vita del fratello e del padre e si dimostra una persona intelligente, colta e distaccata. In più occasioni affronta tematiche religiose, morali ed esistenziali, offrendo al lettore importanti spunti di riflessione.

Il terzogenito, Alëša, è il personaggio con cui è più facile entrare in sintonia: rappresenta la forma positiva dell’impetuosità karamazoviana ed è un importante punto di riferimento per gli altri personaggi: ragazzo devoto ed altruista, non volta mai le spalle a nessuno e la sua opinione, sincera e disinteressata, ha spesso un peso molto rilevante nelle scelte altrui.

Infine, abbiamo Smerdjakov, il quarto figlio, considerato come “illegittimo” e trattato alla stregua di un servo. La sua personalità presenta numerosi lati oscuri: instabilità, rancore e pensieri diabolici, che saranno la causa del suo tragico epilogo: l’omicidio del padre ed il suicidio.

Questo romanzo è sicuramente molto complesso ma altrettanto affascinante: nonostante risalga a più di cent’anni fa, rispecchia perfettamente la società odierna. È interessante notare come, all’interno di un nucleo familiare, le medesime origini dei componenti portino ad esiti molto diversi e quanto sia rilevante per la crescita di un figlio ricevere amore incondizionato ed attenzioni da parte dei propri genitori.

Un bambino ha il sacrosanto diritto di essere accudito con affetto, in un ambiente sereno e pacifico ma, qualora ciò non avvenga, da adulto dovrà trovare la forza di reagire e spezzare la catena negativa di soprusi e violenze a cui, suo malgrado, è stato sottoposto, per evitare di infliggere altro dolore.

Ascoltando le preziosissime testimonianze delle persone detenute, ci si rende conto di quanto ciò sia effettivamente reale: la maggior parte dei reati da loro commessi deriva proprio da un grandissimo vuoto affettivo e dal desiderio di gridare la loro esistenza.

All’interno del romanzo è dedicato ampio spazio anche alla tematica religiosa-esistenziale ed, in particolare, al travagliato rapporto Dio-Uomo: si alternano momenti di grande fede a momenti di totale negazione.

Il capitolo sicuramente più rappresentativo è “Il grande inquisitore”, da tutti considerato come il punto sommo dell’opera. Il racconto immaginario, narrato da Ivàn ad Alëša, è ambientato ai tempi dell’Inquisizione Spagnola e si svolge come una parabola il cui protagonista è Gesù in persona, che sceglie di ritornare sulla terra. Il Grande Inquisitore, rappresentante dell’autorità religiosa e politica, cattura Gesù appena arrivato a Siviglia e lo imprigiona. In un lungo monolgo, egli critica fortemente il messaggio di libertà e amore che Cristo vuole diffondere: è troppo complesso e la maggior parte delle persone vanno alla ricerca di sicurezza e controllo. La felicità terrena è sicuramente più realizzabile di quella eterna. Questo era il progetto dell’Inquisizione: portare una felicità che fosse a portata di tutti, poiché l’uomo non poteva ambire a nulla di più. Dostoevskij attraverso la voce del Grande Inquisitore esplora la complessità della natura umana, la nostra tendenza a cercare la sicurezza e l’ordine anche a costo della libertà.

Un altro episodio che merita una menzione è l’incontro al monastero tra i fratelli, il padre e lo Starec Zosima – la guida spirituale. Quest’ultimo tenta di convincerli a riconciliarsi, sostenendo che tutto il loro odio porterà soltanto ad altra violenza e che bisogna essere caritatevoli nei confronti del prossimo, proprio come insegna Dio.

Tra le sue frasi celebri, questa rappresenta al meglio la sua persona: “Ogni filo d’erba, ogni scarabeo, ogni formica, ogni piccola ape dorata conosce stupendamente il suo cammino e, pur non avendo l’intelligenza, testimonia il mistero divino, che si esprime in essi in ogni istante”.

Un terzo momento significativo e carico di tensione è il dialogo tra Ivàn ed il Diavolo. Ivàn era gravemente malato, con forti allucinazioni, e questo incontro avvenne proprio alla vigilia della febbre cerebrale con cui si presenta al processo del fratello. Il Diavolo viene immaginato come un signore dal bell’aspetto con capelli lunghi, brizzolati ed una folta barba.

Ivàn pronuncia frasi quali: “Sto delirando, non riuscirai a convincermi della tua esistenza. Tu non sei reale! Sei una malattia! Sei una menzogna!” E ancora: “Tu sei me, solo con un muso diverso. Dici esattamente quello che io penso”.

Ed il Diavolo risponde così: “E’ retrogrado credere in Dio ma io sono il Diavolo, in me si può credere. Quando inizi a non credere in me, inizi a credere che non sono un sogno. Io faccio soffrire, ma senza sofferenza nulla esisterebbe”.

Da questi spezzoni del dialogo si può facilmente intuire come vi sia una contrapposizione nella mente di Ivàn: da un lato la negazione, continuando a ripetere che il Diavolo sia solo una fantasia della sua mente malata, dall’altro lato la convinzione di non essere solo nella stanza, che culmina con il lancio di un bicchiere perché “Se non sei reale non ti posso colpire”.

In questi episodi notiamo come l’uomo cerchi di rinnegare l’esistenza di un’entità non terrena ma, allo stesso tempo, ne continua a parlare, come se l’idea della sua esistenza lo tranquillizzasse e, in un certo senso, ammettesse di averne bisogno.

Un ultimo momento, a mio avviso, significativo del romanzo è uno dei dialoghi conclusivi tra l’accusa e la difesa, all’interno dell’aula del tribunale, durante il processo a Dmitrij.

La prima afferma: “Se non lo condanniamo ne va a discapito di tutta la città..” La seconda afferma: “Se anche fosse colpevole, bisogna tenere in considerazione i motivi che lo hanno spinto a compiere tale gesto e tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare nel corso della vita,…”

Nella seconda affermazione noto un grande senso di umanità: la considerazione della persona nella sua totalità, non soltanto limitatamente al gesto che potrebbe aver commesso.

Nella prima affermazione, invece, riscontro tanta superficialità, come se fosse più importante trovare un capro espiatorio da sacrificare piuttosto che ricercare la verità. Sicuramente, condannare Dmitrij sarebbe stata la strada più facile e che avrebbe accontentato un maggior numero di persone.

Purtroppo, questo atteggiamento è ancora presente oggigiorno, non all’interno delle aule di tribunale ma tra le strade della città: assisto, sempre più spesso, a giudizi cattivi ed affrettati nei confronti di terze persone, dettati magari soltanto dal differente status sociale o dalla differente etnia di appartenenza.

In conclusione, la lettura del romanzo e, in generale, l’esperienza all’interno del carcere, mi stanno arricchendo moltissimo, dal punto di vista personale e professionale.

Ciò che più mi stanno insegnando è che bisogna avere un punto di vista ampio sulle cose e, soprattutto, non bisogna mai essere indifferenti nella vita – davanti ad una richiesta di aiuto, ad una persona sola o di fronte ad una situazione di violenza.

Nel nostro piccolo, il contributo di ciascuno di noi può essere immenso.

Elena Forzani

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Caterpillar Radio RAI2 19/03/24

Signori, presto ci separeremo. Per qualche tempo io sarò con i miei due fratelli, dei quali uno sarà deportato e l’altro giace malato, in pericolo di morte. Ma ben presto lascerò questa città e, forse, per molto tempo. Stringiamo un patto qui presso il macigno di IlJusa: che non ci dimenticheremo prima di tutto di Iljuseeka e poi l’uno dell’altro. E qualunque cosa ci accada in futuro nella vita, anche se non dovessimo incontrarci per i prossimi vent’anni, dobbiamo sempre continuare a ricordare il giorno in cui abbiamo sepolto il povero ragazzo, al quale in passato avevamo tirato i sassi presso il ponticello – ve lo ricordate?- e di come poi abbiamo tutti preso ad amarlo. E, per quanto possiamo essere impegnati in cose della massima importanza, per quanto possiamo avere ottenuto grandi onori o essere precipitati in qualche grande disgrazia, in nessun caso dobbiamo dimenticare di come siamo stati bene un tempo, qui tutti insieme, uniti da un sentimento così nobile e buono, che ha reso anche noi, per il periodo in cui abbiamo amato il povero ragazzo, migliori forse di quello che siamo in realtà.

Aleksej da I Fratelli Karamazov

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Libertà fa rima con responsabilità

Desidero ringraziare di cuore chi mi ha dato la possibilità di prendere la parola durante la serata del 9 marzo: per me è stato un onore poter offrire uno spaccato, a nome di tutti i partecipanti al progetto, di quanto fatto in occasione dei nostri incontri.

Inizialmente ho pensato sarebbe stato davvero difficile restituire, in una sola serata, un lavoro di cinque giornate. Invece, penso che la restituzione si sia svolta in maniera efficace dando voce a persone che, nonostante le diverse esperienze professionali e di vita, sono accomunate dalla voglia di riflettere in ordine ad un tema comune e, soprattutto, legate da un unico comun denominatore: il rispetto per l’uomo in quanto tale.

Una domanda cui non riuscivo a trovare risposta all’inizio ma alla quale – grazie a questo meraviglioso percorso di scoperta dell’altro e di noi stessi – penso di poter rispondere ora, è la seguente: “Cosa significa per me libertà?”

Per me libertà significa “scelta responsabile”. Da oggi e per il futuro voglio scegliere, responsabilmente, di non accontentarmi della risposta più facile e conveniente, ricercando la mia verità. Mi impegno, inoltre, a cercare di condividere questa mia verità con chi ancora crede si possa distinguere rigidamente tra chi è dentro e chi è fuori, tra i detenuti e la società libera, tracciando una linea netta tra buoni e cattivi, aiutando l’altro a cogliere le sfumature.

Margherita Viglione, studentessa della Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Rimettere il debito per guadagnare libertà

Vi scrivo per ringraziarvi per la bellissima visione dello spettacolo presso il carcere di Bollate, e tramite voi ringraziare anche e soprattutto le persone detenute, l’organizzazione del carcere, i membri della vostra associazione, i ragazzi universitari e i rappresentanti di magistratura e camere penali, i quali – con la loro partcipazione – hanno reso possibile l’evento.
Vi ringrazio anche come padre perché avete dato a mia figlia, Maria Bianca Valenti,  studentessa di giurisprudenza e scout, la possibilità di fare una bellissima esperienza nel gruppo di ricerca.

Aggiungo una breve riflessione sulle cose dette, che in sé  mi sono sembrate indimenticabili. Questa riflessione è nelle cose stesse che avete detto, non aggiungo nulla, salvo forse un punto alla fine.

  • Se ho capito bene, noi esseri umani ci inoltriamo nella strada che giunge al delitto quando in noi sorge l’idea di avere un credito nei confronti del nostro prossimo e dei mondi che ci circondano (aristotelicamente: famiglia, padre, madre, fratelli e sorelle, servi, vicinato, ‘polis’, popolo, stato,…).
  • L’idea di ‘avere un credito’, può sorgere in seguito ad accadimenti e sofferenze profonde che stravolgono il cuore umano (‘voglio riparazione’), o  al contrario può sorgere nel vuoto sterile dell’intelligenza (‘voglio realizzare la giustizia’) e persino nel e per il godimento dell’agiatezza (‘voglio di più’).
  • L’essere creditori e questa strada  su cui ci siamo inoltrati, ‘colorano’ il nostro essere nel mondo e gli incontri che facciamo: tutto ciò che ci viene incontro è sotto la volta celeste del nostro ‘credito’: tutto e tutti sono ‘debitori’. Da quel momento, nel tempo dell’avere un credito, tutto accade sotto l’insegna della domanda (rabbiosa, o vendicativa o bramosa): “chi sono, dove sono i miei debitori?”. Il delinquente risponde sempre: ‘eccoli i miei debitori: mio padre dissoluto e indegno, mia madre debole e incapace di difendermi e darmi ciò che chiedo, il mio vicino di casa che mi guarda di traverso,il portiere,  il parroco, i passanti, i ricchi, i politici, Dio che non ha pietà di me, etc.’
  • Una volta sorta l’idea di avere un credito, può venire intrapresa la strada che porterà al delitto, strada lungo la quale tutti ci si presentano come debitori … dunque quando e perché commettiamo il delitto? Lo commettiamo quando nell’aula del tribunale del nostro cuore e lungo la strada del crimine ad un certo punto ‘emettiamo la sentenza di riscossione del credito’ e la eseguiamo seduta stante. E’ in questo senso che il dr Aparo penso abbia detto che il delinquente commette il crimine per un senso di “giustizia”, per riequilibrare la bilancia tra credito e debito.
  • Al di là del cercare le prove del crimine, il crimine stesso è la prova del percorso che lo ha generato. Sorge un paradosso, cui penso il dr Aparo accennava: l’imputato qualora fosse ‘colpevole’ dovrebbe essere alla fine del processo ‘togato per essersi erto a giudice e per avere emesso ed eseguito una sentenza’: il colpevole è colpevole di essersi autoeletto arbitrariamente giudice ed esecutore di una sentenza. Il processo è in questo senso la ricostruzione e la lettura del disponsitivo e della sentenza criminale che ha generato il delitto. Il processo è lo specchio del processo interiore del delinquente.
  • E’ in questo senso corretto pensare, come diceva il dr Aparo, che il delinquente è un parricida e un matricida. Lui, lei sono parricidi e matricidi alla luce del loro pensiero che padre e madre sin dall’origine “avrebbero dovuto dare il credito che spettava al figlio”: per il delinquente, ma siamo tutti delinquenti in questo, sono il padre e la madre ad essere i primi debitori verso i figli.

Concludo provando a rispondere alla questione della libertà. Cosa vuol dire ‘liberarsi’ ed ‘essere liberi’ in questo caso, una volta sorta l’idea dell’avere un credito da riscuotere, una volta acquisito il dirito al rancore e, infine, una volta scelta la via del crimine?

La giustizia criminale è meccanica e consequenziale, è necessitata dalla logica economica del dare – avere, è generata dalla legge della reciprocità. Credo che essere liberi e liberarsi sia invece una conseguenza della “remissione dei debiti”: ‘e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Essere liberi vuol dire liberarsi della e dalla reciprocità. Senza questa remissione dei debiti e senza questa dismissione della reciprocità, non siamo mai liberi.

La libertà è ‘libero perdono’. Ossia è il dono eccessivo e potente che ha la capacità e la forza di rimuovere l’idea originaria dell’avere un credito e dell’avere dei debitori. E’ un muoversi ricco e diverso nella logica del “credito”.

Grazie al perdono, ossia al dono eccessivo, noi non siamo più né ‘creditori’, né ‘debitori’, ma diventiamo quei ‘liberi’ che gratuitamente danno una misura abbondante di credito all’altro, al prossimo. Dando una misura di credito, attenzione, ascolto, permettiamo all’altro di non sentirsi mai ‘creditore’. E mettendo chiaramente di fronte all’altro la nostra libertà e la gratuità del nostro dargli credito, permettiamo all’altro di sentirsi libero di ricevere senza essere a sua volta ‘debitore’, nella speranza che l’altro divenga a sua volta un “perdonatore”.

Vi ringrazio per la bellissima esperienza, con stima vi saluto

Davide Valenti

I Conflitti della famiglia Karamazov