Tutti sono colpevoli per tutti

Rancore è una malattia dell’animo; la si soffre perché il rancore non consente all’animo di respirare. È una malattia infettiva, perché il contagio sembra non aver fine, paragonabile ad una epidemia globale che coinvolge (in un modo o in un altro, in un momento o in un altro) tutti o quasi. Tutti sono colpevoli per tutti, leggiamo ne “I fratelli Karamazov”.

Ma ci può essere una cura?
Forse, ma la cura è molto più difficile e, per certi versi, più penosa della malattia stessa. La cura è individuale e quindi discende da una scelta individuale. Ed è talmente faticoso il percorso.
Ragion per cui molti oppongono un rifiuto assoluto e si radicalizzano nella affermazione, nella rivendicazione di un diritto a mantenere in cuore il proprio rancore. Ne discende che non praticano la cura e, soffrendo, si arrovellano nella malattia che si aggrava.

Ma quale, alla fine, potrebbe essere la cura? La cura è il perdono, in primo luogo il perdono di sé. Cosa che non significa assolversi, liberarsi della colpa e della pena. Ma prenderne coscienza.

Non significa annullare la responsabilità dei sentimenti, dei gesti, degli atti compiuti o suggeriti. Significa accertare, nella propria coscienza, anche le cause, i torti subiti, i problemi creati e gli errori commessi.

Ma se tutti siamo colpevoli per tutti ed io arrivo al perdono di me stesso, dopo aver esaminato i fatti ed essermene assunto la quota di responsabilità, dovrò agire di conseguenza e compiere lo stesso percorso, questa volta in direzione di chi suscita in me tanto rancore.

Senza assolvere a priori colui o coloro che hanno suscitato in me tale stato d’animo, dovrò arrivare, anche senza esprimerlo (se dovesse rivelarsi troppo difficile il farlo), al perdono.

 

RANCORE

La belva da dentro, feroce, ti rode,
offusca la vista, la mente corrode.
Rancore, dell’anima è malattia,
infetta la vita, la rende follia.

Contagia e ammorba davver ogni cosa,
nessuno ne è esente, la morte ne è sposa.
Se non si combatte la belva assassina,
produce gli effetti di una vera tossina.

Tutti colpevoli lo sono per tutti.
Vivon di odio, disseminan lutti.
Ma di tal morbo, può esservi cura?
Difficil, penosa, la strada è insicura.

La cura è il perdono, in primis di sé:
mai assolti, colpa e pena restan con te.
Ne prendi coscienza, la scelta è sol tua,
la rotta è già persa, l’onda schianta la prua.

A tale percorso ognuno si oppone,
Rifiuto assoluto e rivendicazione
di un tuo diritto a preservare il rancore
e intanto la belva, dentro, ti sbrana il cuore.

Resti responsabile dei tuoi sentimenti,
dei gesti, degli atti, dei tanti infingimenti.
Scruta nell’anima, scava nella tua coscienza,
accerta cause e torti subiti, con precisa cadenza.

Se tutti siam colpevoli per tutti
ed se arrivi al perdono di te, tra i flutti,
ti sei assunto la tua quota di responsabilità,
ora liberati dalla belva e giudica con equità.

Riprendi lo stesso percorso, con coerenza,
questa volta hai di fronte chi rovina la tua esistenza.
Ti sei inerpicato su un sentiero scosceso,
ma alla fine, col perdono di te, sei ridisceso.

Senza dover assolvere a priori alcuno,
sentiti ora libero, perché sei unico e uno
e per la forza che non ti è ancora sfuggita
giungi alla fine del rancore e riprenditi la vita

Guido Podestà

Nominare il rancore

Credo sia proprio vero che, se per anni si costruisce la propria identità sul rancore, abbandonare quest’ultimo è un’impresa: equivale a concedere a sé stessi di lasciar andare uno scheletro che, per molto tempo, ha sorretto la propria persona; fa paura l’idea di doverlo sostituire e ricostruire su basi differenti; si corre il rischio di rimanere o sentirsi privi di un appoggio al quale aggrapparsi in momenti di difficoltà. Se provo rancore nei confronti di qualcuno, posso contare su di esso per non smarrirmi quando la persona in questione mi ferisce. Il rancore è un’armatura che sì, protegge dal dolore, ma che in ogni caso limita la libertà di chi la indossa.

Nel momento in cui si manifesta, il rancore trova espressione nel male, che sia esso prodotto a danni di altri o di sé; un male che, gradualmente e in maniera inconsapevole, diventa parte della quotidianità di chi lo esercita. Il rancore è, insomma, una trappola che promette sicurezza in cambio della distruzione dell’individuo, del suo rapporto con gli altri e con la realtà.

Il rancore, oltretutto, induce la persona a trovare delle giustificazioni valide per poterlo sentire come un proprio diritto e questo porta a stravolgere l’esame delle cose (a volte, le ragioni che vengono accampate possono risultare comprensibili, ma valide non lo sono mai). Ma in definitiva, con o senza giustificazioni, il rancore è doloroso, fa star male, ci si sente pidocchi, per citare Dostoevskij.

Io, per esempio, sento di provare il timore di un confronto con mio padre; è una duplice paura: da un lato, c’è il rischio di sentirmi ferita per l’ennesima volta, un dolore al quale non saprei davvero come reagire; dall’altro, però, c’è il timore che invece il confronto porti a qualcosa di arricchente, a un punto in comune dal quale partire per costruire una relazione sana; vorrebbe dire dover ammettere con me stessa che mio padre non si merita il rancore che provo nei suoi confronti, e magari realizzare che non se lo è mai meritato. Spaventoso!

E intanto che scrivo, mi rendo conto di provare, oltre alla frustrazione, un fondo di ”simil soddisfazione” ogni volta che trovo giustificazioni al mio senso di tradimento da parte sua, giustificazioni che ho, appunto, timore di perdere dopo un dialogo con lui. Me ne vergogno, lo trovo orribile, è conseguenza dell’attaccamento al rancore di cui si è parlato recentemente al gruppo.

Eccolo un primo strumento per iniziare a sciogliere i nodi del rancore: nominare le cose rendendole più tangibili, trovargli una collocazione nella realtà; è il lavoro che si svolge al tavolo del Gruppo, che ciò derivi dal dialogo tra i vari componenti o dalla produzione di uno scritto sul quale, poi, confrontarsi insieme.

In relazione all’argomento in questione, si è parlato anche di bilance tarate male: in un conflitto, ogni persona coinvolta possiede una propria bilancia per pesare il “diritto alla vendetta” che il male inflitto e subito “autorizza”, e le due (o più) tarature non coincidono mai tra loro.

Credo che un altro strumento utile a slegare i nodi sia proprio un confronto, in un primo momento, sulle due bilance difettose, e, a seguire, la ricerca di una bilancia comune. É impossibile rinunciare al rancore nei confronti dell’altro se non ci si concede di interagirci, per comprenderlo e per tentare di farsi comprendere; non si può crescere scegliendo di rimanere all’oscuro del sentire dell’altro, sia il conflitto tra padre e figlia o tra istituzione e delinquente.

É dalla condivisione dei diversi punti di vista che nasce, poi, la possibilità di adottare una nuova bilancia, ben funzionante e leggibile per tutti.

Beatrice Ajani

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca
Genitori e figli

Il credito

Un credito, qualcosa che sentiamo ci sia stato tolto e pretendiamo ci sia ridato. Io. Tu. Stefano a cui è morto il fratello, poi il padre e che ha trovato rifugio nella droga. Marisa a cui la Sacra Corona unita ha portato via la figlia.

Ognuno di noi in questa stanza, in qualche momento, si sente creditore. Il debito è spesso d’amore, il debitore non sempre chiaro. A volte chiarissimo ma non escutibile e il credito insaldabile. In questi casi cosa si può fare? Chi lo deve pagare il mio credito?

Secondo Fabio, Giuseppe, Salvatore e gli altri detenuti questo credito per tutta la vita è stato visto come un qualcosa di non compensabile. Tutti loro odiano il padre che li ha abbandonati o che gli ha fatto mancare tutto quello che gli altri avevano. Hanno iniziato a delinquere perché questo credito qualcuno lo doveva pur pagare. Alla fine, lo hanno pagato loro. E lo stanno pagando tutt’ora dall’interno delle mura del carcere di Bollate.

Come dicevo anche Marisa ha un credito: sua figlia tossicodipendente, dopo una vita di abusi, ha tentato di collaborare con le istituzioni raccontando tutto ciò che aveva visto in sette anni. Quelle stesse istituzioni non sono riuscite a salvarla da chi la voleva far tacere. Marisa, davanti a quelli che il loro credito hanno provato a riscattarlo a danni di altri, ci racconta commossa come lei il suo credito continua a saldarlo giorno dopo giorno nelle carceri, a contatto con i detenuti che abbraccia e accoglie tutti. Così come Paolo, che non si dilunga sulla sua storia, già nota, ma, come Marisa, ci invita a riflettere su come è meglio viversi questo credito, in particolare su quanto quel credito che ognuno di noi crede di avere sia oggettivo e quanto invece sia solo una maschera che cela abusi dai quali ci si vuole deresponsabilizzare.

Un libro, I fratelli Karamazov, è al centro della nostra ricerca e forse ci può aiutare a rispondere ad alcune domande su questo credito, la mia ricerca personale, che si affianca alle ricerche di tutti gli altri presenti nell’Aula Dostoevskij, riguarda il ruolo della società in tutta questa faccenda del credito.

I quattro protagonisti del romanzo Dmitrij, Ivàn, Aleksej e Smerdjakov non sono in aula con noi mentre parliamo, ma è come se lo fossero, Salvatore a un certo punto dice infatti “A me nella vita è capitato di essere quattro fratelli in un solo uomo: come Dimitrij ero arrabbiato con mio padre, come Ivan non ho creduto, come Smerdjakov ho ucciso e come Aleksej alla fine mi sono rifugiato nella fede”. A questo punto il libro, diventa per noi subito un capolavoro, proprio perché lo stiamo leggendo insieme, all’interno del teatro di Bollate. Mi accorgo di questa fortuna quando torno a casa e racconto al tavolo della cena del primo incontro di questo progetto a cui sto partecipando e mia sorella mi dice “ma come fai a guardare in faccia una persona che ne ha uccisa un’altra”. Mi accorgo anche di quanto è difficile spiegare che dietro ad un fatto di reato c’è un uomo e che dall’azione deriva sicuramente una responsabilità penale, ma quell’uomo non è racchiudibile in quel fatto, c’è molto di più. Penso allora che probabilmente mia sorella se avesse letto il romanzo avrebbe, nel suo cuore, subito condannato Smerdjakov, uccisore materiale del padre, negandogli forse addirittura di parlare per spiegare, per lo meno, quale fosse il credito che sentiva di dover compensare in qualche modo. Le dico semplicemente che deve venire assolutamente a vedere con i suoi occhi, mi dice che ci sarà all’incontro di restituzione. Il 9 marzo è presente a Bollate all’incontro di restituzione e all’uscita mi dice solo “ho capito, grazie”.

A questo punto so di aver partecipato a qualcosa di importante e forse mi do anche una risposta alla domanda con cui ho iniziato questa ricerca: il ruolo della società in tutta questa faccenda del credito è innanzitutto riconoscere che un credito esiste. Se poi il credito viene riscosso in modo sbagliato e il creditore diventa debitore e si ritrova a dover giustamente rispondere delle proprie azioni, a volte parte della colpa è della stessa società che non è stata in grado di fornire gli strumenti o dei giusti modelli al creditore. Determinata la responsabilità per fatto di reato e nell’esecuzione della pena, il ruolo della società diventa quello di evitare lo stigma che ci impedisce di vedere e soprattutto riconoscere dietro il fatto più o meno grave un uomo, proprio come tutti noi. Questa è la missione più importante della società e ciò che consente alla nostra Costituzione di non restare lettera morta quando al suo articolo 27 comma 3 ci dice che le pene devono tendere alla “rieducazione”, meglio risocializzazione del condannato.

Maria Valenti

I Conflitti della famiglia Karamazov

Il romanzo dalle mille sfaccettature

Prima di condividere la mia testimonianza ho voluto aspettare il termine dell’ultimo incontro e ora, finalmente, penso di aver maturato un pensiero abbastanza completo e consapevole circa l’esperienza che stiamo svolgendo.

Conclusa una prima lettura del romanzo “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij, ho provato ad effettuare una seconda ri-lettura, ponendo uno “sguardo trasversale” tra i vari capitoli e ho notato che, paragrafo dopo paragrafo, l’autore indaga numerosissimi aspetti dell’animo umano: la complessità dei rapporti familiari, il contrastato rapporto con Dio, l’ascolto reciproco, i tradimenti, la sofferenza dei bambini, il perdono, la violenza – fisica e verbale- , la capacità di saper scegliere cosa è Bene e cosa è Male, l’attaccamento al denaro, le fragilità ed insicurezze dell’essere umano.

In particolare, mi hanno colpita i numerosissimi intrecci relazionali tra i vari personaggi, con le loro diversità, che contribuiscono a creare una storia dinamica ed appassionante.

Sicuramente, di importanza fondamentale per la narrazione è il rapporto tra il padre ed i quattro fratelli.

Il vecchio Fëdor si mostra da subito tanto superficiale nella gestione della vita privata quanto poco presente nella crescita dei suoi figli. Si pone in contrasto con il suo primogenito per questioni economiche e sentimentali (ha un grande debito da saldare ed entrambi sono innamorati della stessa donna dal fascino misterioso: l’usuraia Grušenka)

Dmitrij mostra in più occasioni una indole violenta e passionale. Cova dentro di sé un forte desiderio di riscatto e vendetta nei confronti del padre per le ingiustizie subite e per l’infanzia negata che, però, non sfoceranno in alcun gesto estremo. In lui batte un cuore buono, ma ancora disorientato ed impulsivo.

Il secondogenito Ivàn, al contrario, non condivide le scelte di vita del fratello e del padre e si dimostra una persona intelligente, colta e distaccata. In più occasioni affronta tematiche religiose, morali ed esistenziali, offrendo al lettore importanti spunti di riflessione.

Il terzogenito, Alëša, è il personaggio con cui è più facile entrare in sintonia: rappresenta la forma positiva dell’impetuosità karamazoviana ed è un importante punto di riferimento per gli altri personaggi: ragazzo devoto ed altruista, non volta mai le spalle a nessuno e la sua opinione, sincera e disinteressata, ha spesso un peso molto rilevante nelle scelte altrui.

Infine, abbiamo Smerdjakov, il quarto figlio, considerato come “illegittimo” e trattato alla stregua di un servo. La sua personalità presenta numerosi lati oscuri: instabilità, rancore e pensieri diabolici, che saranno la causa del suo tragico epilogo: l’omicidio del padre ed il suicidio.

Questo romanzo è sicuramente molto complesso ma altrettanto affascinante: nonostante risalga a più di cent’anni fa, rispecchia perfettamente la società odierna. È interessante notare come, all’interno di un nucleo familiare, le medesime origini dei componenti portino ad esiti molto diversi e quanto sia rilevante per la crescita di un figlio ricevere amore incondizionato ed attenzioni da parte dei propri genitori.

Un bambino ha il sacrosanto diritto di essere accudito con affetto, in un ambiente sereno e pacifico ma, qualora ciò non avvenga, da adulto dovrà trovare la forza di reagire e spezzare la catena negativa di soprusi e violenze a cui, suo malgrado, è stato sottoposto, per evitare di infliggere altro dolore.

Ascoltando le preziosissime testimonianze delle persone detenute, ci si rende conto di quanto ciò sia effettivamente reale: la maggior parte dei reati da loro commessi deriva proprio da un grandissimo vuoto affettivo e dal desiderio di gridare la loro esistenza.

All’interno del romanzo è dedicato ampio spazio anche alla tematica religiosa-esistenziale ed, in particolare, al travagliato rapporto Dio-Uomo: si alternano momenti di grande fede a momenti di totale negazione.

Il capitolo sicuramente più rappresentativo è “Il grande inquisitore”, da tutti considerato come il punto sommo dell’opera. Il racconto immaginario, narrato da Ivàn ad Alëša, è ambientato ai tempi dell’Inquisizione Spagnola e si svolge come una parabola il cui protagonista è Gesù in persona, che sceglie di ritornare sulla terra. Il Grande Inquisitore, rappresentante dell’autorità religiosa e politica, cattura Gesù appena arrivato a Siviglia e lo imprigiona. In un lungo monolgo, egli critica fortemente il messaggio di libertà e amore che Cristo vuole diffondere: è troppo complesso e la maggior parte delle persone vanno alla ricerca di sicurezza e controllo. La felicità terrena è sicuramente più realizzabile di quella eterna. Questo era il progetto dell’Inquisizione: portare una felicità che fosse a portata di tutti, poiché l’uomo non poteva ambire a nulla di più. Dostoevskij attraverso la voce del Grande Inquisitore esplora la complessità della natura umana, la nostra tendenza a cercare la sicurezza e l’ordine anche a costo della libertà.

Un altro episodio che merita una menzione è l’incontro al monastero tra i fratelli, il padre e lo Starec Zosima – la guida spirituale. Quest’ultimo tenta di convincerli a riconciliarsi, sostenendo che tutto il loro odio porterà soltanto ad altra violenza e che bisogna essere caritatevoli nei confronti del prossimo, proprio come insegna Dio.

Tra le sue frasi celebri, questa rappresenta al meglio la sua persona: “Ogni filo d’erba, ogni scarabeo, ogni formica, ogni piccola ape dorata conosce stupendamente il suo cammino e, pur non avendo l’intelligenza, testimonia il mistero divino, che si esprime in essi in ogni istante”.

Un terzo momento significativo e carico di tensione è il dialogo tra Ivàn ed il Diavolo. Ivàn era gravemente malato, con forti allucinazioni, e questo incontro avvenne proprio alla vigilia della febbre cerebrale con cui si presenta al processo del fratello. Il Diavolo viene immaginato come un signore dal bell’aspetto con capelli lunghi, brizzolati ed una folta barba.

Ivàn pronuncia frasi quali: “Sto delirando, non riuscirai a convincermi della tua esistenza. Tu non sei reale! Sei una malattia! Sei una menzogna!” E ancora: “Tu sei me, solo con un muso diverso. Dici esattamente quello che io penso”.

Ed il Diavolo risponde così: “E’ retrogrado credere in Dio ma io sono il Diavolo, in me si può credere. Quando inizi a non credere in me, inizi a credere che non sono un sogno. Io faccio soffrire, ma senza sofferenza nulla esisterebbe”.

Da questi spezzoni del dialogo si può facilmente intuire come vi sia una contrapposizione nella mente di Ivàn: da un lato la negazione, continuando a ripetere che il Diavolo sia solo una fantasia della sua mente malata, dall’altro lato la convinzione di non essere solo nella stanza, che culmina con il lancio di un bicchiere perché “Se non sei reale non ti posso colpire”.

In questi episodi notiamo come l’uomo cerchi di rinnegare l’esistenza di un’entità non terrena ma, allo stesso tempo, ne continua a parlare, come se l’idea della sua esistenza lo tranquillizzasse e, in un certo senso, ammettesse di averne bisogno.

Un ultimo momento, a mio avviso, significativo del romanzo è uno dei dialoghi conclusivi tra l’accusa e la difesa, all’interno dell’aula del tribunale, durante il processo a Dmitrij.

La prima afferma: “Se non lo condanniamo ne va a discapito di tutta la città..” La seconda afferma: “Se anche fosse colpevole, bisogna tenere in considerazione i motivi che lo hanno spinto a compiere tale gesto e tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare nel corso della vita,…”

Nella seconda affermazione noto un grande senso di umanità: la considerazione della persona nella sua totalità, non soltanto limitatamente al gesto che potrebbe aver commesso.

Nella prima affermazione, invece, riscontro tanta superficialità, come se fosse più importante trovare un capro espiatorio da sacrificare piuttosto che ricercare la verità. Sicuramente, condannare Dmitrij sarebbe stata la strada più facile e che avrebbe accontentato un maggior numero di persone.

Purtroppo, questo atteggiamento è ancora presente oggigiorno, non all’interno delle aule di tribunale ma tra le strade della città: assisto, sempre più spesso, a giudizi cattivi ed affrettati nei confronti di terze persone, dettati magari soltanto dal differente status sociale o dalla differente etnia di appartenenza.

In conclusione, la lettura del romanzo e, in generale, l’esperienza all’interno del carcere, mi stanno arricchendo moltissimo, dal punto di vista personale e professionale.

Ciò che più mi stanno insegnando è che bisogna avere un punto di vista ampio sulle cose e, soprattutto, non bisogna mai essere indifferenti nella vita – davanti ad una richiesta di aiuto, ad una persona sola o di fronte ad una situazione di violenza.

Nel nostro piccolo, il contributo di ciascuno di noi può essere immenso.

Elena Forzani

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Il terreno di coltura del parricidio

I Fratelli Karamazov è un romanzo che parla di scelta, di libertà, di Dio, di esigenza di un’autorità, facendo emergere questi temi dalle relazioni tra i quattro fratelli e dal rapporto dei fratelli con il padre, Fedor.

Fedor è un uomo egoista, che passa la vita a pensare a sé scialacquando il denaro e cercando in ogni modo di incrementare il proprio capitale. Dal suo matrimonio con Adelaida nasce Dmitrij, primo dei quattro fratelli. La donna, però, scappa abbandonando il figlio che, trascurato anche dal padre, viene cresciuto prima dal servo Grigorij e poi da un cugino della madre.

Fedor si risposa quindi con un’altra donna, Sofija: da questo matrimonio nascono Ivàn e Aleksej. La donna muore però precocemente e i bambini, ignorati dal padre e anche loro cresciuti dal servo Grigorij, si trasferiscono poi dalla vedova tutrice di Sofija.

L’ultimo dei fratelli Karamazov è Smerdjakov, tenuto in casa come un servo in quanto frutto di una relazione di una notte tra Fedor e una serva.

I quattro fratelli sono molto diversi l’uno dall’altro, ma tutti condividono l’odio e la disistima nei confronti del padre, nonché la sensazione più o meno apertamente espressa di sentirsi in credito con lui.

Il primogenito Dmitrij è quello che più assomiglia al padre: è aggressivo, vizioso, casinista, superficiale, spende molti soldi e si indebita. Tuttavia, è meno viscido e cattivo rispetto a Fedor, e alle volte si mostra persino generoso. Egli si sente fortemente in credito nei confronti del padre, ed è in aperto conflitto con lui in quanto sa che il padre ha utilizzato i soldi dell’eredità materna per degli investimenti di cui non lo ha reso partecipe. Ad acuire il conflitto tra padre e figlio è il fatto che si innamorano della stessa donna, Grusenka. La rabbia di Dmitrij si traduce in aperta violenza – verbale e fisica – nei confronti di Fedor.

Ivan, secondogenito, è un uomo colto, intellettuale, filosofo e contestatore. Anche Ivan odia il padre, ma in modo meno “fragoroso” ed apertamente violento rispetto al fratello maggiore: l’odio di Ivan diventa pensiero. Ivan si professa ateo, ma ha un evidente bisogno di fede; riflette molto su Dio e sul tema della libertà, confrontandosi con il fratello Aleksej. Il forte bisogno di riflettere su questi temi è strettamente legato all’esperienza d’essere stato abbandonato dal padre. In particolare, Ivan si interroga sul tema della libertà, mettendo in luce una grande contraddizione: da un lato, l’uomo proclama di volere la libertà; dall’altro, ha bisogno di una guida, che necessariamente limita tale libertà in cambio di protezione e assistenza. Ivan ha bisogno di Dio e dell’infinito, ma lo rifiuta, e questa contraddizione lo fa soffrire: sostiene che senza l’eternità non possa esistere l’amore, che è possibile solo se si ha una guida che permetta di riconoscersi nell’altro, e soffre in quanto lui non ha avuto tale guida che gli permetta di amare.

Aleksej è un giovane che decide di entrare in convento per diventare prete. Anche lui è stato abbandonato dal padre e ha vissuto gli stessi traumi dei suoi fratelli; tuttavia, tramite la religione e la fede è in grado di trasformare l’odio in una ragione per elevarsi e perdonare, per migliorarsi. Gli altri fratelli si confidano con lui, grazie al suo atteggiamento accogliente e tollerante. In monastero, Aleksej si lega fortemente allo starec Zosima, che diventa per lui la guida e il punto di riferimento che Fedor non è riuscito ad essere: Aleksej è il prodotto dell’assenza di suo padre, la quale lo porta a ricercare un punto di riferimento in qualcuno che non è lui, sottraendosi dai conflitti e svincolandosi dal peso dell’odio.

Smerdjiakov prova un forte senso di rancore nei confronti del padre e dei fratelli, in quanto non viene riconosciuto come figlio, si sente respinto. A differenza degli altri, non esterna mai il suo odio nei confronti del padre, ma lo accumula internamente.

All’inizio del romanzo Fedor, per cercare di risolvere il conflitto con Dmitrij, propone ad Aleksej di recarsi presso il monastero, davanti allo starec Zosima e alla presenza dei tre fratelli legittimi, per rimettere allo starec il giudizio sulla disputa, in un incontro chiarificatore. In questa occasione, però, esplode un forte scontro verbale tra Fedor e Dmitrij.

I conflitti sul denaro e per l’amata Grusenka continuano tra i due in modo aperto, con aggressioni e minacce da parte del figlio. Per questo motivo, quando Fedor viene trovato morto nella sua abitazione, la polizia arresta Dmitrij, accusandolo dell’omicidio. Ma a commettere l’omicidio è stato in realtà Smerdjacov.

L’ultima parte del romanzo si concentra sul processo a Dmitrij e sull’analisi psicologica dei personaggi, in particolare sul tormento interiore di Ivan che – parlando con Smerdjacov – si convince della propria responsabilità nell’accaduto.

Infatti, anche se non hanno materialmente commesso l’omicidio, Dmitrij e Ivan sono corresponsabili: Smerdjacov non è altro che la mano che uccide, ma viene influenzato dai due fratelli.

Dmitrij non ha commesso il delitto però lo ha pensato: vuole morto il padre e afferma esplicitamente l’intenzione di ucciderlo per avere il denaro, se necessario. Ivan, invece, influenza Smerdjacov, condividendo con lui la filosofia secondo cui in un mondo senza Dio “tutto è permesso” e lasciando intendere che non è contrario all’omicidio: Smerdjacov ammonisce Ivan, suggerendo di non partire perché teme che Dmitrij abbia intenzione di uccidere il padre quella notte, ma Ivan decide di partire lo stesso, facendo intendere un suo assenso per la morte di Fedor.

Dopo aver parlato con Smerdjacov, Ivan crolla, auto-accusandosi dell’omicidio, ma nel pieno di un delirio, quando confessa la propria responsabilità durante il processo, non viene creduto.

Dmitrij viene quindi condannato ai lavori forzati, ma comincia a maturare in sé un “uomo nuovo”, che può risorgere anche attraverso la punizione: accetta la condanna e si avvicina alla fede.

Smerdjacov, invece, si toglie la vita impiccandosi.

Durante la fase processuale, emerge l’intento di Dostoevskij di ricondurre la responsabilità di un evento non solo al singolo, ma al più ampio contesto, all’ambiente: come suggerito dal delirio di Ivan e dagli avvocati difensori di Dmitrij: il gesto finale è il risultato del terreno in cui viene coltivato.

Olivia Serio

I Conflitti della famiglia Karamazov

Sintesi sui quattro fratelli Karamazov

Fëdor Pavlovič Karamazov è un uomo strambo, ottuso ma furbo, che vive una vita di vizi e sperperamenti. Ha quattro figli da tre donne diverse, con nessuno dei quali svolge la propria funzione di padre. Tutti i fratelli rimangono orfani della madre, e a tutti viene negato il bisogno di essere accuditi. Ciascuno di loro ha il proprio modo di vivere i conflitti col padre:

Dimitrij è un giovane di 28 anni, nato dal primo matrimonio di Fëdor Pavlovič, e da lui abbandonato alla morte della madre. Cresce senza la possibilità di accedere agli studi, e accusa il padre di averlo derubato della sua eredità materna. Mitja e il padre si sentono reciprocamente in credito, ed entrambi rispondono al conflitto alimentandolo con la violenza. Nonostante il suo odio nei confronti della figura paterna, completamente assente durante la sua infanzia e che adesso pretende da lui soldi e rispetto, Mitja è quello, tra i quattro fratelli, che meglio incarna le caratteristiche di Fëdor Karamazov; anche lui infatti, come il padre, conduce una vita piena di eccessi e, sostanzialmente, autodistruttiva. Oltre ai conflitti di natura finanziaria, Dimitrij e il padre si innamorano della stessa donna, e sarà questo che spingerà il ragazzo ad aggredire e più volte a minacciare di morte il padre.

Ivan è un ragazzo di 24 anni, primo dei due Karamazov nati dal secondo matrimonio di Fëdor. Dopo essere rimasto orfano della madre e abbandonato dal padre, ha la possibilità di accedere agli studi, frequentando il ginnasio e l’università. A differenza di Mitja, Ivan non materializza mai il suo odio nei confronti del padre, e ciò gli impedisce di trovare pace. Trasferisce la sofferenza derivante l’abbandono da parte della figura paterna sulla figura di Dio; da essa si sente tradito come si sente tradito dal padre. Ivan indaga incessantemente sulla necessità dell’uomo di avere una guida che lo accompagni nella sua (apparente) libertà, guida della quale lui si è sentito doppiamente privato. Allo stesso tempo, sente la necessità di trovare un modo per amare senza dover ammettere l’esistenza dell’eternità, di una figura di riferimento che lo accompagni nell’amore. Nonostante abbia passato la sua vita negando la propria relazione col padre e con Dio, sente l’esigenza di riconoscerli e di riconoscersi in loro.

Aleksej, fratello di Ivan e figlio della seconda moglie di Fëdor, è un ragazzo di 20 anni; a differenza degli altri fratelli, compensa l’assenza della figura paterna attribuendo allo starec Zosima (figura più alta del monastero nel quale prende i voti) la funzione di guida. Apparentemente il più tranquillo e pacifico dei quattro Karamazov, Alëša si isola nel monastero per sottrarsi ai conflitti che, in realtà, vive come gli altri. Così facendo, si svincola dal peso dell’odio, evitando di affrontarlo, ed è lo stesso Starec ad ordinargli di tornare nel mondo reale per dare ai suoi sentimenti la possibilità di manifestarsi.

Smerdjakov, ragazzo di circa 24 anni, è figlio illegittimo di Fëdor Pavlovič, nato dalla relazione con una donna del paese; cresciuto dalla famiglia del servo Grigorij, non viene mai riconosciuto dal padre. Smerdjakov è riservato e rancoroso, definito ‘’misantropo’’ dal padre adottivo; egli passa la sua vita sopportando i conflitti col genitore, accettando di fargli da servo nonostante gli venga negata la possibilità di avere un padre. É proprio Smerdjakov che, dopo essere entrato in contatto con gli altri fratelli e leggendo in loro l’odio che li accomuna (in particolare a seguito di una discussione col fratello Ivan), uccide il padre. A seguito del parricidio si suicida, subito dopo aver attribuito ad Ivan la responsabilità dell’omicidio da lui compiuto (definendolo la mente che ha guidato le sue mani).

Beatrice Ajani

I Conflitti della famiglia Karamazov

Gli intrecci della famiglia Karamazov

“I fratelli Karamazov” è un libro di Fëdor Dostoevskij, autore russo vissuto nell’Ottocento e di importanza internazionale. Vi si narra la storia dei quattro fratelli Karamazov e del loro complesso rapporto con il padre Fëdor.

A ben guardare, le difficoltà emergono nei rapporti con la figura paterna in generale, non solo con il loro comune padre biologico. Ciascuno dei quattro fratelli, infatti, per fuggire ora dall’insofferenza nei confronti di un padre inconsistente, ora dalla rabbia verso un padre volontariamente deludente, si rifugiano ciascuno nella ricerca di una figura che possa sostituirlo.

Dmitrij è il primogenito, figlio della prima moglie di Fëdor Karamazov, ed è il più apertamente in conflitto col padre. Che sia a causa di denaro, dell’amore per la stessa donna o dell’affetto mai ricevuto dal padre stesso, i conflitti con quest’ultimo sono sempre accesi. Burrascoso, facilmente violento e senza freni inibitori, Dmitrij è forse il figlio che ha il rapporto più “sano” col padre, proprio perché non nasconde la propria aperta e profonda avversione nei suoi confronti.

Ivan, secondogenito e figlio della seconda moglie di Fëdor Karamazov, è il fratello intellettuale. Si dedica alla scrittura e a ragionamenti sui massimi sistemi, pur di sfuggire alla brutalità della realtà materiale. Non a caso, le sue riflessioni più dolorose riguardano proprio la fede e Dio, cioè quanto di meno materiale ci sia. Ivan cerca disperatamente una figura paterna che possa sostituire Fëdor, ma per Ivan Dio non si comporta in modo adeguato o semplicemente non esiste. Ivan si rifiuta di accettare un disegno superiore di bene in cui possa rientrare il dolore degli innocenti, così, pur rinunciando all’idea di eternità, cerca riagganciare l’amore e l’idea di amore per l’uomo in quanto tale. I conflitti di Ivan col padre sono perlopiù interni e non sempre esplicitati, ma non per questo meno intensi.

Alëša, figlio della stessa madre di Ivan, è il fratello minore. Viene presentato come quello più in pace con sé e con il padre, ma ciò è dovuto unicamente al fatto che non riconosce più Fëdor come il suo vero unico padre. Non soltanto, infatti, è interamente proiettato nella dimensione spirituale della fede (riconoscendosi quindi innanzitutto figlio di Dio e non di Fëdor), ma si è anche totalmente affidato allo starec Zosima, guida spirituale che supplisce egregiamente alle mancanze del vero padre di Alëša. Egli, in apparenza più risoluto e disteso nei suoi rapporti con chi e quanto lo circondano, riesce in ciò solo tentando di fuggire dai conflitti del mondo. Inizialmente rinchiusosi in monastero, sarà grazie allo starec Zosima che inizierà realmente a vivere il e nel mondo, con una buona parte dei conflitti interiori che ciò comporta.

Smerdjakov è l’ultimo dei fratelli Karamazov, figlio illegittimo e non riconosciuto di Fëdor, avuto da una donna che viveva per strada e morta di parto. Nato (letteralmente) in una latrina, cresciuto da uno dei servi di Fëdor ed educato ad essere tale, cioè al servizio del padre e poi dei fratelli, soffre di epilessia ed è la figura più oscura tra i quattro. Si tratta del figlio nei cui confronti il padre e la vita hanno il debito più consistente, ma che, nondimeno, sembra riuscire a mascherare meglio o a convivere apertamente con il suo stabile disagio nei confronti del mondo intero. Sarà proprio lui l’assassino del padre e morirà suicida.

Il romanzo contiene al suo interno narrazioni e riflessioni che avrebbero potuto costituire libri autonomi, come “Il Grande Inquisitore”, poema scritto da Ivan.

“I fratelli Karamazov” è la storia dei complessi e dinamici intrecci tra i membri della famiglia Karamazov, che guidano anche i loro rapporti con tutte le figure circostanti, ognuna delle quali resterà, in misura diversa, incastrata in tali nodi e intrichi. Le complessità dei rapporti umani, il peso della responsabilità collettiva, il senso di colpa dovuto non ad atti ma a intenzioni, il peso e il dolore della fede e dell’assenza di fede, la difficoltà di intendere cosa sia e come vivere la libertà, l’elaborazione di dolori diversi per origine e intensità, l’inquietudine del dubbio. In questo romanzo c’è proprio tutto.

Elena Tribulato

I Conflitti della famiglia Karamazov

Libertà fa rima con responsabilità

Desidero ringraziare di cuore chi mi ha dato la possibilità di prendere la parola durante la serata del 9 marzo: per me è stato un onore poter offrire uno spaccato, a nome di tutti i partecipanti al progetto, di quanto fatto in occasione dei nostri incontri.

Inizialmente ho pensato sarebbe stato davvero difficile restituire, in una sola serata, un lavoro di cinque giornate. Invece, penso che la restituzione si sia svolta in maniera efficace dando voce a persone che, nonostante le diverse esperienze professionali e di vita, sono accomunate dalla voglia di riflettere in ordine ad un tema comune e, soprattutto, legate da un unico comun denominatore: il rispetto per l’uomo in quanto tale.

Una domanda cui non riuscivo a trovare risposta all’inizio ma alla quale – grazie a questo meraviglioso percorso di scoperta dell’altro e di noi stessi – penso di poter rispondere ora, è la seguente: “Cosa significa per me libertà?”

Per me libertà significa “scelta responsabile”. Da oggi e per il futuro voglio scegliere, responsabilmente, di non accontentarmi della risposta più facile e conveniente, ricercando la mia verità. Mi impegno, inoltre, a cercare di condividere questa mia verità con chi ancora crede si possa distinguere rigidamente tra chi è dentro e chi è fuori, tra i detenuti e la società libera, tracciando una linea netta tra buoni e cattivi, aiutando l’altro a cogliere le sfumature.

Margherita Viglione, studentessa della Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Rimettere il debito per guadagnare libertà

Vi scrivo per ringraziarvi per la bellissima visione dello spettacolo presso il carcere di Bollate, e tramite voi ringraziare anche e soprattutto le persone detenute, l’organizzazione del carcere, i membri della vostra associazione, i ragazzi universitari e i rappresentanti di magistratura e camere penali, i quali – con la loro partcipazione – hanno reso possibile l’evento.
Vi ringrazio anche come padre perché avete dato a mia figlia, Maria Bianca Valenti,  studentessa di giurisprudenza e scout, la possibilità di fare una bellissima esperienza nel gruppo di ricerca.

Aggiungo una breve riflessione sulle cose dette, che in sé  mi sono sembrate indimenticabili. Questa riflessione è nelle cose stesse che avete detto, non aggiungo nulla, salvo forse un punto alla fine.

  • Se ho capito bene, noi esseri umani ci inoltriamo nella strada che giunge al delitto quando in noi sorge l’idea di avere un credito nei confronti del nostro prossimo e dei mondi che ci circondano (aristotelicamente: famiglia, padre, madre, fratelli e sorelle, servi, vicinato, ‘polis’, popolo, stato,…).
  • L’idea di ‘avere un credito’, può sorgere in seguito ad accadimenti e sofferenze profonde che stravolgono il cuore umano (‘voglio riparazione’), o  al contrario può sorgere nel vuoto sterile dell’intelligenza (‘voglio realizzare la giustizia’) e persino nel e per il godimento dell’agiatezza (‘voglio di più’).
  • L’essere creditori e questa strada  su cui ci siamo inoltrati, ‘colorano’ il nostro essere nel mondo e gli incontri che facciamo: tutto ciò che ci viene incontro è sotto la volta celeste del nostro ‘credito’: tutto e tutti sono ‘debitori’. Da quel momento, nel tempo dell’avere un credito, tutto accade sotto l’insegna della domanda (rabbiosa, o vendicativa o bramosa): “chi sono, dove sono i miei debitori?”. Il delinquente risponde sempre: ‘eccoli i miei debitori: mio padre dissoluto e indegno, mia madre debole e incapace di difendermi e darmi ciò che chiedo, il mio vicino di casa che mi guarda di traverso,il portiere,  il parroco, i passanti, i ricchi, i politici, Dio che non ha pietà di me, etc.’
  • Una volta sorta l’idea di avere un credito, può venire intrapresa la strada che porterà al delitto, strada lungo la quale tutti ci si presentano come debitori … dunque quando e perché commettiamo il delitto? Lo commettiamo quando nell’aula del tribunale del nostro cuore e lungo la strada del crimine ad un certo punto ‘emettiamo la sentenza di riscossione del credito’ e la eseguiamo seduta stante. E’ in questo senso che il dr Aparo penso abbia detto che il delinquente commette il crimine per un senso di “giustizia”, per riequilibrare la bilancia tra credito e debito.
  • Al di là del cercare le prove del crimine, il crimine stesso è la prova del percorso che lo ha generato. Sorge un paradosso, cui penso il dr Aparo accennava: l’imputato qualora fosse ‘colpevole’ dovrebbe essere alla fine del processo ‘togato per essersi erto a giudice e per avere emesso ed eseguito una sentenza’: il colpevole è colpevole di essersi autoeletto arbitrariamente giudice ed esecutore di una sentenza. Il processo è in questo senso la ricostruzione e la lettura del disponsitivo e della sentenza criminale che ha generato il delitto. Il processo è lo specchio del processo interiore del delinquente.
  • E’ in questo senso corretto pensare, come diceva il dr Aparo, che il delinquente è un parricida e un matricida. Lui, lei sono parricidi e matricidi alla luce del loro pensiero che padre e madre sin dall’origine “avrebbero dovuto dare il credito che spettava al figlio”: per il delinquente, ma siamo tutti delinquenti in questo, sono il padre e la madre ad essere i primi debitori verso i figli.

Concludo provando a rispondere alla questione della libertà. Cosa vuol dire ‘liberarsi’ ed ‘essere liberi’ in questo caso, una volta sorta l’idea dell’avere un credito da riscuotere, una volta acquisito il dirito al rancore e, infine, una volta scelta la via del crimine?

La giustizia criminale è meccanica e consequenziale, è necessitata dalla logica economica del dare – avere, è generata dalla legge della reciprocità. Credo che essere liberi e liberarsi sia invece una conseguenza della “remissione dei debiti”: ‘e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Essere liberi vuol dire liberarsi della e dalla reciprocità. Senza questa remissione dei debiti e senza questa dismissione della reciprocità, non siamo mai liberi.

La libertà è ‘libero perdono’. Ossia è il dono eccessivo e potente che ha la capacità e la forza di rimuovere l’idea originaria dell’avere un credito e dell’avere dei debitori. E’ un muoversi ricco e diverso nella logica del “credito”.

Grazie al perdono, ossia al dono eccessivo, noi non siamo più né ‘creditori’, né ‘debitori’, ma diventiamo quei ‘liberi’ che gratuitamente danno una misura abbondante di credito all’altro, al prossimo. Dando una misura di credito, attenzione, ascolto, permettiamo all’altro di non sentirsi mai ‘creditore’. E mettendo chiaramente di fronte all’altro la nostra libertà e la gratuità del nostro dargli credito, permettiamo all’altro di sentirsi libero di ricevere senza essere a sua volta ‘debitore’, nella speranza che l’altro divenga a sua volta un “perdonatore”.

Vi ringrazio per la bellissima esperienza, con stima vi saluto

Davide Valenti

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Responsabilità personale e collettiva

Ciò che mi ha subito affascinata di questo progetto di ricerca è la possibilità di dialogare con persone con un bagaglio professionale e personale completamente diverso, in alcuni casi addirittura antitetico (penso, ad esempio, a Marisa e Paolo Setti Carraro da un lato e ai detenuti del gruppo della trasgressione dall’altro). È questo confronto continuo tra persone con un vissuto così diverso, a mio avviso, ad avere attribuito un valore aggiunto alla nostra ricerca.

Una domanda che mi sono posta in passato e che è risuonata in me in occasione dei nostri incontri settimanali nel carcere di Bollate dopo avere ascoltato le storie di vita che alcuni detenuti coraggiosamente ci hanno raccontato è la seguente: “ma se io mi fossi trovata al loro posto, crescendo nello stesso contesto… insomma, a parità di condizioni di partenza… avrei agito diversamente?” Penso che si debba essere un po’ ingenui e forse anche un po’ arroganti per rispondere affermativamente a questa domanda, senza dubbi né ripensamenti.

Grazie alle sollecitazioni provenienti dalla lettura e conseguente discussione dei fratelli Karamazov – dove verso la fine del romanzo c’è quello che potremmo definire un “riconoscimento della responsabilità collettiva dei quattro fratelli” i quali, ognuno in modo diverso, hanno tutti contribuito alla morte del padre – in occasione del nostro ultimo incontro, un detenuto ha posto la seguente domanda: “ Abbiamo parlato della responsabilità del singolo ma che spazio trova la responsabilità della società nel processo?”

Tale quesito ha da subito provocato in me una serie di riflessioni. Nel processo penale – dove si accerta la responsabilità penale, la quale è, come noto, personale – la responsabilità collettiva trova poco spazio. Non penso che tale scelta debba essere necessariamente stigmatizzata: penso siano altre le sedi opportune dove stimolare questo senso di responsabilità collettiva (penso, ad esempio, alla famiglia e in particolare alla responsabilità dei genitori verso i figli; ancora, penso alla scuola).

Ad ogni modo, un riconoscimento di questa responsabilità collettiva, della società tutta, deve avvenire. Da questo punto di vista, tanto la storia dei fratelli Karamazov quanto quelle dei detenuti mi hanno portata a riflettere sull’importanza e la fortuna immensa che ho avuto io, in prima persona, di avere i giusti stimoli, le giuste possibilità e dei modelli positivi da seguire.

I Conflitti della famiglia Karamazov

Margherita Viglione