Anime verdi

Anime Verdi
di Mario Buda

L’anno scorso ho partecipato alla giornata di Commemorazione delle vittime delle mafie. Figure istituzionali, comuni cittadini e detenuti, siamo andati al microfono per leggere, ognuno di noi, 28 dei 940 nomi in elenco.

Sentire nominare, una dopo l’altra, le persone uccise da chi, come me, ha fatto parte di quelle mafie, è stato come ricevere una martellata in testa. E la martellata mi ha obbligato a scegliere da quale parte stare… se ancora dalla parte dei colpevoli o dalla parte di chi condivideva il dolore di quelle vittime.

Ho aspettato il mio turno e poi, senza remore o ripensamenti, ho letto i 28 nomi presenti sulla lista che mi era stata consegnata. Questo mio atto di pubblica partecipazione mi ha fatto sentire più pulito e più degno del presente che voglio vivere e del futuro che sto tentando di costruire.

Qualche settimana fa il dottor Aparo ci ha detto che il Rotary club Milano-Duomo vuole donare alla città di Milano 50 alberi, da piantare in parte qui, nel carcere di Opera, in parte nel carcere di Bollate e in parte al Coming out(1). Inoltre, ci ha chiesto di scrivere qualcosa circa una eventuale correlazione tra noi del Gruppo della Trasgressione e questi alberi.

lo ho subito percepito che il senso di questi alberi era da collegare a quella commemorazione e a quelle vittime e per questo propongo di intitolare qualcuno di questi alberi al nome di qualcuna delle vittime ricordate quel giorno.

Poi, attraverso la Direzione o attraverso il P.M. Cajani, sarebbe opportuno inviare una lettera alle famiglie di queste vittime, mettendole al corrente di questa iniziativa, nella speranza che accettino questa sorta di “mediazione penale”.

Infine, se questi alberi saranno da frutto, proporrei di preparare dei cestini regalo con i primi frutti che gli alberi produrranno, inviandoli alle rispettive famiglie, proprio per dare un valore simbolico a questa iniziativa.

Sarebbe fantastico creare qui in carcere un giardino della commemorazione nel quale, il giorno della ricorrenza, parenti, istituzioni e detenuti che abbiano preso “coscienza della prossimità” possano dar voce alle vittime e a chi, uccidendole, aveva tolto la vita a loro e a se stesso.

Come dice un famoso detto ebraico:
L’immortalità consiste nel ricordo di chi ci vuole bene...
e fino a quando il nostro nome risuonerà nell’universo,
noi saremo realmente i
mmortali

  1. Gli alberi del Rotary Club Milano Duomo verranno piantati il 22/03 e il 04/04 nelle carceri di Bollate e di Opera e il 05/04 al Coming out

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Ideologia conservatrice o evoluzione culturale?

  1. Premesso che il carcere è un posto che non risponde agli obiettivi dichiarati e che in Italia su circa 210 carceri, ce ne sono meno di 10 appena compatibili con gli standard europei,  arrestare le persone che commettono reati pesanti è cosa di cui possiamo fare a meno?  Esistono metodi alternativi all’arresto per fermare rapinatori, spacciatori e assassini?
  2. Il gruppo Trsg negli ultimi 20 anni ha contribuito a far evolvere un certo numero di coscienze in carcere. Queste coscienze avremmo potuto intercettarle se le avessimo incontrate sulle strade della Sicilia, della Calabria, della Campania e della Lombardia intanto che ammazzavano la gente e che contribuivano al degrado sociale con organizzazioni come Mafia, ‘Ndrangheta e Camorra?
  3. I tre detenuti che erano sul palco venerdì sera, tutti e tre rappresentanti di primo piano di obiettivi e metodi del gruppo Trsg, hanno maturato la competenza espressiva dimostrata nel corso della serata grazie a 5/8 anni di esperienza col gruppo e ad altri percorsi paralleli. Il risultato è un livello di coscienza che all’epoca dei reati non esisteva. Ciò detto, la coscienza dei tre detenuti in questione oggi è per la società un guadagno o un ideologico supporto alla nefandezza delle carceri italiane?
  4. Sono partito 20 anni fa, dopo avere assistito alla supposta rivoluzione cui aspiravano le BR, per tentare una rivoluzione culturale senza mitra. Questo lavoro di graduale rinnovamento degli schemi nell’ambito delle carceri  possiamo considerarlo un valore sociale o dobbiamo temere che si tratti di un escamotage del sistema per perpetuare se stesso? Chi conosce il mondo penitenziario sa bene che passeranno decenni prima che quello che avviene nelle carceri milanesi si estenda alle altre carceri italiane. Ma esistono altre forme di rinnovamento?

Ancora… i detenuti che parlano nel documentario “Lo Strappo” sono tutti del Gruppo Trsg, cioè sono tutte persone nelle quali è stato aperto il dialogo con la loro coscienza e con la coscienza dell’esistenza dell’altro. I delinquenti, quelli presi nella fase in cui contribuiscono al degrado sociale, non hanno niente da dire, non perché non abbiano niente dentro, ma perché non motivati o del tutto incapaci di entrare in contatto con la propria coscienza, che rimane quindi muta e sorda. Se noi facciamo incontrare delle vittime con uno che nel corso di una rapina ha appena ucciso un gioielliere, avremo da una parte una moglie e una figlia allagate dal dolore e dall’altra una persona che non ha imparato la lingua per stare al mondo e per mettere a fuoco che esiste il prossimo (Istruire una prossimità).

In sostanza, il gruppo Trsg coltiva la prossimità in carcere e fuori dal carcere… ma fuori questo diventa possibile solo dopo essere riusciti ad attivare, con il lavoro che viene fatto dentro, quel tanto di coscienza che permette di uscire dal carcere in permesso o a fine pena senza riprendere a fare il fante, il cavaliere o il condottiero del degrado sociale.

Questo lavoro lo consideriamo un contributo all’evoluzione della società o un mezzo ideologico per sostenere il sistema? Una società è una realtà complessa che si evolve poco a poco. Ma pur se la strada da fare è moltissimo più lunga di quella già fatta, venerdì 23/03 a FAI LA COSA GIUSTA credo di aver visto, appunto, i frutti del mio lavoro, non la conferma della mia alleanza con l’ideologia riformista.

A beneficio di chi pensa che la cosa migliore per i delinquenti sia chiuderli e buttare la chiave, va anche detto che, una volta fuori, le persone cresciute nella devianza avranno grande difficoltà a mantenere saldo il ruolo del cittadino costruttivo, se non c’è una rete sociale che permetta loro di sentirsi parte significativa del progetto collettivo. Dopo anni di esperienza, credo di poter dire che i delinquenti e gli ex delinquenti soffrono tutti di protagonismo. Se non dai loro qualcosa da fare, un obiettivo in cui riconoscersi e per cui essere riconosciuti, si deprimono e corrono il rischio di farsi riacciuffare dal  virus delle gioie corte.

Sono comunque lieto di aggiornare la mia lettura delle cose a partire dai contributi che potremo leggere su queste pagine e, prossimamente, su www.lostrappo.net. E’ possibile lasciare un commento qui o, solo per gli utenti registrati, andare al Forum collegato

Angelo Aparo

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La libertà? Piantala

La libertà? Piantala. Ecco gli alberi al carcere di Bollate

Venti nuovi alberi, il legame simbolico tra i detenuti e chi crede nella possibilità del recupero sociale: è l’ultima iniziativa del Rotary

di ROBERTA RAMPINI
Pubblicato il 23 marzo 2018

Bollate (Milano), 23 marzo 2018 – Albero come simbolo della vita. Albero come logo del Gruppo della Trasgressione. Da ieri l’albero, o meglio venti alberi, sono diventati il legame tra i detenuti del carcere di Bollate e chi dall’altra parte del muro crede nella loro rinascita alla vita, in questo caso il Rotary Club Milano Duomo. L’iniziativa rientra nella mission del Rotary Club di promuovere equilibrio e benessere e rafforza la collaborazione che da anni esiste fra Rotary Club Milano Duomo e il Gruppo della Trasgressione fondato nel 1997 da Angelo Aparo e attivo nel carcere di Bollate e Opera.

“Quest’anno la mission a livello internazionale ha come slogan “un albero per ogni socio” e noi abbiamo individuato delle aree dove piantumare gli alberi, due all’interno delle carceri e una oltre le mura – dice Paolo Briglia, presidente del Rotary Club Milano Duomo – l’iniziativa di questa mattina è la prima, ha una valenza ambientale e sociale, ci piace pensare all’albero come a qualcosa che rende più bello il mondo e come rifioritura di persone che nella vita hanno sbagliato”.

Gli alberi sono stati piantati nelle aree adibite al passeggio dei detenuti. Le buche sono state fatte dai detenuti, le piante di castagno, leccio, corniolo e ciliegio, sono state sistemate nelle zolle di terra dai soci del Rotary, da Andrea Pernice, Governatore del Distretto Metropolitano Milanese. Zappe per vangare, buche per piantumare e la lettura di alcune poesie scritte dai detenuti del Gruppo che parlano di errori, di alberi e di vite da ricostruire.

“Il Gruppo della trasgressione vive cercando di ottenere dal malessere, dal danno e dalla storia di ogni detenuto qualcosa di utile per la società – ha spiegato una detenuta – Chi ha avuto la possibilità e la fortuna di poter partecipare a questo progetto, dopo aver preso coscienza di sé partecipa a iniziative utili a prevenire e combattere il bullismo fra gli adolescenti. In questo modo si crea una possibilità di riscatto per chi, consapevole dei propri errori, ha ancora desiderio di rimettersi in gioco e di diventare una risorsa per quella stessa società che aveva ferito”.

  • L'articolo su IL GIORNO del 23/03/18
  • La targa

La consapevolezza del seme

La consapevolezza del seme
Carmelo Impusino

Sono il seme di un frutto cresciuto su un albero non tra i più sani, su un terreno duro, in mezzo alle tempeste… eppure esisto. Forse sono state le intemperie ad intaccarmi al punto da rendermi inservibile. Sono rimasto lì sul ramo, in attesa di quel destino che mi ha visto deteriorare e cadere inevitabilmente a terra. Ma ora che sono a terra vorrei liberarmi della polpa guasta che mi circonda. Desidero che la pioggia mi trasporti su un terreno migliore, dove mettere radici, germogliare, nutrirmi e crescere come un albero sano e forte. Desidero che tutti possano nutrirsi dei miei frutti. Vorrei essere più di un semplice seme. Vorrei essere una storia da raccontare… un riferimento sulla quale riflettere. So che posso esserlo.

Ai confini del dolore

Lo Strappo, ai confini del dolore, dentro il carcere di Opera
di Max Rigano

“Quando uccidi qualcuno, muore anche una parte di te: sebbene, sentendoti Dio, ti è difficile ammetterlo. Ma è cosi”.

Alessandro Crisafulli è stato un uomo della criminalità organizzata del quartiere della “Comasina” a Milano. Ha una condanna: fine pena mai. Ergastolo. Al carcere di Opera c’è ormai da un decennio, e in galera da oltre 24 anni.

“Cosa direi al me stesso che 25 anni fa uccideva e spacciava? Più che altro lo ascolterei. Lo accompagnerei a vedere cosa si è perso della vita, per farsi ascoltare da una famiglia che era sempre rimasta in silenzio”.

Alessandro ha fatto un lungo percorso di psicoterapia. Ha guardato dentro il suo abisso “da cui non si riemerge mai completamente perché quando uccidi, una parte di te muore”.  Rivendica tuttavia il diritto a riabilitarsi attraverso il carcere, di riscoprire la vita proprio in un penitenziario. Visto che per lui la strada ha rappresentato le tenebre della sua esistenza. “Mi sono sentito libero per la prima volta in vita mia il giorno in cui mi hanno arrestato”.

Al carcere di Opera questa volta il Prof.  Angelo Aparo, psicoterapeuta che lavora nelle carceri da 38 anni, ha proposto un incontro dal titolo: “Lo Strappo, quattro chiacchiere sul crimine”. Un evento cui hanno preso parte detenuti, condannati di Alta Sicurezza appartenenti al Gruppo della trasgressione, nato grazie al lavoro del professore per far emergere il dolore profondo di coloro che si sono macchiati di reati gravissimi; magistrati, società civile, giornalisti, che si sono confrontati sul come agire per trasformare la pena non in uno strumento di vendetta ma di riabilitazione del reo. Ciò che la riflessione comune ha fatto emergere è che le categorie di bene e di male sono inficiate dal personale passato di ogni singola persona. L’aula teatro del Carcere di Opera, dove si tiene la serata aperta al pubblico, propone una parte di un lungometraggio curato dal giornalista Carlo Casoli, dal PM Francesco Cajani, dal sociologo Walter Vannini e dallo stesso Aparo sul ruolo del carcere nella psicologia del detenuto. Riflessioni fatte ad alta voce sulle esigenze che il singolo ha di vedere riabilitata la propria esistenza, acquisendo quello spessore morale di cui è di fatto stato privato in giovane età.

“Sono stato anch’io un uomo di mafia; ho ucciso” – dice ad un certo punto Roberto Cannavò, catanese ed ex appartenente a Cosa Nostra. ”Tuttavia nel sentire di dovere scontare questo male profondo, ho preso atto che io stesso sono stato vittima della mafia: quando avevo 12 anni mio padre fu ucciso per sbaglio dall’imboscata di una cellula mafiosa. Prima di diventare carnefice, sono stato anzitutto una vittima”.

Nessuno di questi ragazzi si atteggia. Ognuno di loro è consapevole di aver inflitto dolore al suo prossimo. Tuttavia è nella coscienza di ciascuno,  di aver compiuto atti tremendi.  Da lì si dispiega la possibilità oggi di poter andare nelle scuole e individuare “potenziali nuovi delinquenti” che potrebbero reiterare le istanze del male, rinnovando il proposito di uccidere. “Quando riesco a riconoscere uno di loro so che sto impedendo che il gioco della morte torni a mietere le sue vittime. Solo così sento di stare ripagando il mio debito. Evitando che altri facciano i miei stessi errori e provochino ulteriore dolore”. Sul palco insieme a Roberto e Alessandro, ci sono Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, assassinato dalla mafia, Il neo direttore del Carcere di Opera Silvio Di Gregorio, l’ex direttore Giacinto Siciliano adesso a San Vittore, Franco Roberti, già Procuratore Nazionale anti mafia, Paolo Colonnello caporedattore de La Stampa di Torino e appunto Alessandro Crisafulli, Roberto Cannavò e Adriano Sannino, tutti e tre appartenenti al Gruppo della trasgressione del Prof. Aparo.

Come sempre in questi casi, tra i detenuti presenti “iscritti” alla serata, ci sono anche gli ultimi arrivati. Coloro cioè che non sono ancora ammessi al percorso del gruppo della trasgressione, ma autorizzati ad assistere al loro lavoro. Al tentativo quindi di reintegrazione nella società civile che passa anche attraverso incontri aperti al pubblico, di questo tenore. Nelle ultime file, dove sono schierati in fila i detenuti con “minore anzianità” oppure non ancora considerati “pronti”, c’è fermento. Alcuni di loro hanno un atteggiamento di sfida verso le guardie penitenziarie. Che a loro volta non guardano sempre con comprensione il lavoro svolto dai ragazzi del gruppo. Questione di pelle. Alcuni dei detenuti il loro odio verso le guardie se lo sono tatutato: Acab (All cops are bastards) recita più d’uno sulle braccia o sul collo. Dentro serate come queste allora c’è anche l’intento di dare voce a quanto resta sopito nelle giornate interne al penitenziario tra il personale e i carcerati. La volontà cioè di creare un ponte attraverso l’ascolto. È una delle cose che mi colpisce di più: per un paradosso, vedo volti più distesi tra i carcerati che non tra i le guardie penitenziarie che sembrano più stressate. È l’effetto del processo di responsabilità. La guardia risponde di quanto accade dentro il penitenziario. Il carcerato invece finendo dentro, ha cominciato a scontare subito il suo debito. E dopo anni, è come se questo debito venisse “scontato” poco alla volta attraverso un cammino di coscienza. Come se lo stare dentro desse modo loro di pensare a quanto commesso. Mentre una guardia penitenziaria deve rispondere ogni giorno della responsabilità che ha di seguire i detenuti. Ma senza poter “pensare”. Eseguono degli ordini, delle direttive.

La serata è stato uno sguardo lucido sul dolore. Sulla consapevolezza del suo linguaggio che si esprime non solo in capo alle vittime della violenza criminale ma anche in capo ai suoi carnefici. Una serata umanamente toccante. Dove bene e male si sfiorano. E dove se ne esce tutti più arricchiti. “Sia chi se torna a casa a dormire, sia chi se ne torna in branda in cella”.

La vita continua, anche se non è più la stessa.

Lo Strappo, ai confini del dolore, dentro il carcere di Opera

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Dopo lo strappo, il dibattito…

Dopo la serata di venerdì al carcere di Opera, ho ricevuto molti complimenti per il lavoro che svolgo col Gruppo della Trasgressione. Le persone in sala sono rimaste colpite dalla ricchezza della serata e, in particolare, dalla profondità delle dichiarazioni dei detenuti del gruppo, dalla intensità e dalla ricchezza delle loro osservazioni.

Ma il 16 marzo è anche la ricorrenza del sequestro di Aldo Moro; in questi giorni è andato in onda sulla RAI un film documentario su quei terribili giorni e il film è stato seguito da dichiarazioni di alcuni degli ex terroristi che hanno suscitato indignazione in moltissimi cittadini.

Molte persone presenti alla serata su “Lo strappo” si sono trovate dunque il sabato mattina nella condizione di far convivere dentro di sé:

  • da un lato, le proprie reazioni emotive alle affermazioni di alcuni ex terroristi delle BR che, ammesso che l’articolo sul giornale non le abbia pesantemente distorte, risultano intollerabilmente tracotanti;
  • dall’altro, le emozioni vissute venerdì sera, ascoltando i detenuti del Gruppo della Trasgressione, le cui parole parrebbero incompatibili con lo stile di vita e gli intenti di chi in passato ha ucciso, spacciato e ha fatto parte di organizzazioni criminali.

Da parte mia, ho avuto modo di  confrontarmi personalmente con qualcuno che aveva fatto parte a suo tempo delle BR e, in quella circostanza, ho ricavato, nettissima, la sensazione di persone il cui delirio megalomanico non si è ancora estinto.

Per alcuni degli ex terroristi, il loro principale errore consiste nell’avere calcolato male i tempi, nell’aver mal soppesato la coscienza della massa oppressa che loro intendevano liberare dall’oppressore; secondo alcuni di loro, l’errore è consistito nell’avere iniziato la lotta armata quando la gente non era ancora matura per condividerla, non nell’essersi arrogati la facoltà di decidere col mitra come dovessero andare le cose. In sostanza, si sa che in guerra si muore, l’errore dunque non è stato nella decisione di uccidere, ma nella prefigurazione che dagli omicidi potesse derivare l’evoluzione sociale alla quale loro puntavano.

Ma a chi mi manda il link all’articolo sulla repubblica come se potesse essere una risposta alla serata di venerdì chiedo:

  • l’atteggiamento dei terroristi, a vostro avviso, ha qualcosa a che fare con quello che avete sentito dai detenuti del gruppo della trasgressione?
  • il link all’articolo, privo di commento, mi viene inviato per invitarmi a condividere che alcuni degli ex terroristi  sono dei pazzi ancora oggi o per sostenere che chi produce lo strappo deve tacere per tutta la vita, indipendentemente dalla natura del suo percorso?
  • infine, dei detenuti, che dopo anni di confronti serrati al gruppo stupiscono e commuovono per il livello di consapevolezza raggiunto, a giudizio di chi ha seguito la serata e visto il documentario, si pensa che siano più dei soggetti in cammino che stanno beneficiando del pionierismo del gruppo Trsg e di altri gruppi di volontariato che lavorano in carcere nonostante i limiti e le negligenze istituzionali o dei documenti ideologici viventi a sostegno del perbenismo e del sistema?

I vostri commenti sono molto graditi sia su questo sito, che non a caso si chiama Voci dal ponte, sia sul sito dedicato a Lo strappo

Angelo Aparo

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Venti alberi per Bollate

Gli alberi del Rotary club Milano Duomo a Bollate

Giovedì 22 marzo 2018, nelle ore 10:30-12:00, all’interno della seconda casa di reclusione di Milano Bollate, verranno piantati nelle aree adibite al passeggio dei detenuti 20 alberi che il Rotary Club Milano Duomo regala al carcere di Bollate. L’iniziativa ribadisce la mission del Rotary di promuovere ovunque possibile equilibrio e benessere e conferma l’intesa che già da diversi anni esiste fra Rotary Club Milano Duomo e il Gruppo della Trasgressione.

Le zappe per le buche dove piantare gli alberelli sono già pronte; giovedì mattina alcuni detenuti dei due gruppi della trasgressione (maschile e femminile) attivi nel carcere di Bollate verranno affiancati nel lavoro dai componenti del Rotary che parteciperanno alla cerimonia. Per l’occasione, accanto al lavoro di zappa, verranno letti alcuni testi che parlano di errori, di alberi e di vite da ricostruire.

Il motore ad anidride carbonica

Al Rotary club Milano Duomo

Il motore ad anidride carbonica
Ilaria Mortarini

Sono passati 15 anni da quando il dott. Angelo Aparo ha paragonato il gruppo di cui è fondatore a un “motore ad anidride carbonica”. Proprio come un albero, che per vivere assorbe ciò che è di scarto per l’uomo dando indietro ossigeno, il gruppo della trasgressione vive cercando di ottenere dal malessere, dal danno e dalla storia di ogni detenuto qualcosa di utile per la società.

Chi ha avuto la possibilità e la fortuna di poter partecipare a questo grande progetto, infatti, dopo aver preso coscienza di sé, e grazie alla collaborazione fra le scuole della provincia di Milano e il nostro gruppo, partecipa a iniziative utili a prevenire e combattere il bullismo fra gli adolescenti.

In questo modo si crea una possibilità di riscatto per chi, consapevole dei propri errori, ha ancora desiderio di rimettersi in gioco e di diventare una risorsa per quella stessa società che aveva ferito.

L’albero è il simbolo della vita ed è il logo del nostro gruppo, e oggi diventa dimostrazione di un legame tra noi detenuti e chi dall’altra parte di queste mura vuole condividere il nostro progetto e darci la possibilità di cambiare per sempre la nostra vita.

Grazie

Un commento su “Lo strappo”

Il Commento di Paola Tanara
(Giudice presso la Corte di Appello di Milano)

Ho visionato il documentario con gli occhi di un giudice del dibattimento penale avendo io svolto per molti anni tale funzione (e mai quella del Pubblico Ministero e del Magistrato di Sorveglianza) presso il Tribunale Ordinario di Milano (prima nella sezione che si occupa di violenze sessuali ed infortuni sul lavoro e successivamente in una sezione specializzata di criminalità organizzata) e per alcuni anni presso il Tribunale per i Minorenni di Milano.

In tale veste, il documentario mi ha sollecitato alcune riflessioni, anche se non ho potuto non essere affascinata da quella parte corposa del documentario dedicata alla funzione rieducativa ed all’esecuzione della pena, rispetto alla quale la strada da percorrere da parte del “sistema”, mi pare, sia ancora molto lunga e difficile.

Il documentario ha il pregio di fotografare in modo sintetico, ma straordinariamente esaustivo, la complessità dell’evento “reato” in tutte le sue molteplici implicazioni, psicologiche, sociologiche, emotive, implicazioni che riguardano tutti i soggetti coinvolti sia antecedentemente, sia durante, sia successivamente all’agìto criminoso; scandaglia da un lato, le conseguenze dell’azione criminale nella vita sociale, ma anche e soprattutto nella vita personale della vittima, e dall’altro illustra, con encomiabile equidistanza, alcuni minimi comuni denominatori psicologici del reo rispetto ai suoi agiti, nonché alcune delle tappe più significative del percorso rieducativo dell’autore del reato.

Emerge un quadro articolato e dalle mille sfaccettature, emotivamente molto toccante, spunto di innumerevoli riflessioni anche “de iure condendo”, un quadro  che, come ben sottolinea il dott. Alberto Nobili nello stesso documentario, nel processo (e nel dibattimento in particolare) viene solo lambito (e, purtroppo, non sempre, attesa la non sovrapponibilità tra realtà e verità processuale), e comunque solo nei limiti dello stretto indispensabile per arrivare ad una sentenza il più possibile giusta e ad una pena equa rispetto alla “gravità del fatto”.

Ed è proprio quest’ultima espressione tecnico-giuridico, non di rado utilizzata in modo tralatizio per indicare esclusivamente il disvalore sociale di un agìto criminoso, che dopo la visione del documentario si arricchisce di significati spesso nella prassi giudiziaria non sufficientemente valorizzati.
Come in tutto ciò che ha a che fare con l’umano, anche nel crimine, ogni situazioni ha caratteristiche sue proprie: il legislatore ha opportunamente cristallizzato normativamente le varie tipologie di agiti effettuando una valutazione “ex ante”, della gravità delle medesime indicando i parametri da un minino ad un massimo della pena applicabile. Al giudice l’arduo compito di commisurare la pena nello specifico caso al suo esame, con un giudizio “terzo” discrezionale, ma rigorosamente verificabile alla luce dei parametri normativamente prestabiliti. Le tipizzate coordinate entro le quali il “giudicante” ha il dovere di muoversi per esercitare l’azione punitiva dello Stato, contengono molteplici sfaccettature e il giudizio sarà tanto più equo quanto più completo: una sorta di delicatissima alchimia nella quale debbono trovare spazio norme processuali, sostanziali, valutazioni sociali, sociologiche, psicologiche, prognostiche con un percorso argomentativo il più possibile chiaro proprio per garantirne la verificabilità.

Le interviste che si susseguono nel documentario, rappresentano in modo “plastico” tale complessità. Il documentario, strumento certamente preziosissimo nell’ambito di un percorso educativo alla legalità per i giovani – in quanto completo ed al tempo stesso intellegibile – ha anche il pregio, di stimolare la riflessione degli operatori del diritto e di coloro che gravitano nel “mondo giustizia”, spesso pressati dai tempi e dalla statistica, sul significato e l’importanza per la società di oggi e per la società futura, del delicato compito che sono chiamati a svolgere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze.

Paola Tanara