Noi, tra il rogo che brucia e la danza che ci chiama

And the Court will rise
while the pillars all fall

[Peter Gabriel, The Court]

 

 

Racconta Peter Gabriel che inizialmente, alla ricerca di una immagine artistica da abbinare al lancio della sua nuova canzone “The Court”, quello che lo attrasse in quell’ intenso bruciore fu la sensazione di un qualcosa che restituisse visivamente “the result of the jugdment” (“l’esito della sentenza”).

Solo dopo scoprì ciò che si celava dietro questo scatto fotografico: un frammento dell’ennesima straordinaria visione artistica dello scultore inglese Tim Shaw, creata in risposta a quanto accaduto all’interno della Royal Academy of Arts all’inizio del 2022. E precisamente in risposta alla lettera di dimissioni inviata dagli artisti Gilbert e George, avente il seguente tenore: “Con la presente restituiamo le nostre medaglie e i nostri certificati … Malediciamo la Royal Academy e tutti i suoi membri”.

Ecco dunque il commento dello stesso Tim Shaw:Che si tratti di parole irriverenti o di energia tossica mirata, è una cosa seria maledire qualcuno. Essendo uno dei maledetti, sento l’obbligo di affrontare questo atto con una risposta vigorosa”. E così quel fuoco assume in realtà un significato diverso da una esecuzione, costituendo invece un passaggio necessario in un processo che dà il titolo alla sua installazione artistica: “togliere la maledizione”.

Questo si realizza attraverso un vero e proprio rituale collettivo ideato dall’Artista, originatosi già prima dell’accensione del rogo e confluito – dopo che le fiamme si spensero – in una processione danzante che sfilò verso il fiume alla luce delle torce: “una foschia fumosa si mescolava all’inebriante odore di campanule e aglio, mentre le ceneri venivano gettate cerimoniosamente nell’aria, nell’acqua e nella terra”.

 

Sono rimasto anche io estremamente colpito da tale cerimonia e da questo aneddoto che non conoscevo, pur avendo già apprezzato in passato lo scultore in altre sue famose opere, fortemente influenzate dalle sue origini irlandesi. Testimone diretto – all’età di 8 anni – dell’esplosione di una bomba al piano inferiore di un ristorante di Belfast dove si trovava con sua mamma (durante le tensioni dei primi anni ’70 a me solamente note grazie ad una delle prime canzoni degli U2 che ho amato), Tim Shaw è stato capace di restituire forma artistica anche alla “alternative justice” denunciando quella espressione di umiliazione pubblica, utilizzata nell’Irlanda del Nord nel medesimo periodo storico ma anche in epoca più recente, tramite l’uso di catrame e piume cosparsi su corpi di donne e uomini presi a bersaglio.

Tutto questo mi ha fatto ritornare alla mente un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”, quando il Giudice Marco Maiga con una mirabile sintesi afferma:

Lo scopo del processo non è quello di risarcire la vittima, di assicurare un colpevole alla vittima. Lo scopo del processo è quello di esercitare la cosiddetta pretesa punitiva dello Stato, cioè la pretesa di sanzionare, l’esigenza di sanzionare quelli che hanno violato le regole della comunità.  Il processo va avanti anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata se è ritenuta responsabile anche se la vittima non vuole”.

Ne discende una domanda, apparentemente innocua: e dunque, se la pretesa punitiva non è appannaggio del singolo individuo ma deve essere esercitata (solamente) dallo Stato, che ne è invece della cosiddetta “esecuzione della pena”?

In altre parole: possiamo dunque tutti noi, quali componenti della società civile, ritenerci ugualmente esonerati dal fornire alcun contributo nella fase che necessariamente segue alla comminazione della condanna?

Le traiettorie di questi ultimi 6 anni, che hanno portato alcune vittime dei reati della criminalità organizzata all’incontro con le persone detenute del Gruppo della Trasgressione, forse potrebbe suggerire una risposta di senso. E riportarci tutti a quell’immagine del rogo che, con gli occhiali che ci ha regalato l’Artista, può assumere un significato ben diverso da quello tradizionale di dannazione eterna.

Per farmi meglio intendere ho bisogno qui, necessariamente, di chiedere aiuto a quella “capacità collettiva di costruire orizzonti sociali di speranza e di affermazione” alla quale questa estate la filosofa Rosi Braidotti ci ha nuovamente richiamati (dopo averne diffusamente trattato nel suo libro “Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte) attraverso le pagine del Corriere della Sera:

L’affermazione non è il rifiuto del dolore, ma una maniera consapevole e propositiva di trasformarlo in materia vivente e creativa. L’affermazione è gioia, qualità ontologica, derivata dalla capacità condivisa da tutti noi, di attivare una memoria incarnata, cioè legata all’esperienza vissuta, anche quella del dolore. Attivarla per meglio esprimere il nostro nucleo vitale, che altro non è che il desiderio fondamentale di continuare a esistere attraverso le relazioni”.

Ai miei occhi quindi l’etica affermativa sembra imporre ineludibilmente, a ciascuno di noi, di essere parte attiva in quello che, nei termini giuridici, viene definito il percorso trattamentale del condannato detenuto. Per cercare di dare un contributo nel trasformare il dolore, che necessariamente il reato commesso ha causato non solo alle vittime dirette ma all’intero tessuto sociale, in qualcosa di diverso: qualcosa che assuma sempre più i caratteri ontologici di una riparazione.

E in questo l’esperienza del Gruppo della Trasgressione – tramite il lavoro sulle coscienze delle persone detenute che in esso si riconoscono – si identifica proprio in quel lento procedere, verso il fiume della trasformazione (il famoso πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός di Eraclito).  Un movimento collettivo che potrebbe ben essere appena uscito dal famoso quadro di Matisse:

In una danza che anche l’intelligenza artificiale, nel videoclip di “The Court” capace di trarre ispirazione (e trasformazione) dal linguaggio scultoreo di Tim Shaw e dalla lirica di Peter Gabriel, ripropone in un frame ugualmente efficace:

Accompagnando per mano vittime e rei, la sfida che attende ciascuno di noi è dunque quella di contribuire ai percorsi riparativi dello strappo che il reato ha causato: perché, parafrasando il Poeta (Baudelaire), solo la danza può rivelare tutto il mistero che la vita tiene nascosto.

Monza – Teatro Binario7, 13.10.23

 

Cura o tradimento

Se potessi fare a meno di decidere
non sarei di certo così stanco

Ogni volta è una conquista riconoscere
quale sia la mia metà del campo

Guardo i fogli ancora bianchi sul mio tavolo
non ho idea di cosa farci e quindi sto

come un uomo che è davanti ad un citofono
e non ricorda più il cognome

[Nicolò Fabi, Tradizione e tradimento]

 

Il tratto di strada tra Malaga e Siviglia mi ha recentemente regalato due meravigliose sintesi visive in relazione alle tematiche con le quali ci stiamo confrontando durante gli incontri del Gruppo della Trasgressione, in questo ultimo anno così denso.

Nella ricerca del famoso dipinto di Goya nella Cappella dei Dolori della Cattedrale di Siviglia, mi sono imbattuto – quasi per caso – in questa raffigurazione della Negazione di San Pietro davvero significativa.

La négation de San Pedro, sec. XVII

Balza subito agli occhi, da un lato, la “citazione” ai movimenti dei personaggi che ritroviamo nella Vocazione di San Matteo di Caravaggio. Dall’altro, singolare è il distacco che l’anonimo autore francese vuole farne rispetto alla Negazione di San Pietro che lo stesso Caravaggio dipinse negli ultimi anni della sua vita: tanto “privata” la dinamica di quest’ultimo quadro (in quanto ristretta a tre attori: San Pietro che nega, la donna che lo accusa del contrario avendolo visto insieme a Gesù, il soldato alla quale la donna si rivolge per farlo catturare), quanto “pubblica” invece quella che il pittore francese, seguace di Caravaggio, ha inteso raffigurare.

Qui infatti, almeno da una mia prima impressione, sembra proprio che il soldato non si accontenti del racconto della donna e, per questo, “chieda conto” ad altre persone, sia pure in altre faccende affaccendate.

Ecco dunque l’immagine complessiva che questo dipinto, in maniera plastica, mi restituisce:  non solo “la chiamata a trarre il meglio da sé” ma anche il suo contrario, ossia il “tradimento di sé attraverso la negazione di quello che siamo (stati)”, è questione che non può essere circoscritta ad una dimensione strettamente personale.

Durante il nostro ultimo inverno nel sottosuolo di San Vittore lo abbiamo ripetuto molte volte: è la funzione che noi attribuiamo all’altro ciò che può fare la differenza nel diventare nutrimento profondo per la sua evoluzione.

Però rimaneva sempre nascosta, in questa nostra dialettica volta a far (ri)nascere il sole nelle esistenze di giovani adulti, l’altra faccia della medaglia. E precisamente: che dire invece di chi non vuole rispondere alla chiamata? Di chi non vuole dissotterrare il talento? Di chi non vuole togliere il bavaglio nel quale ha imprigionato la sua coscienza?

Nel pensare pertanto a questo lato oscuro della luna, un altro quadro mi è venuto in soccorso: anche qui sempre grazie ad una “rivoluzione copernicana” rispetto alle nostre corde emozionali che un mese fa avevano vibrato al suono dei violini del mare.

Ed infatti, se le barche che hanno trovato infine approdo al carcere di Opera avevano necessariamente richiamato a ciascuno di noi – per non rimanere indifferenti al male – l’azione riprovevole dei carnefici, questo dipinto di Picasso mi suggerisce l’esatto contrario.

Barque de naïades et faune blessé, 1937

E’ risaputo come il pittore spagnolo avesse tratto anche dalla cultura greca fonte di ispirazione per la sua Arte visiva, ma qui non è tanto il tema della potenza distruttiva del Minotauro (a lui così caro) ad essere presente quanto quello della cura rigeneratrice, incarnata nell’azione delle Ninfe dell’acqua che soccorrono il Fauno ferito.

In altre parole è il mito rovesciato, dove le Ninfe non hanno più motivo di temere chi – fino a quel momento – le aveva fatte oggetto della sua riprovevole caccia.

E non vi ormai più ombra di dubbio che le “nostre” Naiadi siano proprio i Familiari delle vittime: ad iniziare da Marisa Fiorani con quell’incontro nel carcere di Opera del 6 settembre 2016, fino ad arrivare a Paolo Setti Carraro con la sua lettera (quasi un bilancio interiore) dello scorso giugno.

Ma penso anche a Manlio Milani e Agnese Moro, Giorgio Bazzega e alle tante altre donne e uomini che in tutti questi anni hanno fatto una scelta precisa quanto alla propria metà del campo. Perché questo quadro di Picasso ha, per me, la stessa forza evocativa di quel racconto che mi aveva fatto sobbalzare lo stomaco, una sera al cinema:

Di questo racconto, con il passare degli anni, apprezzo non solo la conclusione (quella che più di quindici anni fa mi aveva folgorato) ma anche l’inizio: questi Familiari hanno fatto un percorso interiore strettamente personale, ma in questa loro immensa fatica non sono stati mai lasciati soli.

Perché un altro proverbio africano dice che “per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”. Allo stesso modo per curare un essere umano – vittima o carnefice che sia – affinché possa ritrovare sé stesso, senza più tradire la sua più vera natura: orgoglioso di fare parte di questo villaggio, insieme a tutti voi del Gruppo della Trasgressione.

Percorsi della devianzaReparto LA CHIAMATA

Due fratelli

Penso alla domanda posta da Aparo giovedì scorso al reparto La Chiamata: Quando qualcuno si interessa del detenuto, sta tradendo i famigliari della vittima? La cura nei confronti di chi ha abusato sminuisce o tradisce la cura verso vittima o i suoi famigliari?

Personalmente, ad oggi rispondo: assolutamente NO!

Mi rendo conto che è frutto di un cammino di conoscenza di me e di vita giocata grazie alle provocazioni, sfide, contrasti, reazioni -espresse bene o male, non importa- di tanti ragazzi che mi hanno indotto (e mi inducono tutt’ora) a scavare dentro me stessa per trovare risposte che non siano ‘frasi fatte’, frasi scontate, ma la verità di me.

Mi fa riflettere sulla mia vita: Non ho passato una bella infanzia e adolescenza tranne che a scuola o con gli amici fuori casa. Sono nata rifiutata e non potevo capire -come tutti i bambini- i problemi degli adulti (i miei genitori). Incassavo e cercavo di proteggere la mia sorella gemella e un’altra sorella, ero molto molto timida e certamente insicura. Nella pre-adolescenza e adolescenza mi sentivo e credevo ‘un nulla’. Ci facevamo forza -come non so- io e la mia sorella gemella.

A 21 anni ho iniziato il cammino per diventare suora, Qualcuno inaspettatamente mi ha scelta: un nulla graziato.

A 34 (2001) anni ho perso mia sorella gemella, sposata da 5 anni, con tre figli piccolissimi (un mese e mezzo; due anni e mezzo e tre anni e mezzo) per un Tir pirata che le ha stretto la strada a senso unico e l’ha trascinata.

Ha salvato i tre figlioletti che erano in macchina e ha lottato tra la morte e la vita senza farcela. I becchini quando sono venuti ad aprire la camera mortuaria, trovandomi dentro da sola con lei, mi hanno detto: ma quell’autista del Tir riuscirà a dormire sapendo della morte prematura di una mamma che ha lasciato tre figli e il marito?

E io risposi loro spontaneamente: quell’uomo chissà quali problemi aveva per non essere lucido nella guida, avrà la sua responsabilità ma ne rimarrà segnato per tutta la vita, purtroppo. Invece il questore che, oltre ai 17 giorni di indagini, ha voluto attendere troppi giorni dopo la morte con la scusa di cercare ‘il colpevole’ che non ha mai cercato… lo sarà forse meno (la corruzione, abbiamo saputo poi, aveva avuto il sopravvento).

Ne ho viste e sentite tante sulla mia pelle e ho imparato tanto a forza di sbattere ‘la testa contro il muro’ e -come già accennavo- ho imparato a farmi domande e a cercare il confronto anche attraverso un percorso di conoscenza intrapreso a 24 anni. Questo mi ha aiutato a mettere in campo risorse che non sapevo di avere e ad acquisire qualche strumento per rileggermi … un percorso bellissimo! Mi ha dato le basi per la scelta di vita sempre in movimento e per continuare a camminare dentro gli eventi e le situazioni in divenire e non prive di tempeste.

Dal 2010 frequento il carcere e da suora sono stata a tempo pieno in periferie di Pavia, Roma e Milano, e questa palestra di umanità ha trasformato il mio sguardo, che ha iniziato a vedere prima di tutto e sopra tutto la persona, l’uomo che mi sta davanti sia nell’autore del reato, sia in chi lo subisce; anche perché queste due dimensioni sono presenti anche dentro di me: grano e zizzania.

Ho imparato a ri-conoscere i mostri e le miserie che sono in me assieme ai doni e a ri-conoscere quanto sia difficile metterli in dialogo perché dentro di me non facciano a pugni, ma possa prevalere la risorsa sul danno.

Per me è importante chiedermi quanto e come io sono capace -per es.- di riparare e ricucire una relazione fallita o rifiutata da me, come posso tenere ‘in equilibrio’ dei macigni ereditati o causati dalla mia storia personale assieme alle risorse e ai cambiamenti maturati in bene? Rimangono la lotta e l’impegno per farli interagire perché diventino ‘amici’. Impossibile? NO, frutto di un cammino che non finisce mai!

Se ogni persona è prima di tutto persona, conta la cura della vittima o dei familiari della vittima di reato tanto quanto la cura di chi lo ha commesso perché solo così si toglie potere al male che in ciascuno di noi abita assieme al bene.

Se non sono nessuno per ‘togliere’ la vita o anche solo la dignità ad una persona, sono forse qualcuno per toglierla a me stesso?

Più rivedo e riconosco le tempeste passate e presenti dentro di me assieme alla cura immeritata, gratuita, ricevuta e più credo che sia possibile, anzi necessaria, una cura per ogni persona sempre e comunque!

Inoltre penso ai due fratelli della parabola del Padre Misericordioso e proprio lì trovo la bellezza della giustizia riparativa che i due fratelli dovrebbero mettere in atto tra loro, uno apparentemente bravo e l’altro dissoluto, ma entrambi persi.

È il Padre che mette in atto e inizia la riparazione, aspettando a braccia aperte il figlio scappato di casa e facendo festa con lui, ma anche uscendo a supplicare l’altro che, sentendosi a posto, non vuole partecipare alla festa del fratello che non considera più tale e che definisce ‘tuo figlio’ rivolgendosi al Padre.

Questo mi dice che le nostre forze umane, se isolate, faticano tanto, ma Qualcuno non si stanca mai di raggiungerci perché guarda al cuore di ciascuno di noi -persi e ritrovati anche quando non lo riconosciamo- e non vuole che nessuno si perda. Da Padre, ci vuole figli e fratelli sempre!

Suor Anna Donelli

Reparto LA CHIAMATA – Incontri con i familiari delle vittime

In Italia, salvo qualche bella eccezione

“Perchè in Italia, salvo qualche bella eccezione, la prigione serve solo a punire il colpevole”

 

Parole importanti pronunciate all’indirizzo di 10 milioni 545 mila persone, più o meno attente in attesa del loro cantante preferito.

Parole da non dimenticare, praticandole ogni giorno: quale “bella eccezione“, direi che a questo punto il Gruppo della Trasgressione – dopo il Senato della Repubblica italiana – è pronto per andare il prossimo anno anche al Festival di Sanremo.

Sipario.

[credits: Raiplay, 73° Festival della canzone italiana, 8.2.2023. Monologo di Francesca Fagnani]

 

“Non devi trattenere il dolore per trattenere la memoria”

“You don’t have to hold onto the pain to hold onto the memory”
[Janet Jackson, Memory]

 

Il cammino con Marcella e Marisa, passato nel 2016 attraverso l’incontro con il Gruppo della Trasgressione al carcere di Opera, ci porterà il 21 Novembre 2022 a Pavia (ore 18, Collegio Santa Caterina da Siena).

Ci vediamo là! [qui la locandina completa]

Agosto con Paolo

Buongiorno a tutto il Gruppo della Trasgressione, sono Francesco. Mi fa piacere condividere con voi quello che mi succede ogni volta che termina l’incontro.

Quando vado via da qui, sento la necessità di andare al passeggio, e mentre cammino e ascolto la musica, rifletto sui discorsi che fa il Dottor Aparo e su tutte le domande e riflessioni che vengono poste al gruppo.

Ultimamente mi ha colpito moltissimo il fatto che Paolo Setti Carraro è entrato a far parte del gruppo interno. Provo a capire il dolore che ha dovuto sopportare in tutti questi anni assieme ai suoi famigliari. Inoltre, mi rendo conto che non ci possano essere scuse né giustificazioni per quell’ignobile atto; in quanto la signora Setti Carraro è stata una vittima innocente ed era estranea al lavoro che svolgeva il marito. Da quello che ho letto, il lavoro che svolgeva il Generale Della Chiesa non lo stava eseguendo per un suo scopo o tornaconto, ma perché il governo gli aveva concesso poteri speciali per combattere il terrorismo. Visto che il Generale, con grandi meriti, ha portato a termine il progetto di smantellare le brigate rosse, lo stato lo ha mandato in Sicilia per combattere la mafia.

Da tempo mi domando cosa c’entrava la moglie del generale! E perché hanno usato tanta ferocia su una donna innocente? Da quando sono in carcere sento dire che i mafiosi usano e rispettano dei codici, ma in tale situazione non si sa come mai non hanno tenuto in considerazione il codice tanto sbandierato.

Io non sono stato uno stinco di santo, non ho mai fatto parte di organizzazioni criminali ma ero vicino a dei miei parenti e a un mio fratello che hanno fatto parte di un’organizzazione mafiosa. Oggi mi sento di chiedergli umilmente scusa per il dolore che gli hanno arrecato tutti i mafiosi ed in particolare il dolore che ho prodotto anche io.

Apprezzo tantissimo che dal mese di agosto Paolo è entrato nel gruppo della trasgressione interno. Paolo è una persona che, nonostante il dolore e la tragedia che ha subito, è riuscito trovare la forza di confrontarsi con persone che gli hanno provocato il dolore che si porta dietro. Io trovo Paolo di un’umanità disarmante, la sua umiltà e i suoi discorsi mi portano a riflettere e a vergognarmi di quello che ero.

Inoltre, condivido pienamente quando sostiene che il dolore che uno subisce non deve essere rimosso, ma bisogna farselo attraversare addosso. Secondo il mio punto di vista, una persona può migliorare e cambiare solo attraverso l’avvicinamento delle istituzioni.

Per quanto riguarda la partecipazione all’omicidio della sorella di Paolo, io credo purtroppo che, sia Pasquale che tutti i detenuti presenti al tavolo, se all’epoca dei fatti avessimo fatto parte di quell’organizzazione mafiosa, sicuramente avremmo dovuto partecipare alla strage, sia perché venivamo istigati, esaltati dai capi e dai compagni, sia perché quando si è giovani non si  è coscienti e tantomeno avevamo gli strumenti per capire e sentire il dolore che avremmo provocato ai famigliari della vittima. Quelle sofferenze, quei sentimenti lasciano dentro ai famigliari della vittima delle cicatrici, in quanto si vive con quel ricordo.

Da quando partecipo al gruppo mi sono resoconto che quello che sostiene il Dottor Aparo è tutto vero. Ognuno di noi ha perso la propria umanità da giovanissimo, poi strada facendo si mette a tacere la coscienza ancora di più, arrivando a compiere gesti terribili. Secondo il mio pensiero l’umanità che c’è in ognuno di noi può essere ritrovata se le istituzioni non abbandonano le persone a sé stesse, ma iniziano a trattarli come esseri umani e non come fascicoli viventi.

L’umanità che c’è in  ognuno di noi può essere stimolata e alimentata se le persone vengono incoraggiate a mettersi in gioco e a crescere culturalmente. Sostengo che il cambiamento avviene attraverso il confronto e i laboratori come il Gruppo della Trasgressione, dove le persone vengono stimolate a prendere consapevolezza del loro passato. Inoltre, il rapporto che si viene a creare con le persone che aderiscono al Gruppo è importante. Queste persone durante il percorso diventano figure di riferimento. Gli incontri e le relazioni portano i detenuti a una rivisitazione profonda del loro passato e attraverso tali riflessioni iniziano a liberarsi dalle gabbie mentali.

Questo sta succedendo a me perché Lei, Paolo e il resto del Gruppo mi mettete in condizioni di liberarmi dei pregiudizi e di quei meccanismi che si vengono a creare tra il detenuto e l’educatore o lo psicologo. Nell’incontro della settimana scorsa si è parlato di psicoterapia. Nel mio caso il Gruppo funge da terapia, in quanto mi sta aiutando sia a relazionarmi che a mettermi in gioco e a superare le mie condizioni psicofisiche che mi trascino da quando è avvenuto il distacco con mio fratello gemello.

Lei, con i suoi discorsi conditi da bestemmie, e tutto il gruppo mi stimolate a venir fuori in modo naturale e sincero, senza aver paura di mostrare le mie fragilità, paure, emozioni.

Concludo facendovi sapere che se ho prodotto questo scritto è stato grazie a tutto il Gruppo.

Milano – Opera, 11/10/2022
Francesco Sergi

Incontri con le vittime

Delitto e castigo al carcere di Opera

“Cerchiamo 15 giovani studenti/studentesse di giurisprudenza per dare forma – dentro le mura del carcere di Opera – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, dialogando insieme a chi ne ha già commessi parecchi e chi ne ha subiti alcuni”.

Qui la lettera di invito: le candidature dovranno pervenire a info@lostrappo.net entro e non oltre il 22 Ottobre pv.

Gli incontri si svolgeranno i 5 mercoledì di Novembre 2022 (ore 9.00-13.00) all’interno del carcere di Opera.

Per iniziare può essere utile il resoconto dell’incontro del Gruppo della Trasgressione con il Prof. Fausto Malcovati su Dostoevskij  (5.7.2005).

Maggiori informazioni anche su la pagina Instagram de “Lo Strappo – Quattro chiacchiere sul crimine”.

PS: in ogni caso c’è anche un altro gesto utile per aiutarci in questa ricerca, considerato che tutti i protagonisti di questa rilettura collettiva parteciperanno a titolo gratuito: regalando una copia di “Delitto e Castigo” alle persone detenute nel carcere di Opera

[anche con una dedica e/o un augurio di buona lettura, se ritieni. Se non sai quale edizione scegliere ci permettiamo di consigliarti Einaudi o Feltrinelli. Indirizzo della spedizione/consegna a mani: Direzione Casa di reclusione di Milano-Opera, via Camporgnago 40, 20141 Milano. Ci faremo personalmente garanti della consegna dei libri alle persone detenute interessate].

Delitto e Castigo

La “mia” mappa per la pena

Nel trentesimo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio (simbolo di una memoria collettiva rivolta a tutte le persone perbene, uccise da mani mafiose), rimetto in ordine alcuni appunti e li affido – sempre più fiducioso – alla nostra capsula del tempo

 

Accadde che un pomeriggio di fine aprile 2022 Angelo Aparo detto Juri, con quel tempismo organizzativo che tutti gli riconosciamo, mi chiamò chiedendomi se “avessi piacere” a presenziare il 25 maggio successivo ad un incontro a Roma presso il Senato della Repubblica e a dire qualcosa.

Quando ho riattaccato il telefono, dopo avergli detto di sì meravigliandomi di ritrovare in agenda proprio quella giornata libera da impegni di udienza, mi sono chiesto se per questo incontro avesse pensato a me come magistrato o come cittadino: la domanda è solo apparentemente mal posta perché, se mi guardo indietro, ho conosciuto prima il Gruppo della Trasgressione e, solo dopo un anno, sono diventato pubblico ministero per aver superato un concorso pubblico.

Ed in effetti fu proprio grazie alla lettura del libro “I pugni nel muro” che esattamente 20 anni fa aiutai un Professore di una scuola superiore a portare una sua classe nel carcere di San Vittore, perché ritenevo importante anche io – ai tempi solo un educatore,  anche se laureato in giurisprudenza – che dei giovani potessero avere occasioni di “aprire gli occhi” sul mondo che li circondava.

Di questo mio primo incontro con i detenuti del Gruppo ho già scritto una volta:

Ricordo ancora perfettamente 40 minuti fitti fitti a sentire parlare, tra le altre cose, di uno psicologo che aveva fondato un Gruppo detto addirittura “della Trasgressione” e ad un certo punto, seduto fino a quel momento in silenzio intorno al tavolo, una voce che soddisfa la mia curiosità: “il dott. Aparo sarei io”.

E’ capitato a molti di scambiare Juri per un detenuto, e così è capitato a me fino a quando l’ho sentito prendere la parola.

E non è stato amore a prima vista, si badi bene… questo lo ricordo sempre perché a quell’incontro ne seguì un altro, nei mesi successivi in un bar vicino al carcere, che suggellò quello che in altre occasioni ho definito “un patto tra macellai”.

Nella mia incoscienza educativa proposi [ad Aparo] uno scambio di prigionieri: carne giovane di giovani scout in cerca d’autore vs. carne meno giovane ma ugualmente interessante. I primi prigionieri dei preconcetti tipici dei loro 19/20 anni, i secondi prigionieri di mura troppo strette. Entrambi però desiderosi di evasione, e – sia pure in quella prima fase inconsapevolmente – di mettersi a nudo fino al punto di farsi tagliare a piccoli pezzi da questa prospettiva di cambiamento interiore.

Nonostante queste premesse e la circostanza che poi superai anche il concorso per magistratura, l’idea (nostra, perché in fondo in fondo so per certo che lui non aspettava altro per il Gruppo) risultò vincente: partimmo nel marzo dell’anno dopo (2003) con il primo incontro in carcere, e da quel momento non abbiamo mai smesso […].

Questo fiume vitale [di giovani, entrati negli anni in carcere] condusse, quale dono della moltiplicazione, all’approdo del Gruppo della Trasgressione in molti istituti scolastici. Ed impagabile fu per me il piacere di constatare che un gruppo di criminali riusciva ad incidere sull’indole di adolescenti, in 3 ore di “lezione” nelle classi, molto più di quanto gli insegnanti in un triennio.

All’esito di questo mio cammino ventennale, a me sembra importante (e spero utile) mettere ordine ad alcuni accadimenti – di cui posso dirmi testimone diretto in quanto legati alla mia frequentazione con il Gruppo della Trasgressione – i quali con il tempo hanno generato nella mente (e anche nella pancia) di un pubblico ministero questi due spunti di riflessione.

Il primo parte da un passaggio dell’intervento (a ricordo dell’impegno sociale e culturale di Francesca Morvillo con i più giovani) che ho sentito pronunciare dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia lo scorso 6 maggio quando anche io mi trovavo nell’aula bunker di Palermo all’esito dell’incontro dei Procuratori europei del Consiglio d’Europa:

“C’è un nesso tra educazione e contrasto alla criminalità che non dobbiamo stancarci di coltivare.

E c’è un nesso tra rieducazione dei detenuti e sicurezza pubblica che dobbiamo imparare ad apprezzare in tutta la sua portata, come ci indicano anche gli strumenti internazionali […]”.

Vorrei concentrarmi sulla prima frase e, dalla mia particolare prospettiva di pubblico ministero, affermare che questo “nesso tra educazione e contrasto alla criminalità” deve necessariamente essere coltivato a partire dalla formazione degli studenti di giurisprudenza, prima che essi intraprendano il percorso per diventare magistrati (ma anche, lasciatemelo dire, avvocati).

Questa idea, che forse può apparire a prima vista un poco astrusa, io la voglio invece con forza ricollegare al bel titolo di questo incontro in Senato – “una mappa per la pena” – perché mi ricorda quando, alcuni anni fa, proprio con il Gruppo della Trasgressione siamo andati in un Istituto di istruzione superiore a Sesto San Giovanni a passare un intero pomeriggio solo perché una Professoressa (che si chiama Sofia Lorefice e che conobbi, quattordici anni prima, quale giovane scout partecipante ad uno dei nostri primi incontri in carcere) si era messa nella testa che si potesse parlare di Cittadinanza e Costituzione agli studenti del quinto anno anche in questo modo, ossia grazie ad un incontro di testimonianze apparentemente diverse.

Io arrivai a quell’appuntamento con un passaggio di un intervento di Piero Calamandrei (tenuto alla Assemblea Costituente nella seduta del 4 marzo 1947) il quale ricordava a tutti noi come la Costituzione è fatta anche di disposizioni cd. programmatiche e tra esse, a mio modesto avviso, è compreso anche l’art. 27 comma 3. Calamandrei propose di inserire questo tipo di disposizioni non già nella forma di articoli ben determinati ma in una sorta di Preambolo. Ma poi, proprio in questo intervento, spiegò chi riuscì a fargli cambiare idea e come:

Ecco, nell’essere pionieri in questo nostro viaggio dovremmo iniziare a distribuire queste mappe sulla pena nelle aule universitarie, prima che nei Tribunali. Perché, allo stesso modo, anche quando siamo andati – grazie, questa volta, ad un fecondo protocollo di intesa tra le università milanesi e l’associazione Libera – un intero pomeriggio all’Università Bicocca di Milano ad accompagnare alcuni Familiari delle vittime della criminalità mafiosa (ricordo, in particolare, Paolo Setti Carraro e Marisa Fiorani) ho percepito, alla fine della profondità dei loro interventi,  la fortuna che quei giovani studenti di giurisprudenza avevano avuto proprio grazie quell’incontro.

Fortune che, per esempio e per quanto possa qui valere, io non ho avuto: diversi Professori (da Federico Stella ad Angelo Giarda) mi hanno lasciato un segno indelebile nel diritto e nella procedura penale ma quanto a tutto il resto (che oggi è al centro di questo nostro ragionamento) io personalmente lo devo ai casi della vita e non alla struttura precostituita del mio percorso universitario.

Concludo allora questo primo spunto con una rivelazione per quei detenuti del Gruppo che erano a Sesto San Giovanni quel pomeriggio del 2019: alcuni mesi fa, mentre ero in ufficio in Procura, verso le 13 bussa alla mia porta un ragazzo che mi dice: “sono venuto in Tribunale per un convegno, lei sicuramente non si ricorda di me ma volevo dirle che dopo quell’incontro nella nostra scuola mi sono deciso ad iscrivermi a giurisprudenza. Buon pomeriggio e grazie”. Ecco, ve lo dico oggi perché se poi Giacomo diventerà un magistrato lo avrete anche voi sulla coscienza!

Questo poi lo dico anche perché ricordo perfettamente, una decina di anni fa, la posizione di alcuni magistrati (sia pure autorevoli) contrari al fatto che gli allora uditori giudiziari (oggi magistrati ordinari in tirocinio) cominciassero a svolgere – per la prima volta rispetto a quanto era sempre avvenuto in passato – una parte del loro percorso  formativo dentro il carcere, perché (si sosteneva) era importante rimanessero “non psicologicamente condizionati” in tal senso.

Per quanto mi riguarda, posso dire – come avrete ormai capito – di avere una fitta frequentazione (non solo nel mio lavoro quotidiano ma anche quando poi, quantomeno un fine settimana all’anno, mi metto le scarpe da tennis e vado a partecipare ai lavori del Gruppo in carcere) con persone detenute per aver commesso dei reati ma di stare invece, nonostante questo tipo di frequentazione, dalla parte delle vittime.

Io, tra vittima e carnefice” è appunto il titolo di una mia riflessione che accompagna un importante lavoro che, insieme a Juri Aparo e altri due professionisti (il criminologo Walter Vannini e il giornalista Carlo Casoli), nel 2017 – dopo una gestazione di oltre 7 anni – fa abbiamo regalato alla città di Milano, a Libera, all’Agesci e a tutte quelle altre realtà educative interessate a far capire cosa succede – nel tessuto sociale – ogni volta che viene commesso un reato.

Questo lavoro è racchiuso in 63 minuti di un documentario, liberamente fruibile in rete dal sito lostrappo.net, che appunto si intitola “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”. Abbiamo rivolto le stesse tipo di domande a chi ha subito un crimine, a chi lo ha commesso (e qui il documentario è ricco di interventi di molti detenuti del Gruppo della Trasgressione, ripresi nei loro ragionamenti durante alcuni incontri), a chi è chiamato ad amministrare giustizia e a chi invece è chiamato, nel mondo dei media, a raccontare a tutti noi questi fatti.

Tutto questo materiale è stato montato da 4 bravissimi professionisti (che si fanno chiamare Dieci78) in maniera tale che, come ha scritto in una acuta recensione Manuela D’Alessandro,

“i protagonisti dello ‘Strappo’ hanno una cosa in comune. Si cercano tutti, in uno strano girotondo, anche per maledirsi, e si toccano tutti anche solo per vedere com’è la pelle dell’altro”.

E arrivo allora al secondo spunto di riflessione, che questa volta mi chiama in causa direttamente come pubblico ministero (e non più come, in un tempo ormai lontano, studente di giurisprudenza): cosa ci faccio io in questo “strano girotondo”?

E questo spunto di riflessione lo ricollego, ancora una volta, a quella “intervista sulla punizione” a cui il Gruppo sottopose me – insieme ad altre persone, a dire il vero molto più esperte di me su quel tema – nel 2005. Io ero alla fine del mio primo anno in Procura a Milano dopo la presa di possesso come pubblico ministero e già mi sembrava che qualcosa non tornasse nel modo in cui l’art. 27 comma 3 della Costituzione venisse “declinato” nella pratica.

Sarà che, per la mia tesi di laurea, ho lavorato più di un anno presso il Tribunale per i minorenni di Milano per “confutare”, numeri alla mano sui tassi di recidiva, il pensiero di un magistrato che riteneva che la custodia cautelare per un soggetto di minore età potesse avere, a differenza di quanto di regola non avviene per i maggiorenni, una efficacia “educativa”.

Ma al di là di questa mia esperienza pregressa, la domanda era e rimane anche oggi questa: a chi si dovrebbe rivolgere l’art. 27 comma 3? A quale magistrato questa norma, appunto e sempre nell’ottica del Sommo Poeta, deve illuminare la strada?

Solo al magistrato della sorveglianza che appunto “esegue” la pena? O, al più, anche al giudice che tale pena “applica”?

E invece, quanto al pubblico ministero…. lo lasciamo fuori dall’art. 27 comma 3 della Costituzione? Lo lasciamo fuori, a fare – permettetemi l’ironia – “il bello addormentato”?  Ossia il magistrato che, come nel quadro di un celebre pittore francese dell’ottocento (Thomas Couture), se la dorme nel mentre? Ricordo peraltro a tutti che è il pubblico ministero, di regola, il primo “volto della giustizia” che il reo incontra sul suo percorso!

Ecco, io ho sempre creduto di no… ho sempre creduto che l’art. 27 comma 3 della Costituzione chiami in causa anche me e, più in generale, ciascun pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Ed è anche per questo che ricordo di aver passato un lungo pomeriggio in un bar (un altro bar sempre nei dintorni di San Vittore) a cercare di farmi spiegare dal dott. Aparo perché quel mio indagato – rispetto al quale tutta la scena del crimine parlava a favore della sua colpevolezza – non volesse raccontarmi la verità.

Volevo farmi spiegare quali fossero i meccanismi, nella testa di una persona, che potevano consentirle di cogliere per davvero il senso di quanto avesse compiuto ed intraprendere così un percorso di cambiamento.

Ma, credetemi, ritenevo che non tanto per me (o, ancora peggio, per il buon esito della mia indagine) quella verità doveva essere raccontata.

Perché 13 colpi erano esplosi alle 9 del mattino in un parcheggio di una città dell’hinterland milanese, due persone erano morte e ad un’altra persona (allo stesso tempo sorella e figlia delle due vittime) durante tutto il processo non importava nulla del fatto che il pubblico ministero (che ero io) avesse chiesto l’ergastolo … lei voleva una cosa diversa: voleva parlare con il carnefice!

Ecco, gran parte di quello che posso dire di aver imparato dalla mia frequentazione con il Gruppo della Trasgressione può essere ben riassunto da una domanda di senso. Domanda alla quale io ho personalmente assistito, con una sofferenza per me lacerante (ma questa è un’altra storia che qui non interessa) mentre il dott. Aparo si rivolgeva ad un detenuto non del Gruppo che, sia pure condannato in nome del popolo italiano, aveva appena concluso un suo intervento pubblico affermando di “non sentirsi responsabile” per quello che era successo:

 “se lei è un cristiano, come dice di essere, la vittima per definizione è suo parente… non le sembra quindi strano che lei non sappia come rivolgersi a quella persona che è morta, se non dirle che non si sente responsabile per quello che è successo? Perché è solo quando l’uomo cerca la sua responsabilità che diventa libero”.

Ecco, io credo che questa mappa di cui stiamo cercando di tracciare i contorni debba arrivare a concepire una modello di giustizia penale nella quale il reo non sia più responsabile solo “di qualcosa” (di un omicidio o di una truffa qui poco importa) ma  anche responsabile “verso qualcuno”.

Una mappa che ci porta verso quella necessità di “punire bene”, per dirla con Duccio Scatolero le cui riflessioni mi hanno letteralmente folgorato durante la mia tesi di laurea.

Dove appunto il “punire bene” diventa un vero e proprio diritto per il reo e per l’attuare del quale è imprescindibile una punizione in cui il ruolo di colui che punisce non si esaurisca nell’atto di irrogare la pena.  Perché appunto se ogni colpevole ha il diritto ad essere punito bene, questo significa – in altre parole – che proprio tramite l’atto del punire lo Stato deve prendersi idealmente carico del suo esito e, per esso, della sua piena efficacia. Solo in questo modo – continuava Scatolero – la punizione acquista allora anche il significato dell’essere presente per il reo, laddove altri – la famiglia, gli amici, la società – non ci sono stati.

L’essere presente per il reo” allora, per il pubblico ministero e come accennavo prima, è essere dunque “qualcuno che ti cerca”. Qualcuno che cerca non solo di rendere verità e giustizia per le vittime ma che si pone, all’interno delle indagini che è chiamato a compiere per il compito che la Costituzione gli affida, tra gli obiettivi anche quello – se possibile – di cercare l’uomo dentro il criminale.

Il che è un compito difficilissimo, cari componenti del Gruppo della Trasgressione, perché l’esame di magistratura – al momento – non ci chiede neppure lontanamente di sapere fare anche questo…

Così come immagino sia stata una iniziativa personale ed estemporanea della Prof.ssa Mariella Tirelli (e non già del sistema universitario in sé) quella che ha portato Alessandra Cesario a frequentare il Gruppo, durante il suo percorso di studentessa di giurisprudenza che l’ha vista poi laurearsi nel 2008 con una tesi sul metodo APAC (carcere senza carcerieri, nelle quali “entra l’uomo” e “il reato resta fuori”).

Nella mia tesi di laurea, invece, nel 1997 avevo inserito anche questa citazione letteraria, quasi un omaggio alla mia importante esperienza educativa scout:

“C’è anche questo di bello nella legge della Jungla: che la punizione salda ogni conto e non lascia rancori. Mowgli appoggiò la testa sulla groppa di Bagheera e si addormentò così profondamente che non si risvegliò nemmeno quando fu deposto a fianco di mamma Lupa nella caverna”.

Nella mia continua ricerca di una terra dove il punito Mowgli possa addormentarsi, lui sì, sulla groppa di Bagheera (che lo ha ben sanzionato dopo averlo cercato e compreso), consentitemi però – giunto alla fine di questa mia testimonianza – una domanda retorica: “caro Juri, cosa succederà quando, come ragionevolmente te lo puoi concedere dopo tutti questi anni di fatiche, non avrai più piacere a continuare a camminare lungo questo percorso?”

In altre, e meno retoriche, parole: chi dovrà clonare il dott. Aparo? Chi dovrà saperne estrarre il DNA del suo metodo di lavoro? Chi dovrà continuare a tenere acceso quel “lume”, a cui Dante faceva riferimento, verso questa direzione già intrapresa e ben fino ad ora sperimentata?

Bene, anche a beneficio di tutti quei giovani che si vorranno avvicinare a questa così impegnativa professione che è quella del magistrato, credo che davvero sia arrivato il momento che le Istituzioni facciano la loro parte, a partire da domani mattina, perché questo “centro studi e laboratorio permanente” che viene proposto in questo incontro in Senato possa diventare presto una realtà feconda in tutta Italia e non solo nelle tre carceri milanesi dove il Gruppo attualmente opera.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

– F. MANTOVANI, “Diritto penale. Parte generale”, III edizione, Milano, 1992, pp. 741 ss
– F. STELLA, Prefazione in E. WIESNET, “Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita”, Milano, 1987
– D. SCATOLERO, Atti delle Giornate nazionali di studio e di riflessione sull’applicazione del nuovo codice di procedura penale minorile, Milano 23-24 ottobre 1992, p. 136
– C. MAZZUCATO, La giustizia dell’incontro in G. BERTAGNA-A. CERETTI-C. MAZZUCATO (a cura di), “Il libro dell’incontro”, Milano, 2015
– F. OCCHETTA, “La giustizia capovolta”, Milano, 2016

Una mappa per la pena

Un pomeriggio di libertà

Alcuni giorni fa, con il Gruppo della Trasgressione, ho avuto la possibilità di trascorrere un pomeriggio nel carcere di Opera, una realtà che mi ha sempre incuriosito sin da ragazzina. Premetto che già in altre occasioni ho potuto assistere alle attività del gruppo e più volte avrei voluto scrivere un mio pensiero riguardo le emozioni che ho provato in questi incontri, ma essendo riservata e insicura mi sono sempre bloccata.

Sembra un paradosso, ma ascoltando le parole di alcuni detenuti ho provato una sensazione di pura libertà. Quella libertà mentale che da tempo stavo cercando. Grazie agli interventi dei detenuti, delle vittime delle mafie e degli studenti, ho rivisto in me quella bambina che ho tenuto nascosta fino ad oggi e soprattutto la rabbia che tenevo sotterrata.

Riflettendo sul mio passato mi sento di dire che a differenza dei detenuti sono stata fortunata a non perdermi quando mi sono sentita tradita dagli affetti più cari. L’avere vissuto in un collegio per i tre anni delle scuole medie, per scelta dei miei genitori, mi ha segnato particolarmente a tal punto da farmi sentire sbagliata sia all’interno della mia famiglia che nella società. Intanto la rabbia in me aumentava sempre di più e mi spingeva a sentimenti di vendetta nei confronti delle persone che mi stavano accanto. Oggi a distanza di molti anni e mamma di tre figli posso affermare, pur non avendo commesso reati, che quell’evento ha segnato la mia vita e avrebbe potuto spingermi a svendere i miei valori.

Ascoltando le varie persone del gruppo mi sono resa conto che questo rancore e questa sete di vendetta esistono ancora dentro di me e si ripresentano in ogni occasione, ad esempio esco da una separazione dolorosa, un fallimento che mi ha portato ad avere anche qui una rabbia ingestibile dentro di me da non riuscire a perdonare e a perdonarmi. In carcere, accanto ai detenuti, mi sono sentita libera respirando la loro forte voglia di libertà. Immedesimarmi in loro mi ha permesso di percepire le motivazioni che li spingono al cambiamento, proprio ciò di cui ho bisogno anch’io pur essendo una cittadina libera. Anche le parole delle vittime delle mafie e di una studentessa mi hanno colpito e ricordo che mi è sorta spontanea una domanda: ma chi sono io per poter giudicare e non riuscire a capire la forza del perdono? Q

uesta per me è stata un’esperienza forte ed emozionante al tempo stesso per cui ringrazio soprattutto il mio compagno e poi il Gruppo della Trasgressione che mi hanno permesso di viverla e di guardarmi dentro.

Francesca Zani

Il mondo della devianza

Viaggio di andata e ritorno
nel mondo della devianza

Traccia per un incontro con un gruppo di studenti
alla Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio cui prendono parte detenuti, studenti universitari, familiari di vittime di reato e comuni cittadini per

  • chiedersi insieme quali sono gli ingredienti che favoriscono l’ingresso nel mondo della devianza, con i comportamenti e i sentimenti che lo caratterizzano;
  • sperimentare attraverso il lavoro e dei progetti comuni le strade più utili per diventare membri attivi e riconosciuti della collettività.

A tale scopo,  i diversi componenti del gruppo, danno spazio ai sentimenti e alle loro eterogenee esperienze per chiedersi in collaborazione:

 

come si acquista il biglietto di andata:

  • Le condizioni familiari e ambientali, i conflitti, le turbolenze dei primi anni di vita;
  • le fragilità, il bisogno di conferme, la rabbia, il senso di rivalsa dell’adolescenza;
  • La brama di diventare grandi e l’urgenza di accorciare i tempi per sentirsi indipendenti dalle prime figure di riferimento;
  • la seduzione, gli attori, le forme, i meccanismi;
  • I modelli di riferimento e l’ambiente nel quale si ottengono i primi riconoscimenti dal boss, dalla banda;
  • L’iniziazione, la sfida, i gradini dell’ascesa all’interno del gruppo dei pari;
  • I meccanismi di assuefazione all’abuso con “la banalità e la complessità del male”;

 

come si lavora per quello di ritorno:

  • le attività, le aree di interesse e di intervento, i progetti;
  • le collaborazioni all’interno del gruppo e con le istituzioni;
  • le risorse interne e le alleanze possibili.

 

L’incontro con alcuni studenti della cattedra del prof. Francesco Scopelliti è stato registrato su Zoom ed è conservato negli archivi del Gruppo della Trasgressione.

Percorsi della devianza