Gli altri raccontano di sé e io capisco me stesso

L’impatto che ho avuto la prima volta con il carcere credo di averlo già un po’ scritto, ma sarò più dettagliato. La prima emozione è stata di paura, non sapevo cosa mi sarebbe successo, se essere picchiato dagli agenti stessi o dai detenuti per il reato commesso. Durante il tragitto per arrivare al carcere capii subito che era un posto isolato, ai margini della società.

Credo che il carcere sia il posto peggiore dove stare se si vuole stare soli. Appena arrivati, all’interno del carcere notai subito il cancello chiudersi e la realtà divisa in due pezzi: da una parte la felicità, come una foto di una spiaggia paradisiaca; dalla parte, dove ero io, non era una spiaggia ma una struttura cupa, piena di povertà e tristezza.

Entrato, dopo le pratiche di burocrazia, fui controllato, spogliato e dovetti fare persino dei piegamenti come se avessi qualcosa da nascondere, pur se la mia situazione era nota. In pratica, sin dall’inizio ti tolgono dignità e se chiedi spiegazioni la risposta è sempre la stessa, in primis dicono che è la normativa.

Una volta conclusa questa fase, fui spostato nel reparto di osservazione, furono giorni di desolazione con un logoramento interiore. In quei giorni mi frullava in testa un unico chiodo fisso cioè l’unica via di fuga per il mio pentimento; pur perso nella desolazione, escogitai, se così si può definire, un piano per il raggiungimento del mio scopo, il suicidio. Non sapendo neppure cosa fossero gli psicofarmaci, me li feci prescrivere in modo da averli per poi prenderli tutti; aspettai il giorno decisivo.

Quella sera, aspettai che le guardie facessero il giro e cercai di sfuggire agli sguardi del mio compagno di cella, Quando si spensero le luci mi rifugiai in bagno, iniziai a versare lacrime di disperazione e allo stesso tempo anche di liberazione: finalmente sarebbe finito tutto, tutto il dolore che avevo causato. Presi coraggio mandando giù le pillole e feci una corda, ma si spezzò. Subito dopo giunse l’appuntato che si accorse di tutto, anche delle lettere di addio che avevo scritto prima.

Sfortunatamente per me, il destino, la fortuna o qualcuno dall’alto, aveva deciso che non era il mio momento. Dopo quel fatto, qualche giorno dopo l’isolamento, fui trasferito a San Vittore. Ormai non prendevo in considerazione la possibilità di un riscatto positivo, tanto che anche qui, all’inizio, non pensavo ad altro che a tagliarmi le vene con una lametta da barba. Continuai a passare le notti in lacrime ma stranamente non avevo più il coraggio di suicidarmi.

Nel nuovo carcere trovai una serenità, era strano per me concepire di apparire un “detenuto modello” dopo quello che avevo causato, credo che abbia giocato a mio favore il fatto di essere sincero con me stesso e con gli altri.

A questo punto vengo a contatto con volontari, educatori e psicologi che ogni volta che guardavano i miei documenti, la mia storia, intravvedevo nei loro occhi dello sconcerto, mi guardavano come se si chiedessero “ma davvero ha fatto questo” e, anche se non era verbalizzato dentro di me, scavavo una buca ancora più profonda.

Ma la spinta determinante a intraprendere un percorso è nata dalla mia partecipazione a moltissime attività, con l’ascolto di tante persone diverse e con la voglia di riempire il mio bagaglio, di acquisire termini, concetti, ragionamenti e argomenti su cui poi riflettere. Non solo la mia conoscenza si sarebbe ampliata ma anche le mie relazioni ne avrebbero avuto un giovamento.

È stato il confronto con il gruppo “a farmi capire” che per andare davvero fino in fondo non sarei potuto sfuggire dal fare i conti con me stesso. Ancora non ne ero consapevole, ma quello è stato l‘inizio del percorso di cambiamento di me stesso. Ogni volta che nel gruppo si racconta di qualcosa di Sé, prendo più coraggio e capisco qualcosa in più sul mio passato.

Hamadi El Makkaui

Reparto La CHIAMATA

La gestazione reciproca

Faccio parte del Gruppo da circa un anno e mezzo, all’inizio come tirocinante e ora come componente. Ieri, di fronte ad alcuni detenuti che venivano per la prima volta al gruppo, il Professore Aparo ha chiesto agli studenti presenti: “Ma chi te lo fa fare?”. Ecco la mia risposta!

All’inizio ho deciso di svolgere il mio tirocinio con il Gruppo della Trasgressione perché ero tremendamente curiosa di vedere con i miei occhi cosa si nascondeva all’interno delle mura di un carcere. Incontro dopo incontro, poi, mi sono resa conto che non ho trovato nulla di quello che mi ero immaginata: ho trovato delle persone. Persone che alla fine non erano così diverse da me, da noi. Ho trovato vissuti e anime che chiedevano aiuto e altre che invece hanno aiutato me, in un modo o nell’altro.

Poi il tirocinio è finito, ma nel frattempo la magia del Gruppo mi aveva completamente stregata: è diventata una droga, qualcosa di irrinunciabile, qualcosa di vitale, e il Professore Aparo è diventato per me una guida.

Uno dei concetti che spesso emerge nei discorsi che facciamo è quello della gestazione reciproca, ovvero un processo di crescita, formazione e maturazione al quale tutti partecipano per crescere insieme agli altri: tu fai crescere me ed io faccio crescere te, e così cresciamo insieme. È un concetto che mi piace molto, l’idea che persone sconosciute possano pian piano diventare nostre alleate semplicemente tirando fuori le proprie fragilità l’una con l’altra. Questo accade perché probabilmente si crea un luogo sicuro, all’interno del quale le persone iniziano a fidarsi e iniziano a sentirsi libere di potersi raccontare con trasparenza, emozionandosi, piangendo e anche arrabbiandosi. E in questo luogo sicuro io mi ci trovo benissimo, perché ogni persona qui viene vista e viene riconosciuta, viene presa per mano e accompagnata a conoscersi e a capire chi si vuole essere.

Faccio fatica a rendermi conto del percorso che ho fatto io nel gruppo da quando ne faccio parte, ma vedo con chiarezza il percorso che, invece, hanno fatto e continuano a fare le altre persone. Trovo che sia meraviglioso vedere giorno per giorno i progressi che una persona fa durante il proprio percorso di crescita, mi fa emozionare, mi fa venire voglia di farne parte e mi fa percepire la vita. Mi fa sentire viva.

Ecco, probabilmente è questo il motivo che mi fa dire che ne vale la pena: voglio crescere, voglio sentirmi utile, voglio sentirmi riconosciuta e imparare a riconoscere anche l’altro, voglio essere vista, voglio sentirmi viva, voglio vivere. E io all’interno del Gruppo mi sento proprio così, perché per vivere è necessario farlo insieme alle altre persone, progettare con loro, crescendo insieme e raggiungendo insieme obiettivi comuni. Ed è quello che vorrei poter fare per tutta la vita.

Camilla Bruno

Note sul metodo

La parola come terapia

Una delle cose che mi ha colpita di più durante gli ultimi incontri nel carcere di San Vittore è stato l’uso della parola come terapia. Prendere parola davanti ad altre persone non è mai stato il mio forte, non intervenivo mai in classe, non rispondevo alle domande dei professori, nemmeno quando sapevo la risposta giusta. La paura di far brutta figura o di non essere all’altezza di quello che le altre persone dicevano mi ha sempre bloccata. Tante volte, poi, mi sono pentita di non essermi buttata, di non aver avuto il coraggio di parlare o di rispondere, di mettermi a nudo.

Mi ricordo il primo giorno che mi sono collegata al gruppo esterno online, tutta contenta ed emozionata di ascoltare gli altri con telecamera e microfono spento, come se fossi un fantasmino. La stessa cosa feci le prime volte in carcere. Ero convinta che andasse bene così, che bastasse starmene in un angolino ad ascoltare e ad osservare, a trascrivere tutto quello che sentivo sul mio quadernino.

Mi sbagliavo. Sono stata più e più volte (e per fortuna) incoraggiata dal professore a condividere con i presenti i miei pensieri e le mie emozioni. Inutile dire che, quando toccava a me, aprivo i rubinetti alla massima potenza senza dir nulla oppure tiravo fuori parole arrangiante in modo confusionario e disordinato, giusto per non fare scena muta.

Mi sono chiesta tante volte il motivo di questo mio atteggiamento, ma non ero mai riuscita a darmi una risposta che mi convincesse davvero. In questi giorni ci ho pensato ancora e forse una risposta l’ho trovata. Mi sono resa conto, da quando frequento il gruppo, che effettivamente la parola sblocca i pensieri che viaggiano incontrollati da una parte all’altra della nostra mente. Parlare permette di decifrare questi pensieri e, in questo modo, aiuta ad avere consapevolezza delle proprie emozioni.

Ecco perché mi riesce così difficile. Non sono molto brava a capire le mie emozioni, non riesco a decifrarle e a dar loro un nome. Questo mi porta ad arrabbiarmi e a piangere. Sto male e mi consumo, finché qualcuno mi ferma e mi aiuta a ragionare in maniera tranquilla. Ma che fatica!

Il problema è che dire qualcosa ad alta voce mi spaventa, come se la cosa diventasse vera per il fatto che la dico, che le do un nome. C’è stato un episodio in particolare nella mia vita che mi ha fatto rendere conto di quanto io faccia fatica a dire le cose ad alta voce e a chiamarle col loro nome, invece di trovare sinonimi che ne sminuiscano l’entità.

Ci sono state occasioni in cui, pur avendone bisogno, non sono riuscita a chiedere aiuto, a dire a voce alta che era successo qualcosa. Nella vita però sono stata fortunata, perché ho avuto accanto persone che sono state in grado di cogliere il mio malessere e di accompagnarmi piano piano alla decisione di parlarne con un professionista.

Questo mi ha aiutata a prendere consapevolezza di quanto mi era successo…  e non dico di essere riuscita a superare quel dolore al 100%, ma sono riuscita quanto meno ad accettarlo, a conviverci e a non farmene più una colpa.

Quando vedo persone che riescono a fare tutto questo io mi emoziono, perché ci vuole non poco coraggio. Spero col tempo di riuscire ad essere così brava anche io, di riuscire a togliermi di dosso questa maledetta insicurezza, perché a me, le persone che hanno il coraggio di essere loro stesse, piacciono tantissimo.

Camilla Bruno

Reparto LA CHIAMATA

Relazione di tirocinio

Camilla Bruno, Relazione finale di tirocinio
Master di I livello in Devianza, Sistemi della Giustizia e Servizi Sociali presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca

Ai fini della partecipazione al Master di I livello in Devianza, Sistemi della Giustizia e Servizi Sociali presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca, ho svolto un tirocinio curriculare insieme al Gruppo della Trasgressione.

Il Gruppo nasce grazie al Dottor Angelo Aparo. Psicologo e psicoterapeuta, operando in carcere, egli sente la necessità di avviare un progetto innovativo e circa venticinque anni fa crea il Gruppo: uno spazio di libertà, fisico e mentale, dove riunire detenuti, ex detenuti, studenti, famigliari di vittime di reato e comuni cittadini. Il dottor Aparo tuttora coordina il Gruppo, i cui incontri avvengono stabilmente con appuntamento fisso ogni settimana, sia all’interno delle carceri milanesi di Opera, Bollate e San Vittore, sia all’esterno.

Nel 2006 nasce poi l’Associazione Trasgressione.net Onlus, che si occupa delle attività culturali del gruppo; qualche anno dopo, nel 2012, nasce la Cooperativa Sociale Trasgressione.net, braccio imprenditoriale del gruppo impegnata nel reinserimento sociale dei detenuti ed ex detenuti attraverso opportunità lavorative.

L’obiettivo fondamentale del Gruppo è la conoscenza dell’uomo, la ricerca dell’umanità in ogni uomo, la scoperta dei legami e delle alleanze tra gli uomini, chiunque essi siano e di qualunque tipo siano state le loro esperienze. A partire da questa premessa i detenuti vengono coinvolti in una ricerca e una riflessione su di sé, volta a comprendere meglio le azioni compiute, le possibili ragioni delle scelte fatte, il proprio vissuto, arrivando a una consapevolezza, prima inesistente, di sé e della realtà circostante. Tale consapevolezza è un traguardo faticoso, arduo, per raggiungere il quale è necessario un percorso lungo, a volte molto lungo, non lineare, che può avere temporanei arresti e cambi di direzione. In tale percorso la presenza di solidi punti di riferimento, quali una guida cui rivolgersi, e l’analisi delle emozioni e degli stati d’animo presenti al momento delle scelte fatte, sono basilari per arrivare a maturare un senso di responsabilità, prima sconosciuto o disconosciuto, che è tratto distintivo dell’uomo sociale, del cittadino. L’interazione con il mondo esterno, con i cittadini componenti il Gruppo e con altri che le varie occasioni portano ad incontrare, è determinante perché permette al detenuto di uscire dalla bolla di marginalizzazione che lo rinchiude e di essere ora utile a quella società che in precedenza ha danneggiato.

Ho deciso di iniziare questo mio percorso di tirocinio con il Gruppo della Trasgressione spinta da una grandissima voglia di vedere con i miei occhi e percepire sulla mia pelle quello che le persone vivono, provano, sentono all’interno di quelle mura, senza fermarmi all’immagine collettiva che si ha del carcere e della vita intramuraria suggerita tendenzialmente da film e qualche sporadica testimonianza a volte romanzata.

La problematica della devianza mi ha sempre affascinata. Questo mio interesse e il percorso fatto durante la triennale in Sociologia mi hanno portato all’incontro e alla collaborazione con il Gruppo. Questo tirocinio, dopo poco più di sei mesi dall’inizio, è stato in grado di darmi a livello emotivo e razionale una quantità di informazioni e riflessioni, basate su molteplici esperienze, che non pensavo di potere ricevere in così poco tempo.

Gli incontri settimanali del Gruppo sono così suddivisi:

  • I gruppi esterni, in orari pomerifdiani (14.30-17.00 circa), hanno luogo il lunedì nella sede del comune di Rozzano (Via degli Oleandri, 39) e il martedì a Milanonella sede dell’associazione Trasgressione.net (Via Sant’Abbondio 53A). In entrambe le occasioni partecipano ex detenuti, detenuti in permesso o in misura alternativa, studenti tirocinanti e non, famigliari di vittime di reato o famigliari di autori di reato e comuni cittadini. Agli incontri ci si puà collegare anche via Zoom.
  • Mercoledì 9.30-13.00 ha luogo il gruppo interno ad Opera con i detenuti di alta sicurezza; fre le 13.00 e le 15.00 segue quello con i detenuti di media sicurezza.
  • Giovedì mattina, 9.30-12.30 il Gruppo entra nel carcere di San Vittore con il progetto “Un amico controcorrente” assieme ai detenuti del reparto dedicato ai giovani adulti.
  • Giovedì pomeriggio, 14.30-17.00, infine, il gruppo si sposta a Bollate, insieme ai detenuti del secondo reparto.

Per quanto riguarda le attività, il Gruppo organizza e prende parte a molte iniziative culturali e di incontro; in particolare:

  • La Cooperativa si occupa della parte lavorativa: è stata creata una bancarella di Frutta&Cultura che si occupa della vendita di frutta e verdura in loco e della loro consegna a bar, ristoranti, mense e a famiglie bisognose. I dipendenti della Cooperativa, sia detenuti che ex detenuti, si occupano anche di lavori di tinteggiatura, manutenzione e pulizia.
  • Con l’associazione vengono organizzati – oltre ad i soliti incontri interni ed esterni – convegni, incontri con le scuole superiori per la prevenzione al bullismo, al gioco d’azzardo, alla tossicodipendenza ed in generale alla devianza (sia nelle scuole che nelle carceri), rappresentazioni teatrali e concerti della band.

Durante questi mesi ho potuto partecipare ad alcune di queste attività. In particolare:

  • incontri con il liceo artistico di Brera (MI) presso il loro istituto e con una scuola superiore di Parabiago nel teatro del carcere di Bollate;
  • incontri genitori-figli nel carcere di Opera, volti ad offrire un confronto e a favorire un dialogo sincero tra le parti, con possibili interventi di tutti i presenti, detenuti e non;
  • visione di rappresentazioni teatrali soprattutto nel carcere di Opera, in particolare il Mito di Sisifo, che racchiude in se’ tematiche chiave del Gruppo, quali la devianza, il delirio di onnipotenza, il difficile rapporto genitori-figli dettato dal modello genitoriale padre-padrone e, per concludere, il raggiungimento da parte del detenuto di una nuova consapevolezza del proprio vissuto e delle proprie azioni e di una nuova responsabilità nei confronti dell’altro, delle istituzioni e di se stesso.

Da ultima, ma non per minore importanza, la partecipazione al convegno “Una mappa per la pena” organizzato dal Senatore Mirabelli in collaborazione con il Gruppo, tenutosi al palazzo del Senato della Repubblica a Roma il 25 maggio 2022. Il Gruppo della Trasgressione è potuto entrare in Senato per la prima volta, assieme a detenuti ed ex detenuti davanti alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia e al capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Carlo Renoldi. In questa occasione il Dottor Aparo è intervenuto presentando in primis il Gruppo e gli effetti di questo sulle persone, detenute e non, che ne fanno parte, ma soprattutto proponendo il progetto di un Centro-studi all’interno delle carceri di Opera, Bollate e San Vittore, attraverso il quale si possano analizzare non solo i fattori socio-culturali che portano una persona a preferire la strada della devianza e quindi a delinquere, ma anche i fattori psicologici, caratteriali ed emotivi che incidono sulle micro e macro scelte compiute giorno dopo giorno che contribuiscono a creare un’identità caratterizzata in toto dalla devianza.

Giunta alla fine di questo percorso, posso dire di aver costruito anche io una nuova consapevolezza: ho capito che per crescere si deve fare fatica, che non basta starsene lì fermi, in un angolo sicuro a guardare, ma che bisogna essere disposti ad impegnarsi realmente per poi far del bene.

Ho capito che niente arriva alle porte della tua coscienza se non sei tu a portarci qualcosa.

Ho imparato che per occupare un posto nel mondo che abbia un senso per se stessi e per gli altri bisogna tirarsi su le maniche, cercare persone che siano nostre alleate, prendere atto di ciò che siamo stati e di ciò che abbiamo fatto per essere in grado di essere oggi persone responsabili.

Ho conosciuto persone, uomini, anime segnate dal dolore e dalla sofferenza. Persone che ad un certo punto hanno perso tutto, ma che pian piano e con fatica hanno riacquistato l’amore per la vita, mettendosi in gioco giorno dopo giorno, per loro stessi e per i loro cari.

Ho conosciuto persone che per tutta una vita hanno camminato nel buio, ma che oggi risplendono di luce brillante e meravigliosa.

Ho conosciuto persone che per anni hanno fatto del male, ma che oggi spendono ogni minuto della propria giornata per essere d’aiuto al prossimo, mettendoci anima, corpo e soprattutto cuore.

Ho imparato a pensare che non sempre ciò che penso è sbagliato, che non sempre quello che vorrei portare come mio contributo è inutile. Ho imparato che le parole hanno un peso specifico, che possono davvero essere d’aiuto per qualcuno, così come potrebbero anche fare danni.

Ho capito che nella mia vita voglio mettermi in gioco, anche se ancora faccio fatica, ma voglio arrivare a capire che posso farlo anche io.

Ho imparato che posso accogliere l’altro, le sue emozioni, i suoi vissuti, e che io posso a mia volta essere accolta, senza paura.


Da LPT Studio

Questo gruppo mi ha dato davvero tanto, sia a livello conoscitivo ai fini della professione, sia a livello emotivo e personale. Mi sono ripromessa di custodire gelosamente e con cura dentro di me un pezzetto di ogni persona che ho conosciuto in questi mesi, perché ognuna di loro è stata in grado di lasciarmi qualcosa di importante.

Ringrazio il prof Aparo per essere stato fonte di grande ispirazione; ringrazio il Gruppo della Trasgressione per avermi dato la possibilità di vivere un’esperienza del genere, che credo cambi la propria visione della realtà.

Ringrazio ogni singola persona che mi ha permesso di entrare nella sua vita e ringrazio chi ha voluto fare lo stesso entrando nella mia.

Spero un giorno di poter essere alla vostra altezza.

Camilla Bruno

Indice Tirocini

La chiamata a San Vittore

San Vittore, 3 novembre 2022

Dopo gli incontri incentrati sul progetto Caravaggio in città svolto nel carcere di Opera insieme al professor Zuffi, il prof Aparo ha deciso di portare anche a San Vittore il quadro della Vocazione di San Matteo.

A differenza di ciò che è stato fatto ad Opera, il quadro è stato mostrato ai ragazzi detenuti a San Vittore senza nessun tipo di spiegazione o premessa; è stato chiesto loro di provare a descrivere semplicemente ciò che vedevano raffigurato nel dipinto. Durante questo incontro erano presenti in incognito anche tre future vicedirettrici di carcere, che insieme ai ragazzi hanno descritto il quadro facendo riferimento solo a ciò che stavano guardando e che stavano provando in quel momento.

Il risultato di questa interessante e piacevole interazione è stato un incontro molto toccante. Sono emersi pensieri e sensazioni da entrambe le parti che mi hanno emozionata e che mi hanno fatto pensare.

Dopo che tutti i presenti avevano parlato a lungo del dipinto e di ciò che ognuno riusciva a leggere nelle diverse figure, il professore ha chiesto a tutti i presenti una rilettura del quadro: “Se il quadro fosse una fotografia di quello che tu desideri possa accadere oggi nella tua vita, come descriveresti i diversi personaggi e ciò che stanno facendo?

Sono emerse diverse risposte, tra le quali sicuramente quella dove le persone desideravano essere chiamate a fare qualcosa di bello, qualcosa di importante per se stessi o per gli altri.

Quando ho provato a darmi una risposta a questa domanda, ho pensato subito anche io alla chiamata: ho pensato al desiderio di essere chiamata, proprio come Gesù chiama San Matteo. Ho pensato al desiderio di essere presa per mano e accompagnata nel mio cammino da una guida in grado di riconoscermi e scegliermi per la persona che sono.

Verso la fine dell’incontro il prof ha chiesto poi ad Hamadi cosa avrebbe voluto che le tre future vicedirettrici facessero nei suoi confronti durante la sua detenzione.

Hamadi non ha risposto con molte parole, ma quello che detto mi è arrivato dritto al cuore: “Vorrei essere capito e visto per ciò che sono davvero”.

In queste parole io ho sentito una forte richiesta di aiuto, e ripensandoci, la mia risposta alla domanda di prima ora cambia. Senza la pretesa di salvare il mondo, in futuro vorrei poter essere quel fascio di luce che illumina San Matteo, quella mano che dolcemente indica alla vita.

Vorrei chiamare, vorrei poter riconoscere e dare la possibilità di dimostrare il proprio essere a tutti gli Hamadi che incontrerò. Vorrei invecchiare, guardarmi indietro e riconoscere di essere fiera di ciò che sono stata, di essere stata magari d’aiuto a qualcuno e di aver forse fatto del bene.

Questo, quindi, è il mio ideale di vita: poter essere chiamata oggi, per potere un domani essere in grado di chiamare a mia volta.

Camilla Bruno

La Chiamata  – Reparto LA CHIAMATA

Succede anche a me

Non ho particolari storie da raccontare per provare a non farti sentire “l’unico”, per provare a darti speranza che, anche se ora non lo vedi, un futuro esiste anche per te. Tanto meno penso di essere in grado e soprattutto di essere anche lontanamente all’altezza di Adriano, Nuccio, Mohamed per permettermi di darti consigli.

Ha ragione il prof quando dice che a 22, 23 anni che consigli posso mai darti? Ma soprattutto, che consigli potrei mai darti io che non ho minimamente idea di quello che hai e stai passando? Cerco allora di cogliere il tuo dolore – che direi essere del tutto percepibile e comprensibile – e provo a toccarne un pezzettino e ad immergermi, per poterti ascoltare sinceramente.

Il prof ci aveva chiesto di provare a dire che emozioni stessimo provando durante l’incontro e se avessi avuto la prontezza di saper rispondere (mannaggia a me) avrei risposto “non lo so”. Quando  ha chiesto anche a te quali emozioni tu stia provando dentro di te hai risposto che è tutto un mix…

Ti capisco! Capita spessissimo anche a me di non saper dare un nome ed una forma alle mie emozioni, perché quasi sempre sono un incasinatissimo gomitolo di sensazioni tutte attorcigliate su loro stesse.

Capisco anche quando dici che quello che ti dicono da una parte entra e dall’altra esce, perché sei fermo sulla tua idea e niente e nessuno può smuoverti da quella convinzione. Succede anche a me, soprattutto a casa, soprattutto con mia madre.

Da quando però frequento il Gruppo sto piano piano e goffamente imparando a raccogliere qualche semino qua e là, che magari al momento possono sembrare innocui, che non ti lascino nulla di concreto… ma posso assicurarti che qualcosa lasciano eccome: per quanto mi riguarda, ascoltando settimana dopo settimana i vostri racconti, le vostre storie, i vostri pensieri, quando torno a casa penso, mi faccio domande, ma soprattutto cerco in qualche modo di provare a conoscermi sempre di più, a capirmi un po’ di più, a volte forse anche a darmi un po’ di tregua.

Con tutto questo sto cercando di dire in qualche modo che, se tu vorrai, potrai provare a conoscerti e a capirti un po’ di più con il Gruppo. Il percorso che hai davanti è senz’altro lunghissimo e difficilissimo, ma con tutta l’umiltà del mondo penso che tu sia già sulla strada giusta, e sentendo quello che hanno detto chi ci è già passato prima di te, me ne convinco ancora di più.

Sono fortemente convinta che il processo inizia con la consapevolezza del proprio senso di colpa, quello sano però, quello che non ti faccia dimenticare che comunque la tua vita non vale meno di quella del signore che non c’è più, che non ha meno importanza della sua, ma che, come meritava di essere vissuta la sua, anche la tua non è da meno… soprattutto a 24 anni.

Non esiste e non deve esistere una gomma che cancelli quello che è successo, ma esistono degli strumenti che ti danno la possibilità di ascoltare il tuo dolore, di capirlo, di provare a dargli un colore e una forma, di accettarlo. Io questi strumenti li ho intercettati nel Gruppo, perché come dice Adriano, qui nessuno ti tratta come uno stronzo o come un mostro, qui vieni trattato per ciò che sei: una persona.

Una delle mille cose che proprio voi mi insegnate con la vostra coscienza e consapevolezza è che voi non siete il vostro reato, voi siete persone, che certo hanno commesso degli errori, ma pur sempre persone, e tu non sei sicuramente da meno.

Camilla Bruno                                                          Homo sum…

Storie in divenire

L’incontro di mercoledì con i ragazzi del Liceo Artistico di Brera è stato  emozionante e coinvolgente. Non ho mai partecipato prima a un incontro simile, con ragazzi così giovani in una scuola, ma devo ammettere che col senno di poi avrei pagato oro per fare un’esperienza del genere nei miei anni di liceo.

La mattinata è partita con l’introduzione dal Prof. Aparo, che ha preparato i ragazzi con una metafora sul percorso di una persona a partire da quando è entrata nel mondo della criminalità – e successivamente nel carcere – e quando invece ne è uscita. Ha paragonato questo percorso a un viaggio di andata verso il pianeta Marte, che rappresenta l’ascesa nel mondo della criminalità e successivamente l’ingresso in carcere, e un viaggio di ritorno sul pianeta Terra, che rappresenta invece il percorso personale di un detenuto per essere pronto alla vita del cittadino fuori dal carcere.

La parte interessante è stata sentire i vissuti dei nostri amici, che hanno raccontato i loro viaggi di andata e di ritorno con un’emozione che ogni volta mi disarma. Quello che è emerso per quanto riguarda il viaggio di andata, di cosa e di chi li ha portati a prendere quella determinata strada, è che purtroppo a volte capita di nascere e crescere in situazioni di violenza, di devianza, di gara al potere e a chi è più forte, di rabbia e di sopravvivenza. Tutto questo ha portato ad abbracciare la dimensione criminale, travolgendo e stravolgendo ragazzini di soli 13, 14 anni che si son ritrovati a doversi conformare a questa vita per sopravvivere, ma anche per trarne vantaggio, perché insomma, agli occhi di questi ragazzini così giovani, inesperti, insicuri, spaventati e deviati, tutto quello che questo tipo di vita promette è decisamente allettante.

Poi ad un certo punto, però, tutto questo finisce: arriva il carcere, l’astronave atterra su Marte e niente è e sarà più come prima. Si entra in un mondo nel quale si fanno i conti con la persona che si è stati fino a quel punto, con ciò che si è commesso e con i mille pensieri che distruggono e che straziano l’anima. In quel momento però una scelta la puoi prendere: rimanere la persona che sei stato fino a quel giorno, rimanere nel buio, rimanere su Marte, oppure far rinascere quel bambino che è rimasto dentro di te, che hai voluto o hai dovuto bloccare lì dentro, rinascere nella luce e prendere quel biglietto di ritorno per la Terra.

Mercoledì, come in realtà tutte le volte che partecipo agli incontri del gruppo, ho visto davanti a me persone con una forza d’animo che mai penso di aver incontrato prima, persone con una conoscenza e coscienza di se stessi che disarma sempre; persone che hanno sofferto tantissimo per aver fatto soffrire, ma che, lavorando giorno dopo giorno per anni, oggi riescono a guardarsi allo specchio e ad essere fieri delle persone che sono oggi, persone che con enorme fatica ma con altrettanta volontà d’animo sono riuscite ad accedere alla vita della legalità, della luce, della bellezza.

L’ultima parte dell’incontro è stata credo la più difficile. Il Prof ha posto una domanda a dir poco complicata: “come racconteresti la tua storia, quello che hai fatto e come sei diventato oggi ai tuoi figli?” E qui ho ceduto.

Ho ceduto davanti a Pino, che per la prima volta ha parlato di tutto questo davanti agli occhi della figlia. Ho ceduto davanti a Roberto, con il racconto di suo nipote. Ho ceduto davanti ad Adriano e Francesca, con la storia di questa nuova meravigliosa famiglia. E ho ceduto davanti alle magiche e strazianti parole di Nuccio, mirabile poeta.

Ho ceduto davanti alla commozione, alle lacrime e all’umanità di queste persone, che come sempre mi lasciano nel cuore una bellezza indescrivibile. Grazie a tutti per quello che ogni giorno mi regalate.

Camilla Bruno

Marte, andata e ritorno