Francesco Scopelliti

Francesco Scopelliti – Intervista sulla creatività

Francesco Scopelliti è psicologo psicoterapeuta, direttore del Ser.D in Area Penale e Penitenziaria e responsabile dell’unità operativa dei Ser.D nel carcere di Bollate e nel Tribunale di Milano. È altresì professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano. Come dice egli stesso, il suo ruolo è per definizione istituzionale e poco creativo perché gli interventi sono regolamentati in maniera molto rigida dall’ASST Santi Paolo e Carlo, ospedale per cui lavora. In questi contesti le prestazioni devono essere standardizzate e riconducibili ai livelli assistenziali minimi (LEA), perciò gli aspetti creativi sono poco praticabili proprio perché non riconosciuti. Fino a qualche anno fa si poteva godere di maggiori margini di creatività poiché era consentita l’ideazione di programmi trattamentali che includevano il teatro, il cineforum, lo yoga, ecc., attività socio-educative meno standardizzate. Allo stato attuale, una delle attività più creative è il trattamento che ha luogo a “La Nave”, reparto di trattamento avanzato volto alla cura e al recupero di detenuti tossicodipendenti presso il carcere di San Vittore. Si tratta di un tipo di trattamento particolarmente originale, unico in Italia, che vede aspetti innovativi come l’autogestione del reparto quasi a custodia zero.

 

Gloria: Cos’è per lei la creatività?

 Francesco Scopelliti: Per me la creatività è un piacere, un orgasmo, è un modo per percorrere dei piaceri che possono presentarsi sia a livello del pensiero, del sogno, sia attraverso l’azione. Per me la creatività riguarda comunque la massima soggettività, ad esempio l’ideazione di soluzioni creative che non necessariamente sono funzionali o risolutive.

 

Ottavia: Come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Francesco Scopelliti: Credo che siamo tutti più o meno creativi, anche chi nega di esserlo. Per me la creatività è contestualizzata, a seconda dei momenti: a volte è soprattutto azione, manipolazione e cambiamento di oggetti e dell’ambiente che mi circonda; altre volte la riconduco soprattutto al pensiero, alla immaginazione. Mi capita di avere delle fantasie che si riferiscono a dei miei hobby e che, attraverso il pensiero, cerco di amplificare, in modo da modificare gli spazi e i contesti dell’immagine nella mia mente. È più facile pensare una cosa del genere piuttosto che tradurla in azione.

Ho bisogno di colmare la rigidità propria del mio lavoro istituzionale, perciò quando posso, amo passare il mio tempo in movimenti e azioni che reputo creativi. Ad esempio, adoro il riutilizzo o il recupero dell’oggetto morto o inutilizzato, cerco di portarlo a essere usato in forme e funzioni differenti. Mi piace collocare un oggetto che di norma si trova in un determinato spazio e in una certa dimensione in altri spazi e dimensioni a prescindere dai risultati che otterrò. Infatti, per me la creatività non è qualcosa di funzionale in termini di tempo, spazio e costi. Posso lavorare cinque ore di fila su un oggetto spendendo molto tempo e denaro a fronte di un risultato che potrebbe essere sostituito dall’acquisto dello stesso oggetto con pochissimi soldi. Certamente mi fa piacere che alla creatività possa corrispondere un risparmio di tempo e di denaro ma non è certamente questa l’essenza della creatività.

Uno dei miei hobby è il mio garage dove ci sono moltissimi elementi e materiali, che si possono coniugare tutti tra di loro: la falegnameria con la fusione del metallo, la parte elettronica con quella meccanica. A queste attività manuali seguono a volte risultati modesti ma costituiti da elementi sempre in interazione tra di loro. Ad esempio, alcune parti della mia moto sono diventate un sedile perché in quel momento era ciò di cui avevo bisogno.

Ho costruito questo sedile con la base di un’altra sedia, con alcuni avanzi delle travi di un tetto e dello scaffale di una libreria. Per quanto riguarda il risultato, non mi chiedo nemmeno se sia bello, brutto o se sarà longevo perché magari un giorno potrei volerlo ritrasformare, ad esempio, in un tavolino. Un altro esempio è quello della lavatrice a cui ero molto affezionato e che alla fine sono stato costretto a buttare. Per anni ero riuscito a farla resuscitare costruendo diversi motori quasi con un accanimento terapeutico perché mi dispiaceva l’idea di buttarla. Credo che questo sia il mio legame con la vena artistica. Ciò che mi interessa, a prescindere dal risultato finale, è il pensiero che vi sta dietro.

 

Gloria: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo la produzione creativa?

 Francesco Scopelliti: È un piacere puro. In termini evolutivi, reputo la creatività una delle più importanti essenze della vita. Senza la creatività non ci si evolve da un sistema. Penso che l’uomo sia più creativo rispetto ad altre specie, per quanto il regno animale non sia esente da processi creativi. La creatività soggettiva è quella che però mi interessa di più, che ognuno ha e si attribuisce e che consente di interagire, per esempio, con un piatto di pasta: dal modo in cui si inforchetta la pasta, a cosa si mangia prima e cosa dopo. Sono tutti aspetti che fanno parte di un’interpretazione soggettiva dell’ambiente, di una traduzione del proprio modo d’essere attraverso lo sguardo e i movimenti.

 

Ottavia: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé stesso?

 Francesco Scopelliti: Per me incide molto perché l’immagine è qualcosa che ci rappresenta…  dall’atteggiamento, all’abbigliamento al modo di parlare. Anche essere vestiti in un certo modo, magari meno attento e adeguato rispetto ai canoni del contesto, fa parte dell’essere creativi: è più facile conformarsi con la giacca e la cravatta piuttosto che mettersi dei jeans bucati. È un tentativo di maggior creatività, per quanto mal riuscito.

Per me la creatività non ha legami col risultato e con la bellezza del prodotto. Io odio finire le cose, tutto ciò che faccio non è mai finito: uno scritto, un oggetto, un pensiero. La fine corrisponde a una tristezza, a una morte, a una perdita che si traduce in un abbandono. Tutta la mia vita è colma di cose non finite. Al tempo dell’informatizzazione, amavo modificare e creare computer e tutt’ora mi piace farlo. Una volta il prof. Aparo mi portò a casa un computer nuovo e io ne interpretai il cambiamento, perciò con un cacciavite e altri strumenti lo modificai completamente rendendolo plurifunzionale, con molte più funzioni rispetto a prima… esteticamente era molto meno bello di prima ma non avrei mai potuto finirlo perché è una modalità che non mi appartiene. Oltretutto, quando un oggetto è finito, si pone al giudizio dell’altro, mentre se è incompleto mi sento giustificato per le sue imperfezioni.

 

Gloria: Nel rapporto con gli altri, che cosa determina il suo atto creativo?

 Francesco Scopelliti: Fino a pochi anni fa, la mia creatività, anche quella del pensiero, richiedeva fortemente il riconoscimento altrui mentre con gli anni ho imparato a godere principalmente in prima persona del mio atto creativo. Con l’età c’è stata una sorta di rivoluzione in questo senso, sono sempre più consapevole che la creatività sia qualcosa che mi fa sentire vivo e che mi dà piacere. Ora la mia creatività è una dimensione più personale e privata, ma rimane comunque una forma di comunicazione che solitamente necessita dello sguardo dell’altro.

Ottavia: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

 Francesco Scopelliti: Al momento sono io stesso il principale fruitore del prodotto creativo, però lo sono anche le persone con cui ho un legame affettivo e con le quali ho bisogno di ribadire la mia identità. Non mi è mai appartenuta una comunicazione sfrontata della mia eventuale creatività: la reputo l’espressione di un’intimità, perciò mi sento infastidito dalle intrusioni che provengono dal di fuori rispetto al mio mondo relazionale e affettivo. In generale invece, credo che la creatività, in qualità di essenza della vita, sia un elemento comunicativo trasversale. La creatività permette l’evoluzione e la crescita, a prescindere che avvenga attraverso la produzione musicale o attraverso la scoperta di una formula chimica. La creatività rivolta all’esterno, inoltre, permette il passaggio dalla caverna all’attuale casa riscaldata. Tuttavia, non sempre la creatività è qualcosa di positivo: le guerre sono la testimonianza di una creatività distruttiva. Anche il virus ha una modalità di espressione creativa: muta per contrastare il vaccino, creando nuove sotto-dimensioni. È interessante osservare l’evoluzione della pandemia anche dall’altra prospettiva: se il virus non fosse creativo, sarebbe morto. È importante anche che vi sia una componente di intelligenza perché senza questa non c’è creatività. Anche le piante possono essere creative perché cambiano per adattarsi all’ambiente circostante.

 

Gloria: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Francesco Scopelliti: Mi viene in mente qualcosa di astratto… il pensiero. Al momento è la sede elettiva della mia creatività perché certi pensieri non possono tradursi in azioni per diversi motivi legati a vincoli esterni. Qualche anno fa non avrei mai provato piacere attraverso il pensiero mentre col tempo mi sono reso conto che la casa della mia creatività è proprio il pensiero perché supera la materia e le possibilità dell’agire. Nei luoghi della mente la creatività può fare cose incredibili regalando piaceri altrettanto grandi. Questo permette a persone con patologie e deprivazioni di esperire una realtà immaginativa che può apportare miglioramenti alla qualità di vita. Per fare un esempio, una persona paraplegica può scegliere di interrompere il suo percorso di vita oppure può scegliere di vivere in un mondo “parallelo” fatto di creatività e pensiero, dando così significato alla propria esistenza.

Anche un detenuto può essere supportato dal pensiero creativo, essendo in uno spazio di deprivazione e interruzione di molte attività e affetti. Accompagnare la persona a sviluppare percorsi creativi è qualcosa di clinicamente valido, è una forma di esercizio che fornisce le basi per una ripartenza.


Grammofono del 1890, restaurato da Francesco Scopelliti e oggi perfettamente funzionante

 

Ottavia: Pensa esista una relazione tra depressione e creatività?

Francesco Scopelliti: Assolutamente sì, la creatività può produrre pensieri, azioni o situazioni che viviamo come drammatiche, come la delusione delle nostre aspettative. Come dicevo prima, uno potrebbe avere una determinata idea ma potrebbe non possedere i mezzi per metterla in atto e questa impossibilità può determinare risposte di tipo depressivo. Quando un clinico cerca di stimolare il pensiero e la progettualità futura di un detenuto deve stare attento a farlo stare con i piedi per terra perché la fiducia nelle proprie risorse creative potrebbe diventare eccessiva e condurre alla megalomania, causando delusioni e cadute all’indietro. Mi è capitato di parlare con detenuti che avevano dei pensieri e delle speranze che però si scontravano radicalmente con le risorse effettive che avrebbero incontrato una volta usciti dal carcere.

 

Gloria: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Francesco Scopelliti: Si, sicuramente! La creatività è la trasmissione di un punto di vista e di un pensiero, perciò ha una funzione sociale. Inoltre, la creatività può coinvolgere il singolo ma può anche essere praticata in contesti di gruppo: persone con diverse competenze si possono unire per produrre o per apportare cambiamenti in un contesto. Insieme, con le diverse abilità e predisposizioni, si può dar vita a un prodotto creativo; oppure, può essere il singolo individuo ad avvalersi delle competenze altrui. Ad esempio, se la mia moto ha un guasto (e io non ho intenzione di portarla dal meccanico), mi avvalgo di video su YouTube per trovare dei consigli sul come ripararla. Per essere creativi bisogna anche studiare, allenarsi, “perderci” molto tempo. Creatività è anche assorbimento delle produzioni altrui.

 

Ottavia: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

 Francesco Scopelliti: La creatività è accessibile a tutti, è un esercizio, è uno dei percorsi possibili della mente umana. Poi il risultato e la bellezza del prodotto creativo sono un giudizio soggettivo, ma sicuramente è una caratteristica appartenente a tutti. Anche nascere e vivere in un contesto creativo, di artisti, è un forte predittore dell’utilizzo della creatività e del suo successivo allenamento.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

 Francesco Scopelliti: Sì e, anzi, deve proprio averla. Purtroppo, i servizi da noi erogati non sono creativi perché questo ci impongono le istituzioni. Tutti sappiamo che il carcere è inutile e svantaggioso sia per il detenuto sia per la società. La colpa per la mancanza di creatività e innovazione viene data alla politica, quando invece il problema è di matrice culturale. Pur essendoci da anni un pensiero innovativo in merito alla situazione carceraria, i cambiamenti non vengono attuati, perciò è riduttivo additare la colpa ai politici. Essere creativi significa andare al di là delle regole, trasgredire, mettersi di fronte al giudizio degli altri col rischio di essere sanzionati rispetto a dei risultati considerati come non validi. Quando esercito la mia professione mi nascondo dietro il mio ruolo istituzionale per non mettermi in gioco perché di mezzo c’è anche la mia posizione. Credo che le regole che ci diamo siano rivolte alla necessità di consolidamento della nostra identità. Purtroppo, al fine di assolvere a una funzione prestabilita, non ci si mette in discussione. Cambiare le regole significa cambiare la partita, cambiare i ruoli e rinunciare al proprio ruolo non è cosa facile.

Intervista ed elaborazione di
Ottavia Alliata e Gloria Marchesi

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