Fabrizio Jelmini

Fabrizio Jelmini – Intervista sulla creatività

Fabrizio Jelmini pratica fotografia da quando aveva undici anni. La sua passione nasce grazie al contributo dello zio, fotografo di paese, che lo ospitava nel suo negozio durante le estati. Egli ritiene che la fotografia sia per lui un mezzo per approcciarsi alla bellezza e al lato artistico delle cose. Nel corso degli anni ha lavorato in vari settori della fotografia professionale, tra cui il reportage giornalistico e documentaristico, di cui è sempre stato molto appassionato.

 

Anita: Cos’è per te la creatività?

Fabrizio Jelmini: Per quanto mi riguarda la creatività è vita. Tutto quello che fa parte dell’ambito creativo mi ha sempre dato una grande energia. Cambiare l’ordine delle cose mi dà la possibilità di uscire dalla mia classica comfort zone e di attivare un percorso di crescita. L’approcciarsi alla creatività permette una visione di amore.

 

Gloria: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Fabrizio Jelmini: Fondamentale è la curiosità, intesa come capacità di non rimanere legati alle proprie convinzioni. Gli stimoli esterni diventano per me benzina che alimenta il motore della curiosità. Nelle mie esperienze trasversali tutto mi è servito per avere uno spettro diverso a livello visivo.

 

Anita: Cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Fabrizio Jelmini: Io considero la creatività una ricerca costante e di conseguenza non riesco a identificare un fattore determinato che avvia la mia creatività. Nella mia esperienza ho però notato che durante i momenti più pesanti a livello emotivo, il motore di ricerca della creatività era molto più forte.

Per quanto riguarda lo sviluppo, credo sia un susseguirsi di stimoli che alimentano la creatività e le permettono di evolversi. Per esempio, a me è sempre piaciuto scrivere per me e un mio limite è non sapere scrivere bene quanto mi piacerebbe. Il lavoro da documentarista mi ha dato la possibilità di aggirare questo limite: facevo raccontare ad altre persone quello che avrei voluto scrivere.

 

Gloria: Che conseguenze ha sulle tue emozioni e il tuo stato d’animo la produzione creativa?

Fabrizio Jelmini: Dalla frustrazione alla liberazione più assoluta. La frustrazione può dipendere dal periodo di tempo passato per arrivare alla conclusione, durante il quale ti sorgono mille dubbi e domande. La liberazione invece è connessa alla gioia e alla leggerezza di essere riuscito a produrre ciò che prima era solo un’idea che girava in testa.

 

Anita: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso o dell’autore in generale?

Fabrizio Jelmini: Io non smetto di essere fotografo quando appoggio la macchina fotografica. Per me la fotografia non è soltanto professione. Il concetto creativo non si limita soltanto al fatto del fare un progetto fotografico, anzi lo stimolo maggiore mi arriva nel rapporto con gli altri e nella ricerca.

 

Gloria: Nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo cosa determina?

Fabrizio Jelmini: Io credo sia fondamentale l’apertura reciproca: se io dovessi fotografarti, senza darti nulla di me ma cercando solamente di prenderti, mi ritroverei con un’immagine esteriore ferma. La mia apertura nei confronti dell’altro fa sì che ciò che mi ritorna è sempre superiore a ciò che do.

 

Anita: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Fabrizio Jelmini: C’è stato un periodo in cui quando producevo del materiale che trovavo estremamente interessante e trovavo qualcuno discorde, ci rimanevo malissimo perché lo portavo sul piano personale. Con il tempo però impari che non puoi piacere a tutti e ci saranno sempre persone con cui avrai più difficoltà a comunicare e a coinvolgere con il tuo prodotto creativo. Quindi adesso non mi pongo più il problema: una volta cercavo di convincere chi la pensava in modo diverso da me, oggi rispetto un punto di vista diverso dal mio e cerco addirittura di utilizzarlo per un’analisi personale, per vedere se può darmi una visione in più rispetto a quello che ho fatto.

 

Gloria: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Fabrizio Jelmini: Tutti possono fruire del prodotto creativo. Penso che sia importante che l’artista crei una connessione con coloro ai quali vuole mandare un messaggio. Io scinderei la fotografia professionale dalla fotografia con scopo introspettivo. Nella fotografia professionale ci sono dei costrutti da rispettare per arrivare ad uno scopo, mentre la fotografia introspettiva è più malleabile e può essere costruita di volta in volta. Questo per quanto riguarda coloro che diventano i soggetti del prodotto creativo. Per quanto riguarda invece il giovamento degli spettatori in generale, non so rispondere a questa domanda perché credo che il giovamento sia soggettivo ed ognuno ne usufruisce a modo suo.

 

Anita: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Fabrizio Jelmini: Io non credo ci sia un’immagine adatta a rappresentare l’atto creativo perché esso è soggettivo. In linea generale credo che debba essere un’immagine che ti faccia star bene. Potrebbe essere anche un’immagine di prospettiva: non quella che hai in mente ma quella che vorresti che fosse, perché diventa una proiezione. Io non ho un’immagine ideale perché preferisco approcciarmi all’atto creativo liberamente e senza essere condizionato da qualcosa di già prefissato.

 

Gloria: Pensi esista una relazione tra depressione e creatività?

Fabrizio Jelmini: Si. Le mie foto più particolari le ho fatte nei momenti di difficoltà. Ricordo che in quei periodi avevo una percezione, un livello di sensibilità, spaventosi. Nei momenti in cui si è più chiusi, si riesce ad ascoltarsi meglio e questo aiuta nella ricerca di nuovi stimoli.

 

Anita: Quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Fabrizio Jelmini: Non è mai concluso, perché è ciò che vivi in quel momento e ti rimarrà sempre qualcosa di quello che hai fatto. L’essere umano è in continuo movimento, di conseguenza può sempre riprendere un progetto e dargli una nuova vita. Come ho già detto, la creatività è un motore in costante movimento che porta alla continua ricerca di stimoli.

 

Gloria: Pensi che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Fabrizio Jelmini: Si. Per quanto mi riguarda, i lavori che ho fatto in diverse realtà sociali erano spinti dalla necessità di entrare in un mondo diverso dal mio. Credo che sia necessaria la capacità di comunicare in modo chiaro e comprensibile gli scopi del progetto. Ad esempio, uno dei progetti che ho svolto in Brasile aveva come scopo la promozione di una raccolta fondi per la costruzione di un ambulatorio in una favela. Per fare ciò, sono stato ospitato nella favela per raccogliere materiale da esporre. Pochi giorni dopo il mio arrivo, si è presentato davanti alla mia porta un bambino di 7 anni circa, e con fare arrogante ha chiesto di essere fotografato perché aveva sentito dire che le foto sarebbero servite per la raccolta fondi. È stato bellissimo secondo me perché sono riuscito a comunicargli l’importanza del progetto, e a quel punto lui si è offerto volontario, riconoscendo il vantaggio che ne avrebbe ricavato.

 

Anita: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Fabrizio Jelmini: Se dovessi fare una risposta breve direi la seconda. Però bisogna sempre tenere in considerazione le informazioni e il contesto in cui una persona nasce e cresce. Io credo che a chiunque e in qualsiasi momento debbano essere dati gli strumenti per sviluppare la propria creatività. Essa, infatti, non è necessariamente legata ad un banale concetto artistico, ma piuttosto credo sia la capacità di mettersi in gioco in qualunque situazione, cercando di superare i propri limiti e uscendo dalla comfort zone.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Fabrizio Jelmini: Certo che sì. Io credo che la creatività sia un modo di comunicare e ognuno di noi ha bisogno di comunicare qualcosa agli altri, si tratta solo di trovare il modo giusto. A questo proposito, vorrei raccontarvi di un progetto che ho svolto nel carcere di Bollate, con l’aiuto di Claudio Villa. Il tema del progetto era legato alla libertà e alla giustizia e io volevo rappresentare i detenuti nei loro vari momenti, partendo dalla cella per arrivare ai corridoi e all’esterno. Il progetto è stato accolto positivamente dai detenuti ed è stato per me molto istruttivo, poiché mi sono resoconto che la fotografia non è un mezzo fine a sé stesso ma può essere utilizzata come mezzo per condividere i propri pensieri. Durante il percorso il mio punto di arrivo è cambiato: non mi interessava più far vedere il carcere e la vita interna ad esso, bensì mi sono focalizzato sull’uomo in relazione alla libertà e alla giustizia che lui stesso esprime. Un punto fondamentale deve essere la voglia di comunicare con chi sta dall’altra parte, per renderlo completamente protagonista. La creatività è servita come strumento, ma per realizzare il progetto è stata necessaria la partecipazione attiva e volontaria dell’altro.

Intervista ed elaborazione di
Anita Saccani e Gloria Marchesi

F. Jelmini InstagramGalleriaInterviste sulla creatività

Raul Montanari

Raul Montanari – Intervista sulla creatività

Raul Montanari è scrittore e docente di scrittura creativa. Spiega ai suoi allievi le tecniche applicate dagli scrittori. Si dedica allo studio teorico della creatività espressa attraverso la prosa narrativa e la sceneggiatura cinematografica. Con altri della sua generazione, ha attirato nel campo della narrativa un pubblico giovane che leggeva fumetti con un linguaggio molto avanzato e che era interessato ad espressioni anche estreme della narrativa. Si è espresso nel genere Noir, che si occupa del conflitto tra bene e male. Nel 1991 ha pubblicato il suo primo romanzo “Il buio divora la strada” portando il Noir all’attenzione dei grandi editori.

 

Gloria: Cos’è per te la creatività?

Raul Montanari: Ogni atto espressivo è creativo in sé. La scrittura creativa adopera una serie di stratagemmi perché è una creatività sottomessa a leggi molto precise volta a ottenere il massimo dell’efficacia per il lettore. Lo scopo? Che i sentimenti e i pensieri che l’autore vuole trasmettere diventino risonanti anche per il lettore, diventino pubblici, possano quindi avere un significato per gli altri. La creatività è una disposizione dello stare nel mondo molto diffusa. La creatività disciplinata, per potersi rivolgersi a un vero pubblico, comporta delle regole e difficoltà.

 

Arianna: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Raul Montanari: La creatività si esprime in vari ambiti. Nell’ambito della narrativa e dei formati espressivi del cinema e del fumetto ci sono due condizioni a monte dell’idea creativa e che appartengono alla persona creativa: uscire dalla propria vita ed incontrare la vita degli altri, perché la nostra vita non dà materiale sufficiente per scrivere un romanzo. Qui risiede anche la differenza tra prosa e poesia: poeti illustrissimi passano tutta la vita parlando solo di sé stessi, ma siccome nella poesia l’accento è messo sull’arte della parola, l’aspetto di apertura del mondo esterno può essere quasi superfluo. Invece, quando si scrive in prosa è impossibile scrivere solo attingendo alla propria vita; infatti, chi scrive vive, oltre alla sua vita, tutte le vite dei personaggi, e per poter moltiplicare i punti di vista occorre curiosità per la vita degli altri.

Per scrivere una buona prosa occorre attingere a tre magazzini: quello della propria vita, quello della vita degli altri che raccontano le proprie esperienze (e l’atto di ascoltare le storie degli altri è un’esperienza soggettiva) e infine quello comprendente tutto il resto (i libri che si leggono, i film che si vedono…).

Per fare un esempio, nel 2006 ho pubblicato un romanzo dal titolo “L’esistenza di Dio” il cui personaggio principale volevo fosse un ex detenuto, uscito dal carcere per presunto uxoricidio. Volevo che avesse una fobia e così ho esaminato le fobie che potessero andare bene per un personaggio del genere e ho pensato alla claustrofobia, la più temibile per un recluso. Nel primo magazzino sulla mia vita non trovavo niente su questa fobia, quindi ho esaminato il secondo magazzino e ci ho trovato mia madre, che mi ha parlato dei suoi problemi con la claustrofobia; nel terzo magazzino, attraverso ricerche, ho scoperto nuove curiosità su questo genere di paura.

Il secondo ingrediente a monte della creatività nella scrittura è il fascino per l’espressione di parola scritta che nasce leggendo: alle spalle di un grande scrittore infatti c’è sempre un grande lettore.

 

Gloria: Cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Raul Montanari: L’idea non ho mai capito da dove viene; sono sempre state usate metafore per descrivere lo scaturire del processo creativo, come ad esempio la metafora del Big Bang, ovvero qualcosa a cui nessuno ha assistito ma delle cui conseguenze noi tutti facciamo parte: non vedi nascere l’idea ma te la ritrovi lì.

L’idea può venire dalla vita o dalla narrativa. Ad esempio, nel mio ultimo romanzo, l’idea è nata da una ragazza che esiste realmente e che si è presentata alla mia porta per vendermi un giornale;  da questo episodio ho cominciato a chiedermi cosa potesse causare una simile epifania nella vita di un uomo solo; di solito ragiono per contrasti: cosa ci può essere di più contrastante tra una giovane ragazza raffigurante il massimo della socialità vendendo giornali alle porte delle case, e un uomo che si è chiuso a riccio nella sua solitudine?

 

Arianna: Che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Raul Montanari: Io mentre scrivo sto male. Il mio procedimento creativo è diviso in tre momenti: preparazione di circa un mese (scaletta cronologica, ricerche sui luoghi e su tutti gli aspetti coinvolti nella storia, creazione dei personaggi, scaletta dei capitoli), prima stesura in circa un altro mese, ed infine correzioni e aggiustamenti.

Il vero momento creativo è la prima stesura, il mettere sulle pagine delle parole che prima non esistevano. Questo atto di creazione lo reputo estremamente doloroso perché provoca una immensa astrazione dal mondo reale e lo stare dentro al mondo immaginario è alienante, corri anche il rischio di contaminare il mondo ideale col mondo reale e viceversa.

Diventi un vampiro della vita perché succhi energie alla vita per metterle nelle pagine del tuo romanzo.

Una volta concluso il romanzo sento delle dinamiche bellissime di rispecchiamento, mi rivedo nelle mie pagine. Ma anche il mancato rispecchiamento provoca un piacere narcisistico: anche se si racconta un episodio, una paura, un sogno che appartengono ad un’altra persona, lo si fa con le proprie parole.

 

Gloria: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso e sulla percezione dell’autore in generale?

Raul Montanari: La dimensione dell’autore ha conservato un prestigio enorme nonostante la scrittura sia antichissima, ormai, e nonostante il rapporto con il destinatario abbia degli spazi sempre più ristretti perché le persone hanno sempre meno tempo per leggere. Rimane questo fascino perché si sente che questa forma di creatività che passa attraverso la parola ha un carattere esplosivo.

 

Arianna: Nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo cosa determina?

Raul Montanari: Per quanto riguarda le persone che entrano come personaggi nelle pagine, emerge l’aspetto vampiresco di cui parlavo prima: le persone sono spesso deluse da come vengono rappresentate in una narrazione. D’altronde, come scrittore tu non devi solamente obbedire alle leggi della vita ma anche alle leggi della narrazione: se ti serve che un personaggio sia stronzo e che metta in difficoltà il protagonista, devi fargli fare queste cose, è la storia stessa che ti detta le regole. Quando scrivi, oltre ad incontrare la vita degli altri, incontri anche una logica interna della storia che stai scrivendo e questa logica ti costringe a fare delle scelte, che spesso lasciano insoddisfatta la persona che si ritrova dentro il racconto.

Per quanto riguarda il rapporto con gli altri più in generale, io credo che la narrativa predisponga ad un’elevata capacità empatica. Una delle cose più difficili da fare quando si scrive una storia è per esempio tratteggiare il ruolo dell’antagonista, personaggio fondamentale perché la narrazione nasce sempre da un conflitto. Se si volesse fare una sintesi della narrativa, infatti, si potrebbe dire: un personaggio vuole far qualcosa ma fatica a farlo perché qualcuno si mette in mezzo. Per quanto riguarda l’ostacolo, vi possono essere tre tipi: l’antagonista, l’ambiente o un conflitto interiore. Tuttavia, nella maggioranza dei casi i diversi tipi di ostacoli vengono personificati in un antagonista: per esempio, si potrebbe dire che, se abbiamo un protagonista detenuto, il carcere è il suo ostacolo ambientale perché pone dei limiti fisici alla sua libertà. Tuttavia, è più facile identificare l’antagonista in una guardia sadica e cattiva, in questo caso l’ambiente diventa una persona.

 

Gloria: Quanto è importante l’apprezzamento degli altri per il prodotto creativo?

Raul Montanari: Varia molto, sia in base all’obiettivo dell’autore sia in base al tipo di espressione che ha scelto. Io conosco persone che producono atti creativi, i quali, ai loro occhi, hanno valore creativo in sé. Queste persone sono capaci di mettersi in una relazione con il loro prodotto creativo che non è mediata dal riconoscimento degli altri. Questo vale molto di più per la scrittura poetica, mentre la scrittura in prosa ha bisogno di un pubblico. A livello puramente economico, pubblicare un romanzo con una casa editrice ha dei costi e se tu/il tuo libro non piace, l’editore non guadagna nulla e tu ti estingui come narratore. Non ti pubblicano più! Per un romanziere quindi il pubblico è necessario. Ho conosciuto persone che avevano un rapporto molto intimo con il prodotto della loro creazione tanto da essere contenti così. Il riconoscimento altrui è un valore aggiuntivo di cui chiunque è felice. Sostanzialmente nessuno scrive solo per sé stesso, sostenere questo è solo un atteggiamento difensivo, paura del giudizio.

 

Arianna: Chi sono i principali fruitori del rapporto creativo e come ne traggono giovamento?

Raul Montanari: Nel caso della lettura ci sono lettori di ogni tipo, di conseguenza è impossibile piacere a tutti. In particolar modo è impressionante come quello che tu scrivi possa suscitare reazioni diverse nelle varie persone e soprattutto reazioni diverse da quelle che tu autore ti aspetti. Ogni cosa che scriviamo è sottoposta al famoso gioco della teoria dell’informazione: seduti intorno a un tavolo, tu riferisci una frase all’orecchio di una persona, la quale, a sua volta, la ripete al suo vicino e così via, fino a tornare a te ed è una frase completamente diversa dall’originale. Nella scrittura affrontare il giudizio degli altri porta anche a scoprire come ogni persona vedrà la tua narrazione a modo suo e prenderà dalla narrazione ciò che è entrato in contatto, in modo abrasivo o sintonico, con lei.

 

Gloria: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Raul Montanari: La prima cosa è la solitudine: l’atto creativo è un atto di raccoglimento. Sia la scrittura che la lettura sono atti di isolamento, attività che nascono come antisociali. Al contrario di altre attività creative come guardare un film, ascoltare una canzone oppure visitare una mostra, le quali possono essere svolte in gruppo, la scrittura prevede un rapporto uno a uno. Tutto ciò che avviene prima (ricerche, immedesimazione negli altri) e dopo (incontro con i lettori) sono invece attività sociali.

 

Arianna: Pensi che esista una relazione tra depressione e creatività?

Raul Montanari: Negli anni ’90 ho fatto molte traduzioni letterarie. Il primo libro che ho tradotto era un memoir sulla depressione scritto da William Styron. Il libro s’intitola “Un’oscurità trasparente” ed è la storia personale della depressione dell’autore. Questa storia racconta dello sprofondamento nella depressione e poi della rinascita attraverso due espressioni di tipo creativo: la scrittura e la musica. Da una parte, infatti, l’atto della scrittura implica apertura e fiducia, oltre ad aiutarti ad oggettivare certe tensioni e conflitti interiori rappresentandole su carta. L’oggettivazione permette di attribuire le tue sofferenze a qualcun altro e di conseguenza riesci ad avere una visuale diversa. La musica, d’altra parte, ha permesso all’autore di riconoscere l’entità della sua malattia e lo ha spinto alla ricerca di un percorso di salvezza. In particolar modo, l’ascolto di un brano musicale estremamente triste ha suggerito a Styron una distinzione tra tristezza e depressione. La tristezza è un sentimento nobile e necessario per l’uomo, al contrario la depressione è un aspetto autodistruttivo, da cui scappare.

 

Gloria: Quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Raul Montanari: Secondo la teoria dell’opera aperta di Umberto Eco, l’atto creativo non è mai concluso. Manganelli diceva che pubblicare un libro è un modo per disfarsene, altrimenti vai avanti a correggerlo all’infinito. Il prodotto creativo può venire cristallizzato ad un certo punto, l’atto creativo al contrario è energia infinita. Nel mondo della scrittura abbondano metafore di tipo procreativo: è normale infatti paragonare il libro ad un bambino e comparare il lavoro di scrittura ad una gravidanza. Sono tutte metafore che indicano un apparentamento analogico tra la creatività universale e il tuo atto creativo personale.

 

Arianna: Pensi che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

Raul Montanari: Sì, sotto ogni punto di vista. Tutte le funzioni dei prodotti creativi sono sociali; non ce n’è una che non sia sociale. Non siamo capaci di vivere senza “narrativizzare” il mondo: trasformiamo sempre il mondo in un racconto. Se guardiamo noi stessi e la memoria che abbiamo di noi stessi, possiamo notare in che modo vediamo la nostra vita: come fosse un romanzo, con i suoi personaggi, i suoi colpi di scena, i capitoli, le svolte, i cambiamenti di ruolo…

Dei nostri primi anni di vita, non abbiamo un ricordo così ben strutturato. Si potrebbe dire che viviamo i nostri primi anni con un atteggiamento più poetico che narrativo; abbiamo delle poesie, dei flash, delle piccole immagini che contengono un’emozione. Cominciamo ad organizzare narrativamente lo sguardo che abbiamo sulla nostra stessa vita intorno ai 9-10 anni. L’atteggiamento narrativo è antropologico, connaturato alla specie umana, che applica questo atteggiamento a tutta la realtà esterna. Perfino il complottismo è indizio della nostra tendenza a narrativizzare: abbiamo una tale ripugnanza a pensare che le cose possano accadere senza che ci sia dietro una trama, che ci attacchiamo anche alle spiegazioni più improbabili per costruirci una storia. Questo pensiero complottista è la versione a volte comica e a volte grottesca di una propensione narrativa.

 

Gloria: Pensi che la creatività sia un dono naturale e dunque un privilegio di pochi oppure una competenza accessibile a tutti che può essere allenata?

Raul Montanari: Penso che la creatività sia accessibile a tutti, altrimenti non avrei la scuola di scrittura creativa. Il talento esiste, ma l’atteggiamento creativo è universale. Ciò che fa davvero la differenza non è il talento, ma la determinazione, che è il vero carburante. La determinazione non va però confusa con la mitomania, che fa ottenere una soddisfazione parziale, temporanea, allucinatoria, ma spegne la volontà.

 

Arianna: Ritieni che la creatività possa avere un ruolo utile a scuola o nelle attività di recupero del condannato?

Raul Montanari: Sì, sicuramente. Innanzitutto, dal punto di vista psicologico, mette in moto dei meccanismi salutari come l’oggettivazione, il tentativo di entrare nei panni degli altri, che aiuta anche nell’organizzazione del proprio vissuto personale. Quando si rappresenta l’altro, naturalmente non in modo stereotipato in base alla sua funzione narrativa, ma come persona nella sua totalità, aiutiamo noi stessi a percepire il nostro vissuto, creando una nuova consapevolezza più salutare di quello che è il nostro ruolo nelle vite degli altri. Anche l’aspetto narcisistico non va trascurato: l’innalzamento dell’autostima che può seguire l’atto creativo può essere propedeutico a qualsiasi tipologia di recupero.

Intervista ed elaborazione di
Arianna Picco e Gloria Marchesi

 

 

Raul MontanariLibriInterviste sulla creatività

Lettera al mio corpo

Ti ho maltrattato in passato. Ti ho negato il cibo quando avevi fame e te ne ho dato troppo quando non ne avevi bisogno. Mi sono vergognata di te, ti ho nascosto e non so ancora per quale motivo. Pensavo solo alla tua funzione estetica e non mi rendevo conto del male che ti stavo infliggendo.
Solo ora, con tutto il dolore che grazie a te riesco a superare, capisco quanto tu sia straordinario:
Grazie perché la mattina riesco a svegliarmi.
Grazie perché nonostante tutto sono ancora in piedi.
Grazie perché, anche se ti ho odiato, ci sei sempre stato.
Grazie perché, anche se qualche volta ti do la colpa per quello che mi succede, mi permetti di vivere.

 


La colonna rotta di Frida Kahlo

Un buco sulla pancia. Poi tre. Poi quattro e così via. La bocca che fa male, la gola gonfia che brucia e non mi permette di deglutire nemmeno la mia stessa saliva. Le mani gonfie, le vene rotte, i lividi sulle braccia. Il telefono sul comodino che non ho la forza di prendere. Non ho voglia di rispondere a tutti i “come stai?” degli amici e dei familiari preoccupati. Non ho voglia di ripetere altre mille volte quanto sto male. Non ho voglia di far preoccupare mia mamma che ha quella brutta abitudine di soffrire più di me quando sto male.

Ogni tanto penso a Frida Kahlo perché lei ha passato gran parte della sua vita a soffrire fisicamente, era malata e ha avuto un grave incidente. Nonostante tutto la sua produzione artistica fu molto prolifica e forse nacque anche dalla sofferenza.

Gloria Marchesi

Officina Creativa

Francesco Scopelliti

Francesco Scopelliti – Intervista sulla creatività

Francesco Scopelliti è psicologo psicoterapeuta, direttore del Ser.D in Area Penale e Penitenziaria e responsabile dell’unità operativa dei Ser.D nel carcere di Bollate e nel Tribunale di Milano. È altresì professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano. Come dice egli stesso, il suo ruolo è per definizione istituzionale e poco creativo perché gli interventi sono regolamentati in maniera molto rigida dall’ASST Santi Paolo e Carlo, ospedale per cui lavora. In questi contesti le prestazioni devono essere standardizzate e riconducibili ai livelli assistenziali minimi (LEA), perciò gli aspetti creativi sono poco praticabili proprio perché non riconosciuti. Fino a qualche anno fa si poteva godere di maggiori margini di creatività poiché era consentita l’ideazione di programmi trattamentali che includevano il teatro, il cineforum, lo yoga, ecc., attività socio-educative meno standardizzate. Allo stato attuale, una delle attività più creative è il trattamento che ha luogo a “La Nave”, reparto di trattamento avanzato volto alla cura e al recupero di detenuti tossicodipendenti presso il carcere di San Vittore. Si tratta di un tipo di trattamento particolarmente originale, unico in Italia, che vede aspetti innovativi come l’autogestione del reparto quasi a custodia zero.

 

Gloria: Cos’è per lei la creatività?

 Francesco Scopelliti: Per me la creatività è un piacere, un orgasmo, è un modo per percorrere dei piaceri che possono presentarsi sia a livello del pensiero, del sogno, sia attraverso l’azione. Per me la creatività riguarda comunque la massima soggettività, ad esempio l’ideazione di soluzioni creative che non necessariamente sono funzionali o risolutive.

 

Ottavia: Come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Francesco Scopelliti: Credo che siamo tutti più o meno creativi, anche chi nega di esserlo. Per me la creatività è contestualizzata, a seconda dei momenti: a volte è soprattutto azione, manipolazione e cambiamento di oggetti e dell’ambiente che mi circonda; altre volte la riconduco soprattutto al pensiero, alla immaginazione. Mi capita di avere delle fantasie che si riferiscono a dei miei hobby e che, attraverso il pensiero, cerco di amplificare, in modo da modificare gli spazi e i contesti dell’immagine nella mia mente. È più facile pensare una cosa del genere piuttosto che tradurla in azione.

Ho bisogno di colmare la rigidità propria del mio lavoro istituzionale, perciò quando posso, amo passare il mio tempo in movimenti e azioni che reputo creativi. Ad esempio, adoro il riutilizzo o il recupero dell’oggetto morto o inutilizzato, cerco di portarlo a essere usato in forme e funzioni differenti. Mi piace collocare un oggetto che di norma si trova in un determinato spazio e in una certa dimensione in altri spazi e dimensioni a prescindere dai risultati che otterrò. Infatti, per me la creatività non è qualcosa di funzionale in termini di tempo, spazio e costi. Posso lavorare cinque ore di fila su un oggetto spendendo molto tempo e denaro a fronte di un risultato che potrebbe essere sostituito dall’acquisto dello stesso oggetto con pochissimi soldi. Certamente mi fa piacere che alla creatività possa corrispondere un risparmio di tempo e di denaro ma non è certamente questa l’essenza della creatività.

Uno dei miei hobby è il mio garage dove ci sono moltissimi elementi e materiali, che si possono coniugare tutti tra di loro: la falegnameria con la fusione del metallo, la parte elettronica con quella meccanica. A queste attività manuali seguono a volte risultati modesti ma costituiti da elementi sempre in interazione tra di loro. Ad esempio, alcune parti della mia moto sono diventate un sedile perché in quel momento era ciò di cui avevo bisogno.

Ho costruito questo sedile con la base di un’altra sedia, con alcuni avanzi delle travi di un tetto e dello scaffale di una libreria. Per quanto riguarda il risultato, non mi chiedo nemmeno se sia bello, brutto o se sarà longevo perché magari un giorno potrei volerlo ritrasformare, ad esempio, in un tavolino. Un altro esempio è quello della lavatrice a cui ero molto affezionato e che alla fine sono stato costretto a buttare. Per anni ero riuscito a farla resuscitare costruendo diversi motori quasi con un accanimento terapeutico perché mi dispiaceva l’idea di buttarla. Credo che questo sia il mio legame con la vena artistica. Ciò che mi interessa, a prescindere dal risultato finale, è il pensiero che vi sta dietro.

 

Gloria: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo la produzione creativa?

 Francesco Scopelliti: È un piacere puro. In termini evolutivi, reputo la creatività una delle più importanti essenze della vita. Senza la creatività non ci si evolve da un sistema. Penso che l’uomo sia più creativo rispetto ad altre specie, per quanto il regno animale non sia esente da processi creativi. La creatività soggettiva è quella che però mi interessa di più, che ognuno ha e si attribuisce e che consente di interagire, per esempio, con un piatto di pasta: dal modo in cui si inforchetta la pasta, a cosa si mangia prima e cosa dopo. Sono tutti aspetti che fanno parte di un’interpretazione soggettiva dell’ambiente, di una traduzione del proprio modo d’essere attraverso lo sguardo e i movimenti.

 

Ottavia: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé stesso?

 Francesco Scopelliti: Per me incide molto perché l’immagine è qualcosa che ci rappresenta…  dall’atteggiamento, all’abbigliamento al modo di parlare. Anche essere vestiti in un certo modo, magari meno attento e adeguato rispetto ai canoni del contesto, fa parte dell’essere creativi: è più facile conformarsi con la giacca e la cravatta piuttosto che mettersi dei jeans bucati. È un tentativo di maggior creatività, per quanto mal riuscito.

Per me la creatività non ha legami col risultato e con la bellezza del prodotto. Io odio finire le cose, tutto ciò che faccio non è mai finito: uno scritto, un oggetto, un pensiero. La fine corrisponde a una tristezza, a una morte, a una perdita che si traduce in un abbandono. Tutta la mia vita è colma di cose non finite. Al tempo dell’informatizzazione, amavo modificare e creare computer e tutt’ora mi piace farlo. Una volta il prof. Aparo mi portò a casa un computer nuovo e io ne interpretai il cambiamento, perciò con un cacciavite e altri strumenti lo modificai completamente rendendolo plurifunzionale, con molte più funzioni rispetto a prima… esteticamente era molto meno bello di prima ma non avrei mai potuto finirlo perché è una modalità che non mi appartiene. Oltretutto, quando un oggetto è finito, si pone al giudizio dell’altro, mentre se è incompleto mi sento giustificato per le sue imperfezioni.

 

Gloria: Nel rapporto con gli altri, che cosa determina il suo atto creativo?

 Francesco Scopelliti: Fino a pochi anni fa, la mia creatività, anche quella del pensiero, richiedeva fortemente il riconoscimento altrui mentre con gli anni ho imparato a godere principalmente in prima persona del mio atto creativo. Con l’età c’è stata una sorta di rivoluzione in questo senso, sono sempre più consapevole che la creatività sia qualcosa che mi fa sentire vivo e che mi dà piacere. Ora la mia creatività è una dimensione più personale e privata, ma rimane comunque una forma di comunicazione che solitamente necessita dello sguardo dell’altro.

Ottavia: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

 Francesco Scopelliti: Al momento sono io stesso il principale fruitore del prodotto creativo, però lo sono anche le persone con cui ho un legame affettivo e con le quali ho bisogno di ribadire la mia identità. Non mi è mai appartenuta una comunicazione sfrontata della mia eventuale creatività: la reputo l’espressione di un’intimità, perciò mi sento infastidito dalle intrusioni che provengono dal di fuori rispetto al mio mondo relazionale e affettivo. In generale invece, credo che la creatività, in qualità di essenza della vita, sia un elemento comunicativo trasversale. La creatività permette l’evoluzione e la crescita, a prescindere che avvenga attraverso la produzione musicale o attraverso la scoperta di una formula chimica. La creatività rivolta all’esterno, inoltre, permette il passaggio dalla caverna all’attuale casa riscaldata. Tuttavia, non sempre la creatività è qualcosa di positivo: le guerre sono la testimonianza di una creatività distruttiva. Anche il virus ha una modalità di espressione creativa: muta per contrastare il vaccino, creando nuove sotto-dimensioni. È interessante osservare l’evoluzione della pandemia anche dall’altra prospettiva: se il virus non fosse creativo, sarebbe morto. È importante anche che vi sia una componente di intelligenza perché senza questa non c’è creatività. Anche le piante possono essere creative perché cambiano per adattarsi all’ambiente circostante.

 

Gloria: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Francesco Scopelliti: Mi viene in mente qualcosa di astratto… il pensiero. Al momento è la sede elettiva della mia creatività perché certi pensieri non possono tradursi in azioni per diversi motivi legati a vincoli esterni. Qualche anno fa non avrei mai provato piacere attraverso il pensiero mentre col tempo mi sono reso conto che la casa della mia creatività è proprio il pensiero perché supera la materia e le possibilità dell’agire. Nei luoghi della mente la creatività può fare cose incredibili regalando piaceri altrettanto grandi. Questo permette a persone con patologie e deprivazioni di esperire una realtà immaginativa che può apportare miglioramenti alla qualità di vita. Per fare un esempio, una persona paraplegica può scegliere di interrompere il suo percorso di vita oppure può scegliere di vivere in un mondo “parallelo” fatto di creatività e pensiero, dando così significato alla propria esistenza.

Anche un detenuto può essere supportato dal pensiero creativo, essendo in uno spazio di deprivazione e interruzione di molte attività e affetti. Accompagnare la persona a sviluppare percorsi creativi è qualcosa di clinicamente valido, è una forma di esercizio che fornisce le basi per una ripartenza.


Grammofono del 1890, restaurato da Francesco Scopelliti e oggi perfettamente funzionante

 

Ottavia: Pensa esista una relazione tra depressione e creatività?

Francesco Scopelliti: Assolutamente sì, la creatività può produrre pensieri, azioni o situazioni che viviamo come drammatiche, come la delusione delle nostre aspettative. Come dicevo prima, uno potrebbe avere una determinata idea ma potrebbe non possedere i mezzi per metterla in atto e questa impossibilità può determinare risposte di tipo depressivo. Quando un clinico cerca di stimolare il pensiero e la progettualità futura di un detenuto deve stare attento a farlo stare con i piedi per terra perché la fiducia nelle proprie risorse creative potrebbe diventare eccessiva e condurre alla megalomania, causando delusioni e cadute all’indietro. Mi è capitato di parlare con detenuti che avevano dei pensieri e delle speranze che però si scontravano radicalmente con le risorse effettive che avrebbero incontrato una volta usciti dal carcere.

 

Gloria: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Francesco Scopelliti: Si, sicuramente! La creatività è la trasmissione di un punto di vista e di un pensiero, perciò ha una funzione sociale. Inoltre, la creatività può coinvolgere il singolo ma può anche essere praticata in contesti di gruppo: persone con diverse competenze si possono unire per produrre o per apportare cambiamenti in un contesto. Insieme, con le diverse abilità e predisposizioni, si può dar vita a un prodotto creativo; oppure, può essere il singolo individuo ad avvalersi delle competenze altrui. Ad esempio, se la mia moto ha un guasto (e io non ho intenzione di portarla dal meccanico), mi avvalgo di video su YouTube per trovare dei consigli sul come ripararla. Per essere creativi bisogna anche studiare, allenarsi, “perderci” molto tempo. Creatività è anche assorbimento delle produzioni altrui.

 

Ottavia: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

 Francesco Scopelliti: La creatività è accessibile a tutti, è un esercizio, è uno dei percorsi possibili della mente umana. Poi il risultato e la bellezza del prodotto creativo sono un giudizio soggettivo, ma sicuramente è una caratteristica appartenente a tutti. Anche nascere e vivere in un contesto creativo, di artisti, è un forte predittore dell’utilizzo della creatività e del suo successivo allenamento.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

 Francesco Scopelliti: Sì e, anzi, deve proprio averla. Purtroppo, i servizi da noi erogati non sono creativi perché questo ci impongono le istituzioni. Tutti sappiamo che il carcere è inutile e svantaggioso sia per il detenuto sia per la società. La colpa per la mancanza di creatività e innovazione viene data alla politica, quando invece il problema è di matrice culturale. Pur essendoci da anni un pensiero innovativo in merito alla situazione carceraria, i cambiamenti non vengono attuati, perciò è riduttivo additare la colpa ai politici. Essere creativi significa andare al di là delle regole, trasgredire, mettersi di fronte al giudizio degli altri col rischio di essere sanzionati rispetto a dei risultati considerati come non validi. Quando esercito la mia professione mi nascondo dietro il mio ruolo istituzionale per non mettermi in gioco perché di mezzo c’è anche la mia posizione. Credo che le regole che ci diamo siano rivolte alla necessità di consolidamento della nostra identità. Purtroppo, al fine di assolvere a una funzione prestabilita, non ci si mette in discussione. Cambiare le regole significa cambiare la partita, cambiare i ruoli e rinunciare al proprio ruolo non è cosa facile.

Intervista ed elaborazione di
Ottavia Alliata e Gloria Marchesi

 Francesco ScopellitiInterviste sulla creatività

Renato Rizzi

Renato Rizzi – Intervista sulla creatività

Renato Rizzi è medico chirurgo, oncologo e psicoterapeuta. Egli ha scritto alcuni saggi (sul perdono, sul rancore) e dei romanzi, crede molto nella lettura e nella scrittura come fondamentale strumenti di crescita.

 

Ottavia: Che cos’è per lei la creatività?

Renato Rizzi: La creatività è dare spazio e concretezza a un pensiero e può riguardare varie forme d’arte, dalla prosa, alla poesia, alla scultura, ecc.

 

Gloria: Cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Renato Rizzi: Per me la scrittura è un bisogno intimo di espressione. Nel mio caso cerco di trasferire i miei vissuti e le mie esperienze, sia in qualità di medico sia in qualità di psicologo, nel lavoro che faccio in carcere, contesto in cui vi sono vissuti di grande sofferenza. Cerco di ricreare qualcosa di molto vicino alla realtà anche se in parte modificato e romanzato. L’ingrediente principale del processo creativo è la necessità che avverto di modificare le cose in modo tale che rimangano comunque verosimili.

 

Ottavia: Che conseguenze ha la produzione creativa sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo?

 Renato Rizzi: Per me la creatività produce effetti liberatori, consolatori e di compassione.

 

Gloria: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé stesso o dell’autore in genere?

Renato Rizzi: Sicuramente l’atto creativo porta a una compensazione delle mie emozioni, è una forma d’aiuto ma si tratta di un processo in buona parte inconscio. La scrittura mi fa crescere. Quasi sempre scrivo in prima persona e questo mi rende felice per l’essermi messo nei panni di un’altra persona.

 

Ottavia: Che cosa determina l’atto creativo nel rapporto con gli altri?

 Renato Rizzi: Personalmente scrivo per me, non per gli altri, perciò è difficile rispondere. Gli altri giudicano il mio lavoro, lo spirito critico è importante perché induce a migliorarsi. Quando finisco di scrivere ho proprio finito il prodotto, mi sposto su un altro progetto o su un’altra esperienza. Non mi piace l’idea di fare dei sequel o di creare personaggi permanenti.

Il mio primo romanzo si intitola “Berto il cialtrone”. A quel tempo insegnavo Psicologia all’Università di Urbino, avevo fatto delle ricerche sulla menzogna su un campione di circa 700 persone. Ne sono seguite una serie di conoscenze che volevo riportare non più in un saggio – ne avevo già scritti uno sul perdono e uno sul rancore – bensì in un romanzo. In seguito, mi sono venute in aiuto diverse esperienze e fatti autobiografici che mi hanno messo per la prima volta nella condizione di scrivere quello che sarebbe stato poi il mio primo romanzo. Preso atto dell’insoddisfazione del mio editor sul finale, che trovava un po’ scialbo, ho deciso di scrivere cinque finali diversi e di fare scegliere al lettore quello che gli piaceva di più.

 

Gloria: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

 Renato Rizzi: Quando scrivo, faccio leggere i primi risultati del mio prodotto a mia moglie, che è molto critica. In tutti i romanzi ci dev’essere una storia d’amore, non necessariamente per una persona, ma anche per la patria, per il lavoro. Il mio primo romanzo ha riscosso un buon successo, ho riscontrato le critiche fatte sui giornali, ho vinto un premio di esordiente, ma non so se il libro sia stato d’aiuto a qualcuno. Invece, il penultimo libro che ho scritto, sulla storia vera di un detenuto, è stato letto nel carcere di San Vittore da gruppi di detenuti che poi mi hanno fatto molte domande. In quell’occasione mi sono sentito veramente utile perché mi sembrava di essere riuscito a indurre qualcuno a pensare e non tanto a fare. Secondo me questo è il fine ultimo di una creazione: stimolare il pensiero. Mi ricordo l’emozione che ho provato quando ho visto un efebo – una statua greca – a Mozia, un’isola di fronte a Trapani. Vi era solo questa statua all’ingresso di una villa liberty: ho vissuto un’emozione intensa…  che mi ha indotto a pensare.


L’efebo di Mozia

 

Ottavia: Le viene in mente un’immagine che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Renato Rizzi: Tra pochi giorni vado a Napoli, accompagno mio nipote a Pompei, ci sono già stato ma quello che mi incuriosisce davvero è vedere il Cristo Velato: le sculture mi impegnano e mi emozionano soprattutto quando rappresentano la figura umana. Non posso dire che si verifichi lo stesso quando vedo dei quadri raffiguranti dei paesaggi.

 

Gloria: Pensa che esista una relazione tra depressione e creatività?

 Renato Rizzi: Credo proprio di sì, credo che la creatività sia favorita da uno stato depressivo. Allo stesso tempo, la creatività è una forma di aiuto e di cura per la depressione, è un modo per sentirsi meglio.

 

Ottavia: Quando un prodotto creativo è davvero concluso?

 Renato Rizzi: Secondo me il prodotto creativo è concluso quando non c’è più nient’altro da dire o da aggiungere in quella determinata creazione. Anche la scultura non finita può rappresentare per l’autore un’opera conclusa perché non c’è più nulla da comunicare. Penso sia una cosa estremamente personale e che l’opera sia davvero conclusa quando non vi sono più emozioni a stimolare la produzione. Per quanto riguarda i romanzi, ci sono autori che riscrivono le loro opere venti volte. Io, personalmente, quando finisco di scrivere un romanzo, non voglio più rivederlo né rileggerlo, è davvero concluso.

 

Gloria: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Renato Rizzi: Sicuramente sì. Ritornando alla scrittura, credo che i circoli letterari siano un’arma sociale utile per discutere un pensiero e ritengo possano avere un impatto a livello sociale, anche se per un pubblico molto ristretto; solamente i romanzi di grande successo possono influire su una popolazione più ampia. Comunque, anche i romanzi più terribili e scritti male hanno sempre una frase, un concetto che salva il libro e che stimola una crescita personale.

 

Ottavia: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

 Renato Rizzi: Il talento esiste ma è comunque allenabile ed educabile. Ad esempio, fare il medico richiede una parte di talento ma soprattutto tanta compassione: senza questi due elementi è difficile svolgere efficacemente questa professione. Nella creatività servono una grande capacità di espressione emotiva e l’abilità di saper esprimere cose terribili… basti pensare ai quadri di Alberto Burri che esprimono una rabbia immensa.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Renato Rizzi: Sì sicuramente, anzi credo che la creatività sia uno degli migliori strumenti ma che non viene sufficientemente utilizzato. A questo proposito, sto cercando di convincere la tipografia Zerograrfica, cooperativa sociale nata su iniziativa di persone detenute, a diventare una piccola casa editrice. Ho proposto di fare un premio letterario destinato ai detenuti della Lombardia o di tutta Italia per il miglior racconto. Credo che questa iniziativa possa rappresentare un buon incentivo principalmente per due motivi: il premio letterario permette di ottenere un riconoscimento mentre la scrittura stimola la riflessione e la verbalizzazione di vissuti e pensieri del soggetto. Il narrato, se non viene ben verbalizzato, si perde e alla società non viene dato nulla. Credo sia molto utile spingere i bambini o i ragazzi a scrivere di sé. È uscito da poco un libro, “L’appello”, che narra di un insegnate di liceo cieco che viene assunto in una scuola come supplente. Il fatto che sia privo della possibilità di vedere e quindi di riconoscere nell’altro il linguaggio non verbale, aiuta in maniera molto più profonda a comprendere lo studente. Il rapporto insegnante – alunno si sviluppa in una forma di apertura che i ragazzi non avevano mai esperito prima e che successivamente si delinea attraverso la scrittura. È fondamentale insegnare ai ragazzi un modo per guardarsi dentro soprattutto perché l’adolescenza è un’età assai delicata e difficile in cui si ha una bassa autostima e un’identità in essere, non ancora definita.

Intervista ed elaborazione di 
Ottavia Alliata e Gloria Marchesi

 R. Rizzi Studio – Libri dell’autoreInterviste sulla creatività

Alberto Figliolia

Alberto Figliolia – Intervista sulla creatività

Gloria: di che tipo di arte ti occupi e qual è la sua origine?

Alberto Figliolia: di scrittura. Sono nato come autore, poi sono diventato anche giornalista e ora lo faccio come freelance, occupandomi di ciò che mi interessa (e in base ai miei tempi). In passato ho collaborato con diversi quotidiani o testate nazionali; nel frattempo ho continuato a scrivere libri muovendomi soprattutto nell’ambito della poesia e della letteratura sportiva, a volte anche unendo questi due campi. Faccio una postilla: alla base di tutto c’è un lettore accanito; prima di tutto sono uno che legge. La lettura è fondamentale e la considero un atto creativo, dopo c’è la scrittura.

 

Asia: che cos’è per te la creatività?

Alberto Figliolia: è, probabilmente, la capacità, attraverso un talento di base e tanta tenacia, di riuscire a rielaborare i vari input che arrivano alla nostra mente e al nostro cuore. Quindi la capacità di rielaborare le esperienze producendone di nuove. Tutto in una logica di ausilio al resto del consesso umano col quale ti relazioni. Difatti io credo molto nella forza empatica della lettura e della scrittura, nella trasmissione e nella condivisione del sapere.

 

Gloria: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Alberto Figliola: c’è il lavorio della mente, quello che ti ribolle nel profondo, nell’inconscio, che affiora nell’universo onirico. Poi ci sono le costruzioni razionali. Io per esempio lavoro sulla poesia come se fosse un’architettura: magari ho un’idea sulla quale poi faccio delle operazioni mentali. L’ispirazione non basta, è un processo molto lungo, che in fondo dura tutta la vita… Facendo un paragone col mondo dello sport, non credo che basti il talento. Il talento va allenato con umiltà: non si può pensare di sapere tutto. “So di non sapere” parafrasando il famoso filosofo greco. Poi c’è il labor limae, non finisci mai… Io qualcosa scrivo ogni giorno. È importante stare molto attenti alle piccole cose, anche particolari irrilevanti su cui di solito non ci si sofferma: anche un fiore le cui radici spaccano l’asfalto è importantissimo. I greci avevano un verbo bellissimo: “agorazein”, discorrere in piazza, in una sorta di ozio creativo. Non è vero che l’ozio è il padre dei vizi, è importante in tempi convulsi come questi prendersi uno spazio per meditare senza fretta.

 

Asia: che cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Alberto Figliolia: per esempio, ieri stavo andando a vedere una mostra a Milano e sono passato per Piazzale Tirana, una zona periferica che frequentavo da bambino perché mia nonna abitava da quelle parti, e c’erano, nella rotonda del tram, dei magnifici fiori viola e papaveri. Lì mi è scattato un link e ho pensato un haiku. Poi ho visto, percorrendo via Giambellino, le ombre dei platani e le foglie che si muovevano al vento e mi è venuto in mente un altro haiku (una forma di poesia giapponese a tre versi e diciassette sillabe). La macchina creativa ha preso avvio da un particolare in apparenza infimo. Quando sono arrivato a casa ho trascritto tutto quello che avevo memorizzato ed erano una decina di haiku. Devo aggiungere che l’haiku nasce così, dallo sguardo verso la natura e le piccole cose della natura presenti anche nella città. Poi delle volte ci sono degli elementi più complessi che danno vita a poesie più lunghe, e dipende molto dallo stato d’animo. Dico sempre che il beota e il beato non scrivono. Penso che anche la frustrazione possa essere una potente molla creativa; una persona perfettamente felice non scriverebbe un rigo probabilmente. Paradossalmente anche la nevrosi può generare scrittura. Forse è anche un meccanismo difensivo, di sopravvivenza. Pensiamo a “La ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde: non l’avrebbe mai scritta se non fosse mai stato incarcerato per ciò di cui incredibilmente era accusato al tempo. Le poesie più lunghe nascono anche da situazioni di disagio esistenziale. Non è un caso che dal nostro Laboratorio di scrittura creativa in carcere le persone detenute che lo frequentano sono estremamente abili e producono dei versi eccellenti, a volte addirittura magistrali e sempre emblematici. Il dolore, la noia, la solitudine, il senso di fallimento incombente riescono a portare alla genesi di lavori poetici mai autoreferenziali, oltremodo interessanti.

 

Gloria: che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?
Alberto Figliolia: è catartica. Quando scrivo in prosa, soprattutto giornalistica, si attiva un’altra parte pensante e sono un osservatore più obiettivo e meno “sentimentale” dei fatti. Di sicuro c’è una grande gratificazione nello scrivere, anche se è commista alla fatica. Scrivere è faticoso. Si mischiano piacere, fatica e catarsi finale. Quando esce un tuo libro è quasi come un parto, come se fosse un piccolo figlio.

 

Asia: Come incide l’atto creativo sulla percezione di sé?

Alberto Figliolia: incide perché è un continuo scavo interiore che fai incessantemente nel profondo, mettendo a nudo e ti mettendoti a nudo. Chi scrive non può fingere più di tanto, nonostante quello che diceva Pessoa coi suoi versi… “Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente.” Con la poesia metti a nudo anche la tua fragilità ed è importante che si manifesti questa fragilità in un mondo che vorrebbe il superuomo super-produttivo e super-efficiente. Bisogna invece imparare a guardarsi dentro, scrutarsi anche senza ritegno ed esplicitare quello che senti. Poi c’è anche la forma, specialmente se parliamo di poesia. Nella percezione di sé, nella conoscenza di sé stessi è fondamentale andare nei meandri della propria anima. Ciò è  molto terapeutico, oltre che un dono al mondo. Nel caso della scrittura non bisogna temere chi ti dona sé stesso attraverso la poesia. La poesia salva la vita, almeno a me ha salvato la vita tante volte.

 

Gloria: nel rapporto con gli altri che cosa determina l’atto creativo

Alberto Figliolia: gli altri sono “costretti a fruirne”… Per esempio, non solo i lettori che magari non mi conoscono, ma anche nelle relazioni coi miei amici la scrittura è importante, per me è un mezzo. Infatti anche con i social mando poesie. Poi gli amici apprezzano, quindi diventa uno scambio proficuo. Il lavoro poetico non è più solo mio, ma anche di chi lo legge. È chiaro, ribadisco tuttavia, che io legga più di quanto scriva e legga più poesie di quante ne scriva, per cui non mi occupo solo della mia poesia in maniera solipsistica o per affermare il mio io. Mi piace molto collaborare con altri, ho scritto libri a quattro mani, ho scritto prefazioni. Si stabilisce un universo di relazioni che aiuta la creatività reciproca. A volte non riesco neanche a fare tutto quello che vorrei. Ma va bene così, meglio avere tanto da fare che non avere nulla da fare.

 

Asia: è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Alberto Figliolia: sicuramente sì, è inutile negarlo. Io scrivo perché è la mia modalità d’espressione, con cui cerco di mettere ordine nel caos del (mio) mondo. Poi è gratificante il fatto che ciò che scrivi possa piacere o essere d’aiuto agli altri. Questo è un rimando che non ti lascia di certo indifferente, anche se poi non è quello il motivo per cui si scrive, perché io scriverei comunque. Guido Morselli, un grande autore del secolo scorso, morto suicida, è stato pubblicato tutto dall’Adelphi, ma in vita non l’aveva pubblicato nessuno. Un genio incompreso in vita, eppure ha continuato a scrivere nonostante l’incomprensione. Forse, se avessero pubblicato prima le sue opere, non si sarebbe suicidato. Questo è un esempio lampante di come anche il riconoscimento esterno possa essere utile a chi è creativo.

 

Gloria: chi sono i suoi principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Alberto Figliolia: io credo che la poesia sia fruibile da tutti. È chiaro che non è un prodotto da laboratorio, anche se dietro c’è tanto studio. Deve colpirti e l’impatto emozionale è importante. Quindi nel mio “presunto”/potenziale pubblico ci sono lettori molto variegati.  Io credo che la poesia sia un fenomeno molto democratico. A me è capitato di fare anche molto il “poeta di strada”, a contatto con gente sconosciuta che si fermava e a cui leggevo una poesia. Poi non è detto che comprasse il libro, ma intanto si era stabilito un nesso. Quindi chiunque può fruire della poesia, è questione di buona volontà, di apertura del cuore e di non avere pregiudizi nella testa. La poesia per questo motivo sfonda le porte.

 

Asia: quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Alberto Figliolia: essendo un fanatico dei libri per me aprire un libro, sfogliarlo, annusarlo è già un atto creativo, così come prendere appunti e pensare a mille progetti. Se dovessi indicare un’immagine direi la carta e la penna che trascrive le parole. È vero anche che la poesia si può serbare nella mente, ma la scrittura permette di fissarla e renderla disponibile a tutti.

 

Gloria: pensa che possa esistere una relazione tra depressione e creatività?

Alberto Figliolia: secondo me sì. Io, quando ho avuto momenti di depressione, di scoraggiamento esistenziale, di spaesamento, ho sempre scritto e mi è sempre stato di giovamento. Poi non è detto che quello che scrivi sia sempre bello e magari dopo mesi o anni puoi buttare via, ma qualcosa può rimanere. Una conferma di ciò l’ho avuta nella mia esperienza di insegnante volontario in carcere. Il luogo in cui si scrive di più a mano è il carcere, anche perché emerge il bisogno di mettere sulla carta i propri pensieri, ponendosi in relazione con gli altri, pur in situazioni anche molto frustranti dal punto di vista esistenziale. Certo, la vita è un’altalena, ci sono alti e bassi, quindi a volte si scrive anche in condizioni di moderata felicità. Nonostante ciò, nel mio caso, la frustrazione, la malinconia, lo spaesamento mi portano ad essere anche più creativo. E ogni tanto è bello essere spaesati perché si vedono le cose in un’ottica diversa… Io dico sempre che i visionari sono i meglio informati dei fatti, mentre il pragmatismo rischia di rovinare il mondo.

 

Asia: quando un prodotto creativo è davvero concluso?

Alberto Figliolia: forse mai, a parte probabilmente la Divina Commedia, l’Iliade, l’Odissea… Anche Manzoni ha riscritto I promessi sposi. Anche Il giocatore di Dostoevskij ha delle piccole discrasie, però è egualmente un capolavoro.  Prendendo in mano un mio vecchio libro mi capita di pensare che alcune cose le scriverei diversamente. Bisogna essere aperti anche questo panorama di possibile mutamento.

 

Gloria: pensa che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Alberto Figliolia: sicuramente sì. Non esisterebbe letteratura, se non fosse così. Io credo, soprattutto nel caso della poesia, che l’autore non debba mai essere svincolato dalla lettura del mondo. Deve intervenire nel mondo, tant’è vero che i poeti sono spesso temutissimi dal potere e sovente esiliati o condannati a morte. A me è capitato di partecipare ad un’antologia di poesie per Giulio Regeni, dove sono intervenuti decine di poeti, perché il poeta non solo ha il diritto, ma il dovere di intervenire nelle cose del mondo. Il poeta non si occupa solo di filosofia, metafisica, destini del mondo, e non è perso in universi di simboli. Quindi la relazione e la funzione sociale della poesia sono imprescindibili.

 

Asia: la creatività è un dono naturale, privilegio di pochi, o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Alberto Figliolia: credo che ci sia di base, come detto, un talento e che questo vada “allenato” con continuità e costanza. Non è detto che tutti debbano per forza scrivere un romanzo o delle poesie. Anche un professore che ama la poesia e ne parla ai suoi allievi, pur non scrivendo poesie, sta comunque facendo qualcosa di creativo. Io spesso sono andato nelle scuole a tenere laboratori di haiku o a leggere poesie e parlare di scrittura. Tanti docenti non scrivevano, eppure aiutando gli allievi a costruire relazioni e conoscenze, stavano facendo qualcosa di creativo. Sicuramente c’è un talento, che in ogni caso deve essere coltivato. I miei genitori non leggevano molto, io invece ho sempre amato i libri – e loro comunque mi hanno assecondato e agevolato in questa mia passione, ciò di cui gli do con riconoscenza ampio merito, Credo quindi di avere avuto dentro di me, sin dall’incipit della mia vita, questa scintilla. Ciò che mi è servito è stato continuare a leggere e cimentarmi con il passare degli anni, passando anche attraverso il fallimento. Attraverso i tentativi e le prove il proprio talento può affinarsi e iniziare ad essere di sostengo agli altri, essere un dono per tutti.

 

Gloria: la creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Alberto Figliolia: se si pensa che il bambino è padre dell’adulto e che dobbiamo sempre coltivare il fanciullino che è in noi è chiaro che bisogna agire soprattutto nelle scuole e alla più tenera età. I bambini, ad esempio, scrivono degli haiku bellissimi perché sono spontanei e hanno il dono della meraviglia. Anche per le persone detenute la scrittura, con quel continuo scavo dentro di sé, consente di rimettersi in carreggiata, di re-instaurare un corretto percorso esistenziale, facendo i conti con il proprio vissuto, senza farsi facili sconti. Per essere più consapevoli. Anche elaborando quella che io chiamo “la sindrome della tripla R”: rabbia, rimpianto e rimorso; attraverso questa elaborazione si può ripristinare una nuova via verso un orizzonte più luminoso.  In questi anni in cui ho lavorato come volontario nelle carceri ho potuto notare che grazie alla scrittura è come se germinasse un nuovo individuo, che nasce da quello vecchio, ma dal meglio di quello vecchio.  Ogni anno nel Laboratorio del carcere riusciamo realizzare un Calendario poetico-fotografico, ma anche antologie monografiche collettive o personali. Qualche anno fa è stato pubblicato il libro di uno del nostro Laboratorio: “Nessuna pagina rimanga bianca”, con il cui titolo si voleva indicare che ogni giorno è una pagina bianca su cui possiamo scrivere, se si ha consapevolezza. Senza questa, infatti, si scrive sul niente, si è semplicemente una vittima dell’ignoranza, di un contesto degradato. La scrittura riesce ad elevarti e a portarti in un’altra dimensione vitale ed esistenziale, che ti permette di capire le ragioni degli altri, anche di coloro a cui prima magari hai fatto del male. Sono sempre più convinto che la scrittura, ma soprattutto la lettura, siano un grande dono che si può fare a sé stessi e agli altri.

Intervista ed elaborazione di 
Asia Olivo e Gloria Marchesi

Alberto Figliolia: PoesiePubblicazioni Alberinube – Facebook

Interviste sulla creatività

 

Renato Converso

Renato Converso – Intervista sulla creatività

Renato Converso nasce in Calabria, da una famiglia di umili origini ed è il terzo di undici fratelli. A 17 anni va via di casa e sale su un treno per Milano. Per la prima settimana dopo il suo arrivo nel capoluogo lombardo dorme alla stazione centrale, poi andrà a vivere per qualche tempo in via Padova con alcuni suoi amici calabresi. Nella sua fuga il comico rintraccia l’inizio della sua esperienza creativa che, come lui stesso racconta, è animata dal bisogno vitale di far ridere il suo Io bambino; e così comincia a fare battute durante i suoi primi lavori di lavapiatti nei ristoranti e nei cantieri. L’ilarità che suscita nei colleghi gli procura un’intensa soddisfazione. Intorno ai 30 anni fa un provino presso un locale di Milano in cui sono nati comici italiani importanti e ottiene grande successo. In un secondo momento apre un proprio locale a Porta Genova, La Corte dei Miracoli Cabaret, in cui rimane per 35 anni vedendo crescere il proprio successo. 

 

Elisabetta: che cos’è per te la creatività?

Renato Converso: la creatività è figlia legittima del dolore e della sofferenza. Il genio comico di molti artisti del nostro Paese nasce proprio da una situazione di sofferenza. Pensiamo a Totò, figlio di un nobile che fece l’amore in una notte d’inverno con una donna di umili origini. Venne riconosciuto dal padre quando ormai era già un comico di successo. Questo è un esempio che conferma il concetto detto prima, ovvero che la creatività nasce da un contesto di estrema sofferenza, in questo caso l’iniziale mancato riconoscimento da parte del padre. 

L’obiettivo del comico non è quello di far ridere soltanto il pubblico, aspetto già di per sé molto importante, ma anche quello di far ridere se stesso o meglio, il suo Io bambino, per risarcirlo di tutti gli anni di dolore che ha subito durante la prima infanzia e adolescenza. Ed è quello che è successo nella mia esperienza: la comicità è stata per me una via d’uscita da una situazione drammatica. 

Corri Renà! Corri! Figli di terra rossa

Un altro aspetto importante della creatività è che essa crea la risata, questa antichissima ricetta per il mantenimento della salute, la quale fornisce soddisfazione e allegria. Ogni battuta detta in teatro, su un palco, crea ilarità ed induce il pubblico a vivere uno stato d’animo nuovo. Come affermano alcuni, questo stato d’animo nuovo è effimero e svanisce in un arco temporale breve, ma secondo me l’importante è proprio il fatto che il pubblico, una volta uscito dal teatro, riesca a percepire, anche per poche ore, una sorta di leggerezza positiva.

Ovviamente poi bisogna fare anche una distinzione tra la creatività positiva e quella distruttiva, la quale provoca grande dolore. Pensiamo ad esempio al contesto della guerra in cui, un genio creativo, crea una bomba che, se innescata, è in grado di uccidere centinaia di persone. Questa è la creatività distruttiva. Penso invece che la creatività che caratterizza noi comici sia sempre da considerarsi non nociva, in quanto permette di provare un’emozione positiva, sia al pubblico, sia al comico stesso. 

A prova del fatto che la creatività nasce da un contesto di sofferenza, vorrei riportare un episodio che accadeva spesso durante la mia infanzia. La mia famiglia viveva in condizioni economiche disagiate e, quando a pranzo chiedevo a mia mamma un po’ di formaggio grattugiato da mettere sulla pasta, lei mi costringeva dolcemente a guardarla negli occhi, prendeva un tovagliolo, faceva finta di tirare fuori da esso un po’ di formaggio, lo metteva sul mio piatto e io ridendo dicevo “Va bene così mamma, basta, grazie”. Questo piccolo gesto banale, anche nella sofferenza, faceva ridere me e i miei fratelli. Mia mamma era una persona molto creativa, e fin da piccolo cercavo di scoprire da dove nascesse il suo essere creativa nonostante la sofferenza provata.

 

Gloria: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Renato Converso: come detto prima, sicuramente l’ingrediente principale è una condizione di sofferenza. Infatti, una persona che non prova dolore nella propria vita ed ottiene tutto ciò che vuole, non ha alcun tipo di interesse e necessità nel creare un qualcosa di nuovo come un prodotto creativo. 

La creatività, oltre ad essere qualcosa che nasce in condizioni dolorose, è anche uno strumento che permette di superare le difficoltà. Per esempio la mia vena creativa si esprime anche nella capacità di suonare cinque strumenti musicali alla volta. Grazie al mio lavoro ho visitato molti stati del mondo e, nei momenti di difficoltà, ho sempre ripensato alla mia infanzia ed adolescenza travagliata ed a questa mia capacità creativa di suonare cinque strumenti alla volta. Questi pensieri mi hanno dato la forza straordinaria per affrontare anche i momenti più complicati.  

 

Elisabetta: cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Renato Converso: penso che una delle condizioni per lo sviluppo della creatività sia la guida di una persona che ha già conoscenze in campo comico. Io stesso sono stato un mentore per giovani che adesso sono personaggi di successo, come Pucci e Baz, Mister Forest, Max Pisu. Mi sento orgoglioso del fatto che dalla pedana della Corte dei miracoli sono nati artisti come I Fichi d’india, Flavio Oreglio, Marina Massironi e Giacomo Poretti, Nando Timoteo, Max Pieriboni, Scintilla Fubelli, Gianluca Impastato, Carletto Bianchessi e Marco Bazzoni Baz, il mago Elias, Duilio Martina e molti altri ancora. 

Un altro ingrediente che aiuta, che può sembrare banale ma non lo è, sono le uscite e le cene con gli amici comici. Infatti, è nei momenti in cui si parla del più e del meno e degli accadimenti più recenti che nascono le battute. Oppure la mia vena creativa trova espressione anche nei momenti in cui cammino per strada, incontro la gente che mi segue nei miei spettacoli e, per farla ridere, penso a battute nuove legate a ciò che sto vivendo in quel contesto. 

Gloria: che conseguenza ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Renato Converso: durante la produzione creativa avverto sempre tanta tensione perché è un processo che, volente o nolente, mi riconnette sempre con le mie esperienze passate.  Una volta concluso lo spettacolo invece, percepisco una grande soddisfazione per quello che ho creato, seguita da un vuoto fortissimo che però considero positivo perché deriva proprio dalla gratificazione precedente. È questo vuoto che, connesso al ricordo di aver provato una sensazione di piacevole soddisfazione, mi spinge a far ripartire da capo il processo creativo.

 

 


Elisabetta
: che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso?

Renato Converso: sicuramente vedere un prodotto creativo realizzato e portato a termine solo con le mie conoscenze e la mia forza è estremamente gratificante. Ho sempre scritto i miei testi e dialoghi da solo, come il libro che ho appena pubblicato, e quando la gente mi fa i complimenti e ride alle mie battute è molto gratificante perché mi rendo conto di quello che sono in grado di creare. Inoltre, come ho accennato precedentemente, la creatività mi permette di mettermi in contatto con una parte dolorosa della mia vita e consente, un’elaborazione emotiva del mio passato anche dopo anni. Complessivamente posso dire che, quando creo, provo una sorta di amore verso me stesso. 

 

Gloria: nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo che cosa determina?

Renato Converso: è una specie di patologia seria, non posso fare a meno degli altri. Tutti sanno che nella vita non ho saputo fare di meglio che far ridere gli altri, quindi quando dici una cosa seria e drammatica devi inserire sempre un tocco di ilarità. E’ bello sentire l’altro ridere, emozionarsi. Mi dà sollievo e mi fa stare bene il rapporto con gli altri.

Cuore di Pane – Renato Converso

 

Elisabetta: quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Renato Converso: è tutto. E’ importantissimo che la gente rida quando si apre il sipario. Gli autori comici hanno sete della risata. Ti senti appagato e soddisfatto. Poi quando finisce la commedia molte persone stanno fuori ad aspettare che tu esca per farti qualche domanda abbracciarti, darti la mano, qualcuno che si è emozionato; è una cosa bellissima.

 

Gloria: chi sono i principali fruitori del tuo prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Renato Converso: nella mia esperienza alla Corte dei Miracoli, capitava venisse gente, coppie che prima dello spettacolo avevano litigato: alla fine mi scrivevano “abbiamo fatto pace grazie a te”. Oppure, faccio un esempio: io feci uno spettacolo al carcere di Opera con il dottor Aparo ed è successo che i detenuti fossero così divertiti e ridevano così tanto insieme agli operatori e ai poliziotti del carcere che si era creata un’unica grande famiglia. Per un momento gli ho fatto scordare che fossero in carcere. Io ero in un lago di sudore, sono sceso in mezzo a loro e molti mi hanno abbracciato anche se ero impresentabile. E’ importante per me quanto per loro, è uno scambio di emozioni alla pari. La creatività nasce dal dolore, ma riesce a far dimenticare la condizione di dolore durante lo spettacolo.


Locandina di Adriano AvanziniIl convegno nel carcere di Opera

 

Elisabetta: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Renato Converso: qualche scena di Totò, è il mio punto di riferimento artistico. Mi fa ridere e commuovere. Mi ispiro molto, per quello che riguarda la comicità, a Totò.

 

Gloria: credi che esista una relazione tra la depressione e la creatività?

Renato Converso: è una bella domanda che si scontra con la mia quinta elementare che non mi permette di rispondere bene. Io ho avuto un’esperienza di depressione, ma non ha avuto attinenza col mio lavoro. 

 

Elisabetta: quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Renato Converso: un prodotto creativo è concluso quando hai finito di scriverlo. Poi ti domandi cosa succederà dopo esserti esibito. Le reazioni del pubblico a fine spettacolo, quando poi torno a casa e mi corico sul letto e con gli occhi aperti fisso il soffitto e mi chiedo “è andata bene? è andata come mi aspettavo?”.

 

Gloria: pensi che la creatività possa avere una funzione sociale se sì quale?

Renato Converso: la creatività nel sociale è importantissima. Ho fatto tanti spettacoli per Emergency. Il pubblico fa donazioni agli spettacoli per aiutare. Offrire la comicità per ottenere la solidarietà. 

 

Elisabetta: la creatività è un dono naturale, privilegio di pochi o è una competenza accessibile a tutti che può essere allenata?

Renato Converso: può darsi che sia una cosa che riguarda un po’ tutti. Ma penso che la creatività venga sviluppata solo attraverso il dolore. E’ figlia legittima del dolore, in modo particolare per quanto riguarda i comici.

 

Gloria: la creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Renato Converso: la creatività mi ha salvato la vita, essendo nato in un contesto disagiato. Se non fosse stato per la creatività magari a quest’ora sarei un delinquente.

Intervista ed elaborazione di
Elisabetta Vanzini e Gloria Marchesi

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