Sotto il carro ponte

Il corridoio divenne lunghissimo, quel minuto durò un’ora.
Finalmente al bivio, “Posso, non posso”; “Voglio, non voglio”. L’aria è libera sul mio volto paonazzo. Mi incammino verso la meta, assaporo la semplicità, sono un uomo che ama vivere e finalmente l’ho capito…

Sono immerso nel verde, alzo gli occhi al cielo e i pappagalli colorano per incanto la mia fantasia. Respiro a pieni polmoni, riesco a socializzare con me stesso, non sono più solo! Siamo una grande famiglia: l’albero, la fontana, il tram, il pullman, la panchina, il fiumiciattolo, i palazzi, il cielo, le zanzare… ah sì, le zanzare… purtroppo anche loro sono parte della grande famiglia… assieme a noi…

Che bello camminare sotto il sole lavorando su me stesso, “assopito dai pensieri”. Due giorni, due interi giorni: che meraviglia nutrirmi degli sguardi di chi non conosce il passato… Sono stato zio, fratello, figlio, amico, e sono stato Giove: ho diviso la mia persona, cercando di non far mancare la mia attenzione all’affetto e allo scopo…

Ad un certo punto volevo tapparmi le orecchie, chiudere gli occhi e risvegliarmi nel letto di ferro, ma quando avevo questo desiderio puntualmente un viso appariva davanti ai miei occhi, spronandomi… come se lui riuscisse a capire quando il frastuono arrivava nella mia testa…

Ho cercato di tenere ben presente lo scopo, il bivio “posso, non posso”, “voglio, non voglio”. Avrei potuto dire “non posso farlo, mai riuscirò a far capire dei concetti”, potevo dire “non voglio farlo” … Invece, io volevo a tutti i costi immergermi nell’impegno e sentivo di potere raggiungere il nostro scopo, il mio scopo…

Il masso è stato spinto sempre più avanti e adesso non torna più giù, ma quanta fatica… zanzare, sole e caldo, ma la voglia di superarci ci ha permesso di vincere.

Lo dimostra il fatto che ho rapinato un vecchio al Parco delle Memorie Industriali, ho cercato di ucciderlo ma il vecchio mi ha spaccato la faccia. E nonostante la faccia mi facesse veramente male, ho terminato lo spettacolo…

Ho visto ciò che il mio cuore voleva vedere: ho visto Simone lavorare con noi come se il gruppo fosse già dentro di lui. Sono rimasto stupefatto, è vero che io ho gridato, come è vero che anche Simone ha gridato tutto il tempo e a me le sue urla mi sfondavano la testa, infastidendomi. Solo uno ha raccolto le nostre grida e io ne sono fiero, grazie Prof. …

Poi, per incanto tutto tace. il cielo diventa nero, la notte cala su questa grande famiglia. Ritorno alla realtà, il corridoio è diventato piccolissimo e in un attimo sono alla cella n°5 e ripercorro questi due incantevoli giorni…

Marcello Cicconi

Al Parco delle Memorie IndustrialiFoto della giornata

Creare una comunità educante [“Porta una sedia”]

“Er disse che valeva la pena di vedere lo spettacolo delle singole anime intente a scegliere la propria vita”

[Platone, Repubblica, X, 619e-620a]

Milano, Parco delle memorie industriali – 14 luglio 2021

Porta una sedia” è un invito che comprende dentro di sé molte altre cose.

E’, prima di tutto, una rivelazione: il rendersi conto che qualcosa davvero manca e che pertanto, in certi momenti della propria vita, diventa imprescindibile alzarsi e (ri)mettersi in cammino.

E’ l’idea che se la strada non c’è, la si può fare camminando.

E’ la riprova che ciascuno non basta davvero a se stesso e che la differenza tra crescere e buttarsi via – a rigirarsi indietro alla fine di un tratto di strada – è solamente una questione di incontri fatti durante quel cammino.

Per questo l’esperimento di mercoledì sera è sembrato (a me ed anche alla mia sedia modello kintsugi) straordinariamente indicativo di un nuovo possibile sviluppo creativo del Gruppo della Trasgressione, dopo l’iniziale uscita dalle mura del carcere (ricordo ancora di aver regalato a Juri – credo ormai quasi 15 anni fa – una copia della Repubblica di Platone, dopo che quello a cui assistetti durante un incontro nel “sottosuolo di San Vittore” mi richiamò plasticamente alla mente il Mito della Caverna) e la feconda contaminazione di molte aule scolastiche nel corso degli ultimi anni.

Ed in effetti, a riassumere in poche parole l’essenza profonda che caratterizza ciascuno degli incontri del Gruppo, mi torna sempre in mente l’efficace frase del suo animatore secondo il quale “la riflessione è un lusso che non sempre l’essere umano si vuole concedere”.

Le daimon de Socrate [Anonimo, 1129]

Eppure di questi momenti di riflessione, oggi, ne abbiamo sempre più bisogno: e in ogni quartiere! Perché nel giardino del nostro esistere, e nelle relazioni sociali che ne scaturiscono, c’è bisogno di qualcun-altro-da-noi che ci riporti al nostro daimon, che ci aiuti a mettere a fuoco l’immagine che siamo chiamati a vivere in questo mondo. L’immagine – continua Platone sempre nella Repubblica – che non ci è capitata in sorte ma che è stata scelta dalla nostra anima, anche se (per ricordarsi di tale scelta) essa, lungo tutto il corso della vita, ha bisogno di una sorta di “spirito guida”.

Ecco, dunque, il momento sembra davvero propizio per immaginare – d’intesa con le Istituzioni territoriali – un luogo di incontro che possa, come logica conseguenza, generare occasioni di incontri con/per chi si trova “di passaggio”. Perché, lo ripeto anche qui…. a me piacerebbe che i miei figli un giorno, su una di quelle panchine del Parco delle memorie industriali, trovassero – al posto del niente (per non dire altro di ancora più pericoloso) – un Roberto o una Elisabetta che, meglio di quanto possa fare un padre o una madre, con il racconto della storia che li ha portati fino a quel punto diventino nutrimento di crescita per le giovani generazioni, sempre più spesso lasciate invece sole al loro destino.

Divina Commedia di Dante Alighieri per bambini [Mandragora, 2017]

Del resto sono fermamente convinto che Platone – di passaggio a Milano, nell’accostarsi a questo cerchio di sedie che a me ricorda sempre una agorà ma che potrebbe anche assumere la forma di una comunità educante – approverebbe tale innovativa forma di metempsicosi: un “trasferimento di anime” (e di esperienze vissute) rivoluzionario in quanto presupponente pur sempre un rimanere in vita, dove però la scelta del gesto creativo – così come la vera essenza del Gruppo della Trasgressione – rimane ugualmente fedele al Mito di Er (e pertanto tale scelta mantiene il significato di prendere possesso criticamente del proprio passato per migliorare il presente: il nostro così come quello delle persone che ci siedono accanto).

Il mondo vuole sorridermi

Il mondo vuole sorridermi
io non voglio sorridergli…
cercavo la libertà, ma ora che l’ho conquistata
capisco che non la desidero

ciò che voglio è non capire…
vorrei non essere padrone della ragione,
vorrei chiudere gli occhi per non riaprirli…

mi accorgo di essere solo,
sì, solo adesso riesco a vedere ciò che mi circonda…
ho paura di vivere in un mondo non più mio,
che accoglierà questa vecchia carcassa,
questo orologio arrugginito
che è rimasto fermo sempre sulle due…

il mondo vuole sorridermi
io non voglio sorridergli…

cosa so io di libertà?
cosa so io di rapporti con l’essere umano scalzo?

Sono un tubetto di dentifricio vuoto,
sono un foglio accartocciato
che rotola lungo un corridoio desolato…
sono un insieme di ossa che vagano
sotto un cielo stellato che l’occhio non vede…
sono un’anima oramai priva di identità
che rincorre una veste che potrebbe scaldare il mio corpo…

cercavo la libertà, ma ora che l’ho conquistata
capisco che non la desidero
era una speranza alla quale aggrapparmi,
un traguardo da raggiungere per rimanere vivo…
non è ciò che voglio, ciò che voglio è imparare ad amarmi.

Oggi mi guardo allo specchio e non trovo quel ragazzo luccicante,
adesso c’è un uomo con gli occhi vuoti,
ho paura a guardarlo…
sono finalmente libero e ho paura, ho paura…

il mondo mi sorride e io tento di contraccambiare
con un sorriso triste di circostanze opprimenti…
nella testa ho mille esplosioni,
il corpo si muove per abitudine…
sono libero, finalmente libero,
ma io non voglio questo,
poi, dopo un secondo sono felice,
faccio un sorrisone al mondo
e il mondo s’incupisce, non sorride,
torno alla confusione…

cammino per le strade con occhi bassi, sento gracchiare,
scruto in lontananza il pennuto corvo ormai grigio,
lo raggiungo, m’inginocchio a lui
parlando di paure e frustrazioni incomprensibili…
con le zampette prende la rincorsa e vola,
alzo gli occhi scrutando il volo arrogante di un amico indifferente,
sudo freddo, ho le palpitazioni…

apro gli occhi accorgendomi che un sogno illumina
un orologio puntato sulle due…
sono libero e non ci sono corvi o margherite
che crescono in mezzo al cemento,
non trovo più le rose che avvolgono il mio corpo
come tra le spire di un serpente,
non c’è più l’odore acre delle grate arrugginite
che perforano le mie narici,
non ci sono più i demoni che facevano burle alla solitudine…
tutto questo adesso non c’è più,
e… cosa mi è rimasto?

Lo so io cosa mi è rimasto…
Un sorriso anziano intrappolato
tra le corde di un violino che suona una melodia lontana.
Mi è rimasto un pugno di poesie che narrano la storia del bimbo uomo tramutato in un giovane anziano…

Questo è ciò che mi rimane,
un viaggio a ritroso con i volti dei partecipanti,
le loro voci, i loro occhi, gli abbracci mai dati…
il mondo mi sorride e io cosa devo fare?
Gli sorrido o no?
Apro gli occhi e sono ancora le due.

Marcello Cicconi

Poesie

I nostri figli con gli agenti

Sulla scia del progetto “Genitorialità responsabile”, abbiamo parlato al gruppo anche della figura dell’agente penitenziario. La nostra esperienza dice che l’agente penitenziario, agli occhi di molti dei nostri figli, rappresenta la negazione della libertà dei genitori. Poco conta per i nostri ragazzi (e, bisogna ammettere, anche nella nostra visione di qualche anno fa) che l’agente in carcere faccia semplicemente il lavoro grazie al quale provvede al suo sostentamento e col quale è chiamato a svolgere una funzione importante per la società.

L’argomento è spinoso e delicato, ma in un cammino di riflessione e di introspezione ci è parso importante affrontarlo perché riteniamo di non dover lasciare zone d’ombra che potrebbero indurre i nostri figli a sviluppare un’immagine distorta della realtà.

Inoltre, non è difficile pensare che, specie quando si cresce in un ambiente ostile e con un’educazione segnata da un genitore che non ha onorato le proprie responsabilità, i figli possono giungere a vedere nella divisa il carnefice del proprio padre detenuto.

A questo contribuiscono tante cose, fra cui il modo in cui noi negli anni passati abbiamo descritto il nostro rapporto con le figure istituzionali e i modi, non sempre attenti ai sentimenti dei ragazzi, di applicare i controlli e le perquisizioni per i familiari all’ingresso. A volte, infatti, i congiunti dei detenuti devono sottoporsi a ispezioni che, in menti fragili e già problematizzate dai conflitti che gli adolescenti vivono con i propri stessi genitori, inducono i ragazzi a sviluppare una forte ostilità verso le istituzioni e a dimenticare che le istituzioni svolgono fondamentalmente la funzione di proteggerci.

Dopo aver constatato, con i tanti incontri con il Gruppo della Trasgressione, che la conoscenza abbatte i muri, proponiamo che un nostro figlio possa entrare in contatto in maniera diversa dal solito con la figura dell’agente. Un modo potrebbe consistere nel coinvolgimento degli agenti penitenziari in qualcuna delle attività del Gruppo della Trasgressione, come ad esempio: gruppi di formazione, testimonianze, partite di calcio ed eventi culturali.

Crediamo che tale progetto sia determinante per favorire un cambiamento progressivo della visione distorta della realtà che può avere un figlio col padre o con la madre in carcere.

L’iniziativa non ha assolutamente lo scopo di influenzare o di interferire con il lavoro degli agenti penitenziari e ci sembra anzi che la nostra proposta sia allineata con gli obiettivi dell’istituzione e delle figure che ci lavorano.

Giorgio Ciavarella

Genitori e Figli

Giusi Fasano

Giusi Fasano – Intervista sulla creatività

Giusi Fasano è scrittrice e giornalista. Lavora per il Corriere della Sera dal 1989, occupandosi principalmente di cronaca nera e giudiziaria. Nel suo lavoro applica la creatività nella ricerca delle parole per trasmettere al meglio i fatti di cui scrive.

 

Elisabetta: Cos’è per lei la creatività?

Giusi Fasano: Ho imparato nel tempo che la creatività è come la fame: viene mangiando. Nel mio caso personale, la creatività è imparare a utilizzare le parole e il linguaggio, facendo tesoro sia della quotidianità sia dell’emotività. La creatività aiuta l’empatia e la comprensione delle cose, così come le parole giuste: noi siamo parole, i fatti sono parole e la capacità di trasporre l’emotività nelle parole è creatività.

 

Anita: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Giusi Fasano: Nel processo creativo in generale gli ingredienti sono legati a ciò che tu puoi attingere dalla vita per quello che fai. Per esempio, se tu sei una persona che nella vita è sempre stata in contatto con il dolore dei bambini in ospedale, come può essere un pediatra oncologico, il processo creativo potrebbe prendere spunto dal bisogno che gli altri hanno di stare meglio, quindi, in questo caso, il medico potrebbe travestirsi da clown per far si che un bambino prenda con più leggerezza una medicina.

Per me personalmente il processo creativo riguarda l’utilizzo e la mescolanza delle parole; riguarda anche il modo particolare di raccontare tutto l’insieme, costruendo un percorso di lettura per chi leggerà. Credo siano molteplici i fattori che contribuiscono al processo creativo: dall’esperienza passata all’emotività di un momento preciso, dal rapporto con gli altri alla capacità di cercare strade alternative.

 

Elisabetta: Cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

Giusi Fasano: A volte mi capita di non sentirmi in grado di trasmettere agli altri quello che le persone di cui devo scrivere mi raccontano e, quando mi succede, m’incazzo. Questa mia incapacità di farmi portatore del messaggio mi induce ad avviare un processo che diventa creatività. Informarsi e cercare di approfondire il più possibile le cose dà luogo a un processo che ti permette di costruire un articolo partendo da un dettaglio. Questa ricerca, quindi, permette a me di sviluppare la mia creatività. Le condizioni, nel mio caso di giornalista, dipendono dal desiderio di essere il più possibile comprensibili, empatici e capaci di riprodurre il  pensiero altrui.

 

Anita: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e il suo stato d’animo la produzione creativa?

Giusi Fasano: Conseguenze benefiche. Se creatività è lavorazione del pensiero che tu vuoi trasmettere, lavorazione delle parole e lavorazione anche dei pezzetti di vita o di cose che stai facendo per poter convivere con gli altri, se creatività è tutto questo, allora è benefico ed è salvifico avere la possibilità di incamerare pensieri e, in qualche modo, plasmarli per poterli fare tuoi e per poterli trasmettere agli altri. Io non credo ci sia un’accezione negativa della parola creatività, a meno che per creatività non s’intenda la creatività di un sadico nell’uccidere una persona.

 

Elisabetta: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di se stessa?

Giusi Fasano: Nel mio caso personale, l’atto creativo ha un’incidenza relativa perché io non riesco ad essere molto compiaciuta di quello che faccio. Per carattere, io sono una persona piena di dubbi, sempre disposta a rivedere le cose e, quindi, l’auto-esaltazione per un processo creativo non è una cosa che mi appartiene. Sono in grado di capire bene quando una cosa che ho fatto ha un valore, ma non riesco a gioirne pienamente.

 

Anita: Nel rapporto con gli altri il suo atto creativo cosa determina?

Giusi Fasano: Essere singolari, essere unici: ognuno di noi può scegliere di essere banale, di seguire un flusso, di accodarsi a qualcosa oppure di essere particolare e di cercare un modo che caratterizzi se stesso per la persona che si è. Secondo me, le persone uniche si riconoscono sempre perché hanno sicuramente della creatività nel loro modo di fare.

 

Elisabetta: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Giusi Fasano: Tutto quello che noi facciamo rispetto al mondo e agli altri lo facciamo perché gli altri riconoscano in noi il nostro modo di essere e che approvino, chi più e chi meno, il nostro modo di fare e il nostro comportamento. Io credo che senza gli altri non avvieremmo gran parte dei nostri processi creativi, perché non avremmo nessuno a cui mostrarli. L’accettazione e l’approvazione degli altri sono una grande spinta per il processo creativo. Al di fuori del bisogno del consenso altrui rimane quella piccola parte che facciamo per noi, che è uno spazietto che ci ricaviamo per crescere con noi stessi.

 

Anita: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Giusi Fasano: Direi che le prime persone che beneficiano del prodotto creativo sono gli autori stessi. Io penso che l’esplosione della creatività nella vita sia anche legata all’età: i giovani sono dei fruitori assoluti del loro prodotto creativo. Lo scoprire di avere un talento creativo durante l’età adolescenziale o nei primi anni da adulti è un’esplosione di sensi e di sensazioni che dura a lungo, che fa crescere e che aiuta l’orologio della vita a segnare delle ore precise, che possono ricordarti i diversi modi in cui sei cresciuto. Inoltre, credo che i fruitori del prodotto creativo siano anche quelle persone che hanno curiosità nella vita e anche coloro che sanno utilizzare il loro pensiero creativo applicandolo sia alla creazione manuale che alle cose di ogni giorno. Banalmente, la fruizione del prodotto creativo può andare da mio padre che s’inventa soluzioni creative per riparare gli oggetti in casa sino al grande scienziato che sperimenta qualcosa e si ritrova con l’invenzione del secolo.

 

Elisabetta: quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Giusi Fasano: di primo impatto mi viene in mente il film Ghost, in particolare la scena in cui la protagonista sta costruendo un vaso in argilla. Se penso alla creatività intesa come realizzazione di un prodotto creativo fisico, come per esempio un vaso, un quadro, un’opera di architettura, mi viene in mente qualcosa che si realizza sotto gli occhi dell’autore… ad esempio, gli artigiani che a Murano creano il vetro allungandolo, gonfiandolo e stringendolo.

Per quanto riguarda i prodotti della creatività intesa in senso astratto invece, come per esempio la scrittura di un libro, un articolo o un saggio, non mi viene in mente nessuna immagine che possa ben rappresentarla, in quanto è un processo molto più lento, che può durare per giorni, mesi o anni. Per esempio in questo periodo sto scrivendo un libro che è stato definito come un esperimento letterario creativo, e penso davvero lo sia, però, se penso a un’immagine che ben rappresenti la creatività, non mi viene in mente il mio libro e il pensiero che vi sto scrivendo, ma qualcosa di tangibile e concreto.

 

Anita: pensa che esista una relazione tra depressione e creatività?

Giusi Fasano: Semmai, io vedo un collegamento tra depressione e mancanza di creatività. Pensiamo ad una persona ipercreativa, come ad esempio Andy Warhol che io definisco a metà tra la sfera intellettuale e quella pratica o anche Monet. Secondo me, persone di questo tipo, nel momento in cui non riescono più a dipingere, a creare e a trasmettere il loro messaggio, risultano esposte a un abbassamento del livello della felicità, della soddisfazione e della voglia di vivere, con la conseguenza che possono addirittura sviluppare una  depressione. Se io oggi non riuscissi a scrivere più niente, se non avessi più un pensiero che mi soddisfacesse dal punto di vista della comunicazione, penso che probabilmente mi deprimerei. In questo senso non intendo dire che la depressione inibisce la creatività; dico piuttosto che la persona ipercreativa, con mille idee sempre innovative, credo sia difficile che possa deprimersi perché si fa forte di questa sua capacità di vedere il mondo in modo creativo. Al contrario, una persona che per mille ragioni non trova più l’ispirazione oppure non riesce a metterla in pratica, è pericolosamente esposta alla depressione proprio perché non si percepisce più come persona creativa.

 

Elisabetta: quando un prodotto creativo è per lei davvero concluso?

Giusi Fasano: un prodotto creativo si può considerare concluso quando l’autore si sente soddisfatto guardando ciò che ha creato, non ha importanza se lo è davvero o meno. Se il creativo percepisce che il suo prodotto creativo è concluso, è come se all’interno di esso non ci potesse più entrare nemmeno un grammo di creatività. Il tentativo di eccedere nella creatività, stimolarla ancora e ancora fino a portarla allo stremo, diventa distruttivo per la stessa creatività.

 

Anita: pensa che la creatività possa avere una funzione sociale, e se sì, quale?

Giusi Fasano: la creatività ha sicuramente una funzione sociale, più nello specifico rieducativa. Può essere utile per tutte quelle categorie fragili di persone che si trovano in difficoltà e che hanno bisogno di essere seguite nel loro percorso di vita. Se questi individui vengono esposti e stimolati alla creatività, sicuramente la creatività potrà restituire loro pezzi di vita perduti, pezzi di felicità dispersi o pezzi di sé.

 

Elisabetta: la creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Giusi Fasano: di base penso che la creatività sia un dono naturale. A conferma di ciò, penso ad alcune persone dotate di una creatività esplosiva come ad esempio Mozart che, a quattro anni, sapeva riconoscere se un musicista avesse prodotto una nota di un’ottava più alta o più bassa rispetto all’intera melodia. Ecco, in questo caso sicuramente la sua creatività era un dono innato. Nonostante sia un dono, è possibile anche coltivarla allenandosi continuamente ad esprimerla anche nelle attività quotidiane.

Questo però non vuol dire che l’accesso alla creatività regali automaticamente la capacità di metterla in pratica. Per esempio, se paragonassimo la creatività ad una stanza con le pareti piene di colori e di immagini, il semplice fatto che una persona abbia accesso alla stanza e riesca ad entrarci, non significa che automaticamente diventi in grado di produrre qualcosa di creativo. Tutto dipende dalla propensione, dalla curiosità e dalla personalità di un individuo.

Il fatto che la creatività sia accessibile a tutti può essere confermato anche dai risultati benefici provenienti dai laboratori creativi destinati alle persone con qualsiasi tipo di disabilità, fisica o mentale, grave o lieve che sia. Pur avendo delle evidenti difficoltà, se tali individui vengono stimolati alla creatività e vengono forniti loro gli strumenti necessari per sostituire le mancanze dovute alla condizione di disabilità, riescono anch’essi a produrre, a giocare e a vivere la loro vita in maniera creativa.

 

Anita: la creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Giusi Fasano: in entrambi i casi, sia a scuola che per il condannato, in quanto la creatività è da considerarsi tale a prescindere da chi la vive e la pratica. La funzione benefica che la creatività può ricoprire per un condannato nella sua cella o in un laboratorio all’interno del carcere è universale. È un risultato magnifico quello che si raggiunge quando si riesce a stimolare una persona e la si spinge a dare voce alla sua vena creativa, in quanto questo processo aggiunge automaticamente ricchezza alla nostra umanità e alla nostra specificità individuale. L’elemento importante, come detto prima, è la stimolazione alla creatività, la quale per un condannato o per un bambino con problemi di salute gravi può arrivare da parte degli educatori.

Sicuramente la stimolazione alla creatività potrebbe avere un ruolo fondamentale e benefico anche per gli adolescenti che nascono e crescono in quartieri disagiati o quelli in cui le attività della criminalità organizzata avvengono alla luce del giorno. Non ha importanza chi sia la persona in condizioni difficili, quanti anni abbia, quale ruolo ricopra o quale educazione abbia ricevuto. La creatività può, a prescindere, aiutarla.

Intervista ed elaborazione di
Anita Saccani e Elisabetta Vanzini

Giusi FasanoInterviste sulla creatività

Mio caro muro

Nonostante i miei limiti in materia, rimango affascinato ogni volta che leggo questa lirica. L’idea di un richiamo al passato governato dal presente mi ha dato modo di fermarmi a riflettere. Trovo sorprendente come si riesca a raccontare più cose nello stesso momento in cui vengono vissute.

Sono naufragato anch’io in questo e in tanti altri mari di pensieri e riflessioni e, andando avanti, questi
potrebbero essere infiniti…

Tra le tante riflessioni, una è stata I’idea che il passato, anche se passato, possa essere riorganizzato partendo dal presente… anche se nel mio caso, con in tasca un passato di gran lunga più pesante del futuro, il presente può a volte spaurire.

Andando avanti, ho pensato a come un ostacolo possa trasformarsi in un’opportunità e, nel caso di Leopardi, a un’infinità.

Questo mi ha avvicinato a Mohamed e alla sua presente situazione, con la mamma in ospedale e il dolore di non riuscire a ottenere l’autorizzazione per andare a trovarla senza la scorta armata. A Mohamed volevo dire di prendere questa chiusura (si spera temporanea) da parte delle figure istituzionali alla maturità che ha raggiunto come un’opportunità per dimostrare la sua forza e la sua capacità di rimanere in equilibrio.

Dare prova di quello che si può diventare è anche per me uno dei motivi che mi motivano a partecipare al gruppo della trasgressione. Vorrei mettermi in gioco e dimostrare che Giovanni non è solo quello che può emergere dal fascicolo ma è anche tanto altro. Se me ne sono reso conto io, potranno farlo le persone che mi auguro vogliano darmi l’opportunità di migliorarmi e valorizzare quello che sto diventando.

In tema di ostacoli, oggi il mio più grande è quello contro cui mi ritrovo a combattere ogni giorno, cioè IL MURO. L’arma di distruzione più potente al mondo perché, come ho letto da qualche parte e poi ho vissuto, il muro non è un’idea ma è proprio qualcosa che ti fa male senza nemmeno fisicamente toccarti.

E a proposito, caro bel muretto, voglio dirti che per me oggi tu sei come quella siepe sul colle di Recanati e mi auguro che continuerai ad esserlo fino a quando non ti avrò più davanti agli occhi!

Giovanni Oliverio

Officina creativa

Mettersi in gioco

Alice Gabriella Viola, Matricola: 831984
Psicologia Sociale, Economica e delle Decisioni
Tipo di attività: Stage esterno

Periodo: dal 12/04/2021 al 12/07/2021
Il Gruppo della Trasgressione, Mettersi in gioco

 

Caratteristiche generali dell’attività svolta (istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento):

Più di vent’anni fa, il dottor Angelo Aparo ha messo in piedi il Gruppo della Trasgressione, un’associazione costituita da detenuti, ex detenuti, studenti, parenti di vittime di mafia e comuni cittadini volta al sostegno e al confronto reciproco.

Il gruppo opera in ambito sociale, in particolare in quello carcerario, fornendo un appoggio, un’alternativa di presa di coscienza della quale fruiscono non solo i cittadini reclusi, ma anche quelli liberi.

E’ proprio il percorso di autoconsapevolezza a guidare il lavoro del gruppo: l’ascolto reciproco, la possibilità di esternare le proprie fragilità in un contesto non giudicante e di mutuo aiuto permette di far crescere il gruppo, ma soprattutto di crescere con il gruppo.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte:
Il Gruppo della Trasgressione non ha una struttura rigida, con ruoli e compiti severamente definiti; il suo punto di forza è lo scambio alla pari, è la possibilità di dare a tutti i membri la libertà di agire in modo creativo nel rispetto dell’altro.

La mancanza di rigidità, che certamente costituisce un metodo innovativo oltre che fruttifero, permette di immedesimarsi nell’altro con minor distacco e pregiudizio, di entrare in contatto con realtà diverse in un modo molto più diretto ed empatico.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati:
In questi tre mesi di tirocinio ho avuto la possibilità di partecipare attivamente alle attività del gruppo, sebbene l’attuale pandemia abbia limitato fortemente le occasioni di incontrarsi nella sede di via Sant’Abbondio, dove abitualmente il gruppo si riunisce per svolgere gli incontri settimanali.

Fortunatamente, la possibilità di svolgere gli incontri da remoto ha permesso al gruppo di portare avanti i suoi progetti.

Ogni Lunedì, il Gruppo della Trasgressione si riunisce per dare voce ad un dibattito su temi emersi a partire da un film che ciascun membro guarda per proprio conto durante la settimana. Il filo conduttore dei film proposti è il tema della banalità e complessità del male, utile nel far emergere da ognuno le proprie fragilità e generare un confronto costruttivo.

Il martedì, invece, gli incontri vertono su tematiche di varia natura, elicitate dal racconto di un membro, da un progetto in corso o semplicemente da un pensiero condiviso. In questo spazio, ciascuno mette a nudo una parte di sé, dandosi in questo modo nuove opportunità di lettura del proprio vissuto, grazie alla restituzione e al confronto con gli altri.

Il sabato, grazie alla Cooperativa Sociale, alcuni componenti del gruppo vendono “frutta e cultura” al mercato settimanale di viale Papiniano. In questo contesto, il gruppo interagisce con l’esterno e matura la responsabilità lavorativa sostenuta dal percorso parallelo di presa di coscienza. Questa attività, oltre a dare al gruppo una fonte di autosostentamento, costituisce una dimensione dove imparare a collaborare e a condividere responsabilità e soddisfazione.

L’ “officina creativa” è un altro progetto a cui ho potuto prendere parte durante questi tre mesi. Insieme ad altre studentesse tirocinanti, ho avuto modo di intervistare artisti e figure istituzionali riguardo al tema della creatività. L’obiettivo di tale progetto è quello di utilizzare proprio la creatività per prevenire la devianza, il bullismo e contrastare le dipendenze.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte:
Il dottor Aparo, coordinatore del gruppo, è il punto di riferimento per tutti i membri dell’associazione. Incentivando a mettersi in gioco, mi ha aiutata a comprendere il significato del lavoro di squadra, dell’importanza di dare oltre che di ricevere; con la sua costante presenza mi ha anche reso chiaro l’impegno e la dedizione necessari per svolgere il lavoro di psicologo, facendomi rivivere la passione con la quale ho intrapreso questo percorso di studi.

 

Conoscenze (generali, professionali, di processo, organizzative), abilità (tecniche, operative, trasversali) acquisite e caratteristiche personali sviluppate:
Entrare in contatto con questo tipo di realtà, fatta di verità e determinazione, è stato per me salvifico. Mettermi in gioco e in discussione è sicuramente ciò che più sento di aver appreso durante questi tre mesi: proprio grazie alla modalità con cui il Gruppo della Trasgressione è strutturato ed organizzato, ho imparato ad andare incontro all’ignoto, ad avere fiducia e soprattutto ad ascoltare.

 

Altre eventuali considerazioni personali:
Negli ultimi mesi, prima di intraprendere questa esperienza, avevo perso la fiducia nel cambiamento, non ero più motivata a continuare i miei studi perché la realtà in cui vivevo da qualche tempo non mi dava speranza sul fatto che le persone potessero cambiare.

Conoscere il Gruppo della Trasgressione mi ha fatto ritrovare l’entusiasmo e l’energia di andare avanti nel mio percorso, insegnandomi che il cammino verso il miglioramento è faticoso, ma possibile.

Mi sento dunque di dover ringraziare tutti i componenti del gruppo per avermi fatto ricordare, ognuno a modo suo, che nessuno si salva da solo.

Relazioni di tirocinio

Come fa a chiamarmi papà?

Un ricordo indelebile affiora nella mia mente: mia madre, quando mi raccontò il giorno della mia nascita, mi disse che mio padre era lì presente accanto a lei, felicissimo di prendermi in braccio e coccolarmi. Un ricordo che da una parte mi riempie di gioia, dall’altra mi rattrista tantissimo, catapultandomi nel presente.

Anno 2010, due mesi dopo il mio arresto la mia compagna diede alla luce mio figlio, un evento speciale, meraviglioso, unico… beh, a me è stato negato… per colpa mia. La cosa che mi ha procurato tanto dolore è che in quel preciso momento non potevo essere lì per gioire insieme alla mia compagna di nostro figlio. La sua nascita mi ha spalancato un mondo che non credevo esistesse, proprio come mi aveva detto mia madre a proposito di mio padre.

La prima volta che ho potuto vederlo, toccarlo, baciarlo, coccolarlo è stato dopo sei mesi dalla sua nascita. L’incontro fu straordinariamente bello, sembrava quasi stessi sognando, tanto forte era l’emozione, scoppiai in un fiume di lacrime che bagnarono il viso del piccolo. La gioia di prenderlo in braccio è stata fantastica, indimenticabile e ancora oggi quando la vivo, mi riporta al passato, a vivere ciò che ha vissuto mio padre. Sono consapevole che la relazione con mio figlio inizia con un distacco assordante, prolungato nel tempo per via della mia carcerazione.

Non vi è giorno che non pensi a lui e alle mie mancanze nei suoi confronti, emotive e fisiche, che non mi senta in colpa. Spesso mi domando quanto le mie mancanze di padre influiscano in quel piccolo ometto.

Un figlio non dovrebbe mai vivere una situazione come questa che per vedere suo padre deve varcare le mura di un carcere. Quando viene a trovarmi l’intensità è fortissima, anche se il tempo che trascorriamo insieme è poco e mi rimane sempre una parola non detta. Ma durante l’incontro sento tutto il suo amore, l’affetto e la gran voglia di vivermi. Mi sono accorto della sua crescita facendo riferimento al tavolino dei colloqui come misura della sua altezza. Vorrei poter entrare nella sua testolina per comprendere come quel piccolo ometto può sopportare tutto questo e mostrarmi tanto affetto e amore nonostante la mia assenza.

L’importanza fondamentale è quella di avere una compagna che in mezzo a tanta sofferenza non perde giorno per ricordare a mio figlio la figura del padre e per questo gliene sono e sarò sempre grato. Mi rendo conto della difficoltà della mia compagna di farlo crescere il più sereno possibile, cercando di non fargli pesare troppo la mia condizione oggettiva e di trasmettergli tutto l’amore che non riesco a donargli.

Purtroppo è una presenza riportata, non reale. Mi chiedo come mio figlio riesca a chiamarmi papà, vista la mia forzata assenza. Questo però da una parte mi inorgoglisce, dall’altra mi distrugge perché non gli ho dato nulla di quello che un padre sogna di dare al proprio figlio: la sua presenza, l’amore, la guida in un cammino positivo e costruttivo per se stesso e per la società. Non passa giorno che non mi chieda se potrà mai perdonarmi per tutto ciò.

Non posso saperlo, però cercherò, nei limiti di quanto mi verrà concesso, di colmare il vuoto di questi anni d’assenza fisica ed emotiva. Sicuramente non credo di potere risolvere tutti i traumi che la situazione prolungata ha creato, ma se potrò avere un’opportunità di un rapporto più continuativo, lo dedicherò esclusivamente a mio figlio e alla mia compagna, la mia famiglia, la mia luce, la mia speranza.

Rosario Curcio

Genitori e Figli

Un padre e un figlio

Purtroppo, nel mio lontano passato, tra tutte le nefandezze che ho fatto, ho trovato pure il tempo e l’egoismo di mettere al mondo un bambino che, quando è nato, oramai io ero in carcere da quattro mesi. La prima volta che l’ho visto aveva tre mesi: mia moglie l’ha portato presso l’aula bunker di Firenze, dove stavo facendo uno dei miei tanti processi. Mi ricordo che i carabinieri che ci scortavano all’aula bunker mi avevano concesso di prenderlo in braccio dentro la gabbia, ma io mi sono rifiutato perché non volevo vedere mio figlio dentro quella gabbia. Ho preferito uscire le braccia tra le sbarre e toccargli la tenera testolina.

Da quel momento ho iniziato a vederlo, quando era possibile, nelle varie carceri italiane in cui ero recluso. Nel frattempo, il bambino cresceva e io, da irresponsabile, non capivo cosa potesse realmente servire a quel bambino perché ero preso dai miei malaffari.

Le cose sono cambiate quando il bambino ha iniziato a fare delle domande: mi chiedeva come mai mi trovavo in carcere e se era vero quello che aveva appreso a scuola, ovvero che avevo ucciso delle persone.

Io, che ero cresciuto in un ambiente con la regola di tenere tutto segreto, figuriamoci se potevo parlare con un bambino degli orrori che avevo commesso, così, con l’arroganza e la presunzione di essere suo padre, gli ho risposto che tutto quello che aveva sentito su di me era una menzogna perché c’era tanta gente cattiva che ce l’aveva con me e che, in ogni caso, lui non doveva parlare più di queste cose. Da quel momento, le cose sono sempre peggiorate con mio figlio: tutte le volte che veniva a colloquio era un litigio continuo perché non voleva ascoltare minimamente quello che gli dicevo.

Avrei voluto che qualcuno mi aiutasse a far crescere mio figlio. Nell’inconscio sapevo che io non avevo gli strumenti per farlo come poi ho visto che fa il Gruppo della Trasgressione, che aiuta a prendere coscienza i detenuti che sono disposti a rivedersi.

Un giorno, durante un colloquio l’ho rimproverato perché non era andato a scuola. Mi ha risposto: “Ma tu cosa vuoi da me? Chi sei? Cos’hai fatto per me?”. Quelle parole mi hanno stordito, ma sono servite a farmi chiedere cosa significasse avere un figlio e mi hanno svegliato dal sogno che aveva preso il posto di una realtà che non avevo mai conosciuto. Ho iniziato a chiedermi spesso perché mio figlio fosse così scontroso, presuntuoso, arrabbiato verso tutto quello che lo circondava. Ma forse il motivo di tutti questi comportamenti non era a lui che dovevo chiederlo, bensì a me stesso.

Ho continuato a farmi delle domande, lunghe riflessioni e ricerche introspettive, cercando di recuperare quella parte di me soffocata ma sana, che ho tenuto abissata per tanti anni. Dopo un’attenta valutazione sono arrivato alla conclusione che era meglio raccontargli chi ero stato veramente, pur sapendo che rischiavo di non essere compreso o di produrre un effetto boomerang.

E invece lui mi ha risposto con un grande abbraccio e, piangendo, mi ha detto che era fiero di avere un padre che aveva saputo riconoscere i propri errori e che oggi è diventato capace di vivere quei valori che in passato non sentiva per nulla.

Grazie al rapporto con mio figlio, oggi sono riuscito a capire quali possono essere i miei limiti. Riconosco che fare il padre, nella mia situazione di detenzione, è molto difficile anche perché non ho avuto nessuna esperienza paterna. Solo da una decina d’anni sono riuscito a capire il giusto significato del mio ruolo di padre. Attualmente nei riguardi di mio figlio mi sento effettivamente legato sia come padre sia come un amico sincero su cui lui potrà fare affidamento in qualsiasi momento lo vorrà.

Pasquale Trubia

Genitori e Figli

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Mercoledì 14 luglio, 2021, ORE 20:30
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Il masso di SisifoAl parco delle memorie industriali