Il male, una materia da lavorare

Dopo la pubblicazione del testo di Vito Cosco, ho potuto prendere visione di alcune reazioni dei Media: un paio di articoli di Andrea Gianni apparsi su “Il Giorno” e un servizio del TG5,  dove l’attenzione si concentrava in larga misura sulle reazioni di Marisa, sorella di Lea Garofalo, ad alcuni passaggi del testo.

Va però puntualizzato che le parole di Cosco, come si può leggere dal testo originale, sono destinate al Gruppo della Trasgressione e (in conseguenza della mia scelta di pubblicarle su www.vocidalponte.it) agli studenti universitari che fanno tirocinio presso di noi, alle figure istituzionali che seguono il nostro lavoro e a quei cittadini (giornalisti compresi) che desiderano avere un’idea di come funziona il tavolo del gruppo.

Il rammarico e il pentimento di cui parla il testo riguardano il giudizio che oggi Vito Cosco dà del proprio operato, non una richiesta di comprensione ai parenti della vittima o una richiesta di riduzione della condanna alla magistratura. Si tratta di un pentimento che procede in senso opposto rispetto ai canoni della delinquenza organizzata e all’atteggiamento mantenuto dallo stesso Vito Cosco in fase processuale (negazione a oltranza del proprio coinvolgimento); si tratta, insomma, di una riflessione che, in linea con gli obiettivi del Gruppo della Trasgressione, ha come scopo principale quello di provare a rintracciare l’uomo che all’epoca dei fatti si era reso servo e partner della criminalità e del degrado.

Il testo di Vito, già subito dopo la sua prima lettura, è diventato per il Gruppo della Trasgressione materia di riflessione e di sofferto dibattito, dando adito a un confronto difficile, doloroso e, si spera, proficuo per Cosco, per gli altri componenti del gruppo e per i familiari di tutti i detenuti coinvolti nel progetto.

Di certo, il giorno dell’incontro fra i detenuti del gruppo e i loro familiari non è stato facile per i figli di Vito Cosco sentire il padre parlare di fronte a tutti delle proprie responsabilità… ma a raccontare di questo preferisco siano i detenuti che hanno partecipato all’evento del 5 giugno nel carcere di Opera.

Da parte mia, aggiungo che sarebbe desiderabile, e credo anche utile, trattare il lavoro del gruppo come una ricerca finalizzata a raggiungere dei risultati. Non può stupire che i risultati si ottengano in modo graduale. Nel caso nostro, quando le cose vanno bene, i risultati si misurano in termini di coscienza acquisita dal detenuto e di sua capacità di collaborare in modo responsabile col mondo esterno: obiettivi in linea con quanto previsto dall’Ordinamento Penitenziario e, più in generale, dalla nostra Costituzione.

A tale proposito e allo scopo di documentare come la coscienza di sé e dell’altro non risponde alla legge del “tutto o nulla”, credo opportuno aprire un’area ove raccogliere, via via che verranno fuori, i testi che i componenti del gruppo ed eventuali collaboratori esterni produrranno sul tema, così che le persone interessate possano farsi un’idea di come funziona la nostra officina.

È desiderabile poi, come accade nella ricerca scientifica, che a decidere se certi risultati siano aria fritta o sostanza, sia innanzitutto una commissione di esperti che possa valutare per i detenuti, per i loro figli e per la collettività i benefici di questo genere di iniziative. Sarebbe infatti interessante quantificare quali vantaggi comporta, in termini di equilibri sociali e di risparmio economico, la restituzione del piacere della responsabilità all’uomo che l’aveva perso o a chi non l’ha mai avuto.

Se poi dovesse capitarci di incontrare un mecenate o un imprenditore che volesse provare a sostenere o a collaborare col Gruppo della Trasgressione, allora saremmo a pieno titolo nel terzo millennio.

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Manca il pulsante rosso

di Vito Cosco, detenuto con la pena dell’ergastolo,
assistito per l’italiano e per la composizione del testo
da Alfredo Sole,
a sua volta detenuto in ergastolo.

Si può vivere una vita intera e giungere alla fine senza quasi avere rimpianti oppure, come nel mio caso, la fine del nostro ciclo vitale arriva a tutta velocità come una locomotiva impazzita che travolge tutto.

Oggi è facile avere rimpianti e potrebbe sembrare poco credibile o anche ingiustificabile averne dopo così poco tempo. Non ho giustificazioni per quello che ho fatto. Cosa potrebbe mai alleviare il dolore della famiglia della vittima?

Potrei raccontare la solita novella… sono cresciuto in un ambiente con valori sbagliati… che li spacciava per uniche verità. Potrei dire di non avere avuto scelta, di non avere potuto intraprendere una via diversa da quella che ho invece seguito…

Non è questa la visione che vorrei dare di me oggi. Vorrei poter comunicare quel che sento veramente dentro la mia anima, ma forse non conosco ancora le parole giuste per poterlo fare.

Ho un fratello più piccolo di me che commise un grave delitto e, a cose già fatte, coinvolse anche me. Mi chiedo come ho potuto oltraggiare un corpo ormai senza vita. Non ho parole e forse è ancora presto per chiedere perdono.

Lo vorrei, lo sento con tutto il mio cuore, lo sento fin dentro le mie ossa, ma sono consapevole di quest’orribile delitto. Ho bisogno di sentire il disprezzo degli altri, della sua famiglia e, se esiste un Al di là, ho bisogno che la vittima continui a disprezzarmi per non aver fatto nulla per fermare quella follia.

Sì, non riesco a perdonarmi e non credo che ci sia una pena che io possa pagare per alleviare il dolore causato. Sono consapevole di meritare questa mia non vita, so che vivrò ancora per molto tempo in compagnia dei miei fantasmi.

Oggi ho capito! I miei valori sono cambiati e cambiati sono i miei pensieri. Vorrei che ci fosse un grosso pulsante rosso da poter pigiare e, all’improvviso, il mondo che va all’indietro, all’indietro fino a quel maledetto momento, quando avrei potuto capire, rifiutarmi e, forse, se più attento e partecipe della vita familiare, comprendere quello che stava accadendo e fermarlo.

Non posso farlo, non c’è quel “pulsante rosso”, non posso cambiare il passato. Nessuno può!

Io sono qui, davanti a voi, con una consapevolezza che neanche immaginavo che un essere umano potesse raggiungere nella sua intera esistenza, invece, eccomi a smentire me stesso, i miei pensieri di una volta.

Cos’altro potrei aggiungere? Posso solo dire: eccomi, conoscete la mia storia adesso, conoscete anche me, e di me fate quello che volete.

La verità è che io sono morto poco meno di dieci anni fa, insieme alla vittima, ma ancora non lo sapevo. Adesso lo so e sono pronto ad accettare qualunque cosa il destino mi riservi o, meglio dire, ciò che gli uomini vorranno per me.

 


 

Nota di Angelo Aparo su una vicenda terribile e un’attività impegnativa

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Un fardello con cui lavorare

Un fardello con cui lavorare
Roberto Canavò

 
Mi sono sentito veramente colpevole
quando ho trovato chi mi ha fatto capire
che anche io ero stato vittima

Pasquetta 2019, Piazza del Duomo Milano,
Lidia Brischetto al clarinetto: Only you

Ognuno di noi possiede una sorgente di purezza dal valore inestimabile. Quando, per varie ragioni, tra cui l’ignoranza, l’insicurezza e la mancanza di una guida, non riesci ad attingervi, cadi nell’oscurità, poiché la mente ti inganna, lasciando terreno fertile alla profondità del male.

Nel mio caso, quando commettevo atti indegni e irreparabili, avvertivo prima, durante e dopo, quel campanellino d’allarme di cui è dotata la coscienza, ma nello stesso tempo, cercavo di attutirne il suono attraverso la pseudo gratificazione che mi trasmetteva il mio gruppo di appartenenza. Spesso, guardandomi allo specchio, non mi riconoscevo nell’immagine che vedevo, eppure ero io a commettere i reati che portavo a termine con la massima determinazione. Dopo avere a lungo riflettuto sul mio passato, credo semplicemente che, quando commettevo reati, non concedevo alla mia coscienza l’opportunità di consigliarmi.

Il mio arresto, che poi è stato il male minore, visto che altrimenti sarei stato ucciso, mi ha condotto, dopo un decennio di tentennamenti, ad ascoltare finalmente la mia coscienza, che altro non è che quella fonte di purezza insita in ognuno di noi. Dal profondo ho fatto emergere pian piano la mia vera identità, quella che oggi mi sta permettendo di trasformare l’uomo che ero (libero col corpo, ma prigioniero di mente) in un uomo diversamente libero; oggi posso dire di aver conquistato la libertà mentale, pur essendo prigioniero o, come è più corretto dire, detenuto.

Il mio cammino è stato favorito anche dalla Direzione dell’Istituto di Opera (MI), che mi ha dato l’opportunità di partecipare al Progetto Sicomoro, una esperienza forte basata su incontri settimanali tra parenti delle vittime di mafia e i loro carnefici. Durante gli incontri ho avuto più volte la sensazione di non essere all’altezza di quei confronti, di non essere stato attento quanto avrei dovuto con le vittime. Tuttavia, dopo il primo incontro, il più importante, il più emozionante, non conoscendo l’effetto di ciò che avrebbe sortito psicologicamente in ognuno di noi, vittime e carnefici, ho iniziato, pian piano, a prendere contatto con realtà che mai avrei pensato di poter capire o di vivere così positivamente. In quella realtà ho sentito il bisogno di esternare cose molto riservate che difficilmente avrei detto in un contesto diverso. Ho sentito e vissuto, attimo dopo attimo durante gli incontri, i dolori, le paure, la rabbia, la voglia di giustizia, ma soprattutto la necessità delle vittime di capire le ragioni e le “motivazioni” per le quali “gente” come me aveva potuto commettere fatti gravissimi come uccidere. Attraverso i loro racconti, le loro fragilità emotive, mi sono reso conto di quanto dolore ho provocato ai familiari, agli amici, ai passanti, all’intera società e a me stesso, e di quanta fragilità avevo io, nascosta da scelte scellerate, dominante dal delirio di onnipotenza.

Sì, sono colpevole d’avere sgretolato il vero senso della vita, sono altresì consapevole, una volta riemerso dalle macerie causate dalle mie nefandezze, che la mia vita ha ancora ragione di esistere e di essere messa al servizio di azioni giuste. Oggi, grazie alle possibilità che mi ha concesso l’Istituto di Opera, ho l’onore di andare nelle scuole dove porto la mia negativa esperienza di vita affinché i giovani comprendano il più possibile come si può giungere al punto dove sono arrivato io e i danni che ne derivano per tutti. Faccio questo nella consapevolezza che nessuno può cancellare il mio passato, un fardello che, insieme al mio gruppo, cerco di trasformare giorno per giorno in strumento utile alla prevenzione della devianza in generale.

Purtroppo le scelte che si fanno quando si è adolescenti sono figlie di altre scelte, il cui senso rimane difficile comprendere fino a quando non si instaura un rapporto d’ascolto con il nostro Io. Le scelte sono sempre dettate dagli stati d’animo e gli stati d’animo sono, senza che ce ne rendiamo conto, il terreno in cui si definisce la direzione della nostra vita. Una volta presa consapevolezza di ciò, si può superare quella piattaforma costruita da stati d’animo fragili per cominciare a costruirne una più solida, basata su scelte maturate attraverso lo scambio con gli altri e il contatto con noi stessi. Per questo credo oggi che l’ascolto, il dialogo, soprattutto tra genitori e figli, sono importantissimi, sono la base per un continuato d’identità e per una buona relazione con la società. Le giustificazioni, gli alibi, per andare contro le leggi e la morale, sono solo delle scorciatoie che arrecano dolore a se stessi e agli altri.

Queste cose mi sono state impresse nella mente da persone degne di valore e da veri rappresentanti della legalità. Oggi, con orgoglio, le faccio mie perché ne sono intimamente convinto. Contribuire alla rinascita e alla evoluzione di chi ha deviato è, dal mio punto di vista, un valore inestimabile. L’essere stato riconosciuto dalla società mi ha permesso di acquisire quell’autostima necessaria per mantenermi in equilibrio nei consensi e nei dissensi e per comunicare con gli altri.

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Elisabetta e i pozzi di Andrea

La tragedia aerea di questi giorni in Etiopia ha comportato, tra l’altro, la morte di otto persone italiane impegnate nella costruzione di spazi di libertà.

In queste settimane è in Etiopia anche Elisabetta Cipollone, un concentrato di energia puntata a realizzare uno dei desideri di suo figlio Andrea: pozzi d’acqua per chi ha sete.

Dopo la morte del figlio quindicenne, travolto sulla strada da chi una sera si era concesso alla follia, un vecchio diario di Andrea bambino le ha permesso di convertire l’odio per chi toglie la vita in determinazione a promuovere la vita e a coinvolgere nel suo progetto anche chi in precedenza ha contribuito a togliere libertà e vita.

Ecco uno scambio di lettere con chi in passato è stato portatore e burattino del degrado sociale e che oggi, grazie a un lavoro di scavo dentro di sé e a un’alleanza con Elisabetta e altri come lei (Paolo Setti Carraro, Marisa Fiorani, Giorgio Bazzega, Margherita Asta), concorre a combattere il degrado.

Ed ecco l’intervista nella quale Elisabetta parla del progetto cui dedica buona parte delle proprie energie e al quale invita a partecipare persone che sono state in passato contrapposte o molto distanti: autori di reato, vittime di reato, comuni cittadini, figure istituzionali, aziende, giornalisti, studenti.

Credo che nel prossimo futuro persone come lei, in accordo con le istituzioni, pianteranno in carcere trivelle come quelle per l’acqua in Etiopia per recuperare e nutrire la coscienza di chi sconta la pena per i reati commessi al tempo in cui la bulimia di grandiositá ottundeva la coscienza di sé e dell’altro.

Sarebbe interessante avviare e finanziare uno studio serio su una sindrome oggi molto diffusa: la bulimia di eccitazione e di grandiosità. Qualche anno fa, al laboratorio del gruppo, ne avevamo anche individuato l’agente del contagio: il virus delle gioie corte.

I pozzi di Andrea, tra l’altro, sono al momento l’antidoto migliore per contrastarne la diffusione ed è per questo che Elisabetta Cipollone, al ritorno dall’Etiopia, sarà ospite al Gruppo della Trasgressione per il progetto: I protagonisti dell’avventura.

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Il lievito madre

A volte di fronte a un gesto di apertura, a uno scambio coraggioso proviamo commozione. Ci inteneriscono e ci conquistano i bambini, gli animali protagonisti di questo genere di eventi… che noi guardiamo con il sorriso benevolo dell’adulto e un po’ col desiderio di trovarci al loro posto.

L’improvvisa vicinanza, la sintonia fra soggetti, che a prima vista sembrano tanto distanti da non poter comunicare, ci cattura come se quella nuova e inattesa prossimità fosse la meta dei nostri desideri più antichi.

In questi giorni attorno a Natale girano tanti video che raccontano del bisogno nato con noi stessi, quello di trovare una risposta protettiva alla nostra fragilità, una esigenza così arcaica che non si lascia zittire nonostante le dimenticanze di cui siamo tutti più o meno responsabili, nonostante i ripetuti tentativi di surrogare il nostro primo bisogno dell’altro con pratiche mirate a dominare il bisogno e l’altro in quanto tale.

Mi fa piacere riportarne qualcuno dei video visti in questi giorni e di fronte ai quali mi sono sentito come un bambino che, tornando a casa dopo avere a lungo giocato, trova ad attenderlo il pane caldo preparato dalla nonna. E, a proposito di pane caldo, credo che quello che ognuno di noi prova di fronte al risveglio del desiderio antico possa e debba essere usato con i più giovani e… con le persone più distratte come fanno il panettiere o la vecchia nonna con il lievito madre: lo usano per dar vita al pane fresco e dall’impasto del nuovo pane ricavano quello che sarà il lievito per il prossimo giro.

Va nella stessa direzione dei video il dialogo a distanza pubblicato da Paolo Foschini sul CORRIERE DELLA SERA del 24/12/2018.

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Dialogo oltre i muri

CORRIERE DELLA SERA, 24 dicembre 2018
La madre e l’assassino. Dialogo oltre i muri
di Paolo Foschini

Sembra facile? No, questa cosa non ci assomiglia neanche di lontano a una cosa facile. Chi ha subito un crimine, o ha avuto un familiare vittima di un crimine, lo sa molto bene. E lo sa anche chi un crimine lo ha commesso. Non è facile neanche pensarlo, di incontrarsi. Figurarsi farlo. E parlarsi. Eppure. Non è detto che le cose difficili siano impossibili. Forse a volte sono necessarie.

Per questo leggete, nel giorno di Natale, queste due lettere. Da una parte una madre che ha perso un figlio. Ucciso da un pirata della strada. Dall’altra un ergastolano. Che di figli di altre madri, in un’altra vita, ne aveva uccisi più d’uno. Non serve che sappiate i dettagli delle loro storie di “prima”.

Quel che invece dovete sapere è che il loro incontro non è stato casuale. Fa parte di un progetto, che di persone come loro ne coinvolge ormai parecchie. Autori di violenza, vittime di violenza. Si chiama Gruppo della Trasgressione, era nato 2i anni fa nel carcere milanese di San Vittore su iniziativa dello psicoterapeuta Angelo Aparo che lo guida tuttora, e il suo scopo era quello di “motivare i detenuti a interrogarsi sul divenire delle loro scelte”.

Oggi “è un laboratorio permanente di riflessione cui partecipano detenuti, studenti universitarie comuni cittadini”, non più solo a San Vittore ma anche nelle carceri di Opera e Bollate, oltre che in una sede esterna a Milano dove il Gruppo è ospite dell’associazione Libera. Gli obiettivi principali sono “il riconoscimento reciproco, la formazione degli studenti, l’evoluzione del condannato, Io sviluppo di progetti comuni”.
Come funziona? “Durante gli incontri, partendo dalle relazioni e dai vissuti dell’esperienza deviante, detenuti, studenti e comuni cittadini riflettono e producono testi su come si diventa criminali, sul modo confuso con cui il principio della giustizia è presente anche nel predatore, sul se e come si può rinunciare gradualmente all’eccitazione dell’abuso per il piacere della relazione, su quanto sia difficile stabilizzare l’equilibrio psico-sociale del neo-cittadino proveniente da un’adolescenza vissuta nella devianza”.

Non è un percorso lineare né semplice, appunto. Ci vanno anni e impegno. Ma qual è il risultato? “L’incrocio fra le diverse attività favorisce nel detenuto il piacere e l’esercizio della responsabilità nei confronti dei progetti comuni, un senso di appartenenza alla collettività allargata, acquisizione di funzioni sociali riconoscibili, la progressiva emancipazione dall’identità deviante”. Basterebbe assistere a uno dei tanti incontri cui i componenti del Gruppo partecipano nelle scuole di fronte agli studenti per la prevenzione rispetto al bullismo. “Studiare, progettare e lavorare con chi ha commesso reati – conclude Aparo – giova alla società più della distanza garantita dalle mura del carcere”.

Ecco di seguito le due lettere

Cara Elisabetta…
Grazie per non esserti fatta soffocare dal rancore

Cara Elisabetta, eccomi a te, con la responsabilità di chi ha offeso la vita, per cercare di restituirti parte della bellezza che tu quotidianamente ci regali. In questi giorni mi è stato detto se avessi il desiderio di scriverti una lettera. Non ho risposto subito perché pensavo tra me: ci chattiamo e sentiamo tutti i giorni, ci raccontiamo, ci ascoltiamo e ci sosteniamo per rispondere alle nostre fragilità e al tormento che regna nella solitudine dove tante volte ci rifugiamo… Che potrei dire di più a Elisabetta attraverso una lettera?”. Ma ho capito bene, da molto tempo, quanto è importante che la positività sia fatta conoscere. Anche solo per dire che è possibile. E allora ecco.

Tu e io ci conosciamo da circa due anni e da subito l’empatia ha fatto da timone per indirizzarci verso il riconoscimento reciproco del nostro dolore. Partecipi alle iniziative del Gruppo della Trasgressione, vieni a incontrarci, insieme organizziamo anche eventi. Quante volte ti osservo mentre sei avulsa dal contesto dove ci troviamo e proprio in quei momenti mi sento inadeguato; il mio pensiero si fossilizza nel baratro, dei sensi di colpa e mi fa sentire responsabile di questi tuoi attimi di smarrimento. Donna senza risparmio d’amore! Donna che non ti dai un attimo di tregua nel portare il bene dove ha prevalso sempre il male. Combatti come un guerriero e ti fermi solamente quando riesci ad accudire noi, me… La vita è un mistero e l’uomo può solo ipotizzare di conoscerne una parte. Proprio questo mistero, a mio avviso, ci può donare quella prossimità di cui parla e ha scritto tanto il nostro prof. Angelo Aparo.
Tu, come tutti gli esseri umani, spingi verso l’infinito ma, a differenza di tantissimi, un infinito ben definito: la fusione con Andrea, tuo figlio, che vive dentro di te e ti proietta a favore del bene. Un bene che riconosco, rispetto, di cui usufruisco e per il quale sono grato. Un bene che ti restituisce, ogni qualvolta scatta la magia, un battito del cuore di Andrea.

Ricordo, e spesso lo dici nelle tue testimonianze, quanta rabbia e rancore e voglia di vendetta albergavano nei tuoi stati d’animo. Non vivevi se non per cercare giustizia, contro chi commette reati e contro parte delle Istituzioni che non riconoscevano, fino a prima dell’inizio delle tue battaglie, l’omicidio di strada. Poi hai conosciuto il Progetto Sicomoro.
Progetto basato su incontri tra parenti di vittime o vittime e i carnefici, responsabili di reato. All’inizio è stata una lotta senza esclusione di colpi psicologici. Ma dopo i primi incontri, ascoltando e soprattutto toccando con mano la vulnerabilità e le fragilità di quegli autori di reato, ha prevalso in te la tua vera identità, la matrice ben cucita del tuo senso materno verso persone che hanno sbagliato ma dietro i cui sbagli vi è una infanzia abortita dal loro (mio) disconoscimento da parte di tutti, famiglia compresa. Hai percepito che dietro quelle maschere che hanno caratterizzato negativamente la nostra, vita ci sono uomini bisognosi di essere nutriti dal valore che ci permette di essere restituiti alla società. Credo che non ci possa essere iniziativa migliore di quella che stai portando avanti tu.

Ti sei fatta alleata con chi prima combattevi senza remore. Una grande responsabilità. Che richiede impegno ma soprattutto capacità di cambiamento rispetto a un pensiero iniziale. Un lavoro fatto da chi ha subito l’offesa più grande che una madre possa subire: la morte di un figlio, per guida spericolata, da parte di uno scellerato che di responsabilità era privo. Non sono giudizi che potrebbero uscire dal mio pensiero poiché, come sai, ho compiuto le stesse crudeltà a ripetizione. Ma oggi, sentendomi un cittadino, sento anche il dovere di testimoniare a favore di chi ha subito, compresi noi stessi. Sono fortunato. E orgoglioso che tu abbia sposato le idee e iniziative del nostro Gruppo della Trasgressione.
Mi permetto di estendere un grazie da parte di tutto il gruppo per dirti che sei un valore aggiunto e una ulteriore fonte di speranza soprattutto per chi, come te, ha subito atrocità ed è ancora soffocato dal rancore. Vorrei scriverti tante altre cose ma questa è una lettera aperta nella quale un podi intimità nascosta non guasta. Raccontarsi con gli altri è un bene, raccontarsi a quattrocchi è amore.

Ti lascio con una sorta di poesia che ho scritto in uno dei tanti miei momenti di smarrimento. Eccola.

“Due occhi tra, le canne di bambù ascoltano il silenzio della notte che accarezza i pensieri. Gocce che cadono, diamanti senza luce, frecce di dolore piantate nel cuore. Eco di passi severi, tra le mani un raggio di sole che illumina occhi anelanti a libertà. Un attimo, un bagliore nel buio. L’anima si nasconde, vuole l’oblio delle colpe, mentre il cuore intona il canto del perdono”.

Con immensa gratitudine.

Roberto Cannavò

Caro Roberto… sono una vittima,
ma non si può fermare il bene

Esco dal carcere quasi di corsa, esco dal carcere e ho bisogno di una boccata d’aria, di luce. Ho bisogno di riprendere i contatti con il mondo esterno che pare mancarmi da tantissimo tempo. Esco dal carcere e mi rendo conto di aver fretta e so che la strada che mi separa da casa mi parrà interminabile.
Il punto è che lì, in quella dimensione dagli spazi finiti, sbarrati, ovattati, mi sono sentita soffocare e dentro quelle mura che violentano la libertà nulla sembra esistere se non il presente e un pesante passato che ha segnato tutte quelle vite. Prima di uscire mi sono soffermata due minuti a chiacchierare con un agente. Non avevo mai visto corridoi sbarrati che portano alle celle. E la mia prima volta in carcere. Guardo a destra e poi a sinistra. Sbarre e volti. Sbarre e mani. E braccia lunghe che le oltrepassano quasi a volermi toccare. Sbarre e mani e occhi che mi cercano.

Ho voglia di scappare perché quella visione mi fa male e dentro me ho solo spazio per il dolore perenne che provo per la morte di mio figlioSento la mia corazza farsi di cartapesta e non riesco più a celarmi dietro la coltre di rancore e odio che mi ha avvolta per quattro interminabili anni. Sono una Vittima, io. Sono una mamma monca, spezzata, mutilata. Una donna entrata in carcere per urlare agli autori di reato il mio dolore e per nessun’altra ragione che puntare il dito. Da giudice. Da inquisitore. Sono arrabbiata, legittimamente arrabbiata. Sono Vittima per sempre.

Ma ora, nell’uscire da quel luogo di espiazione mi sento meno calata nel mio ruolo totalizzante. Ogni certezza si sgretola e provo una salvifica compassione per gli autori di reato. Compassione nell’accezione più nobile di questo termine troppo spesso frainteso. Provo compassione e non comprendo come un essere umano possa sopportare una vita dietro quelle sbarre.

Proprio io che dietro quelle sbarre ce li avrei mandati tutti, i delinquenti. E senza neanche un giusto processo. Senza dovere aspettare quei tre gradi di giudizio che mi parevano un’enorme perdita di tempo e un grande spreco di denaro pubblico. E invece ecco che, calata in questa dimensione inaspettata, nessuno, ma proprio nessuno, neanche il più spietato assassino mi provoca sentimenti negativi. Nuovamente tento di combattere con quella che ero e che non sarò mai più. E mi dico che non posso trovare giustificazioni a tanto male e che la clemenza non rientrava proprio, neanche un po’, nei miei progetti di mamma orfana. Arrogante e chiusa nella mia bolla che credevo impenetrabile, mi atteggiavo a giudice senza averne alcun titolo. Ma arretra ogni difesa e perdo questa ardua lotta contro la mia gabbia fatta di odio e rancore. Da allora li incontro sempre. Sono persone, sono esseri umani che hanno sentimenti, che provano vergogna, rimorso. Persone che chiedono una seconda possibilità. Racconto il mio vissuto e trovo occhi pieni di lacrime e trovo solidarietà. Siamo facce della stessa medaglia: il dolore. Quello subito, quello provocato. Quegli occhi, quelle storie entrano dentro di me ed agiscono come il ferro operatorio di un abile chirurgo. Entrano nella carne e la feriscono, la fanno sanguinare. Quel ferro arriva in profondità e va a cercare il male per sradicarlo. Brucia, ma cauterizza. Ora so. Ne ho le prove.

Il male si può sconfiggere, si può arginare, si può anche fermare. Ma il bene no. Una volta innescato, il bene dilaga e invade e pervade, inarrestabile e permeabile, travolge tutto ciò che c’è intorno.
Mi sento una donna migliore. Sento che possiamo fare un pezzo di strada insieme, senza fretta, curandoci le ferite con un sorriso o un abbraccio. Senza troppe parole, fusi nei nostri ruoli e nei nostri dolori. Fuori piove, ma noi abbiamo il sole dentro. Si chiama Ascolto, Accoglienza, Amicizia, Affetto, Amore. Per me si chiama anche Andrea.

Elisabetta Cipollone

A come Acqua, A come Andrea

Esco dal carcere quasi di corsa, ho bisogno di una boccata d’aria. Ho fretta e la strada che mi separa da casa mi parrà interminabile.

Il punto è che lì, in quegli spazi finiti, opprimenti, ovattati, mi sono sentita soffocare; dentro quelle mura che violentano la libertà, nulla sembra esistere se non il presente e un pesante passato che ha segnato tutte quelle vite.

Prima di uscire mi sono fermata due minuti a chiacchierare con un agente. Non avevo mai visto corridoi sbarrati che portano alle celle. È la mia prima volta in carcere. Sbarre e mani e occhi che mi cercano. Ho voglia di scappare perché quella visione mi fa male e dentro ho solo spazio per il dolore perenne che provo per la morte di Andrea, mio figlio.

Sento la mia corazza farsi di cartapesta e non riesco più a celarmi dietro la coltre di rancore e odio che mi ha avvolta per 4 interminabili anni. Sono una vittima, una mamma monca, spezzata, entrata in carcere per urlare agli autori di reato il mio dolore e per nessun’altra ragione che puntare il dito. Da giudice! Da inquisitore!

Sono arrabbiata, legittimamente arrabbiata. Sono Vittima per sempre, ma ora, nell’uscire da quel luogo di espiazione, mi sento meno calata nel mio ruolo totalizzante. Ogni certezza si sgretola e provo una salvifica compassione per gli autori di reato e non comprendo come un essere umano possa sopportare una vita dietro quelle mura. Proprio io che dietro quelle sbarre ce li avrei mandati tutti i delinquenti e senza neanche un giusto processo e tre gradi di giudizio, che mi parevano un’enorme perdita di tempo e un grande spreco di denaro pubblico.

Calata in questa nuova dimensione inaspettata, nessuno, nemmeno il più spietato assassino mi provoca sentimenti negativi; eppure la clemenza non rientrava proprio nei miei progetti di mamma orfana. Arrogante e chiusa nella mia bolla, mi atteggiavo a giudice senza averne alcun titolo. Ma arretra ogni difesa e perdo questa sterile lotta contro la mia gabbia fatta di odio e rancore.

Da allora li incontro sempre. Racconto loro il mio vissuto e trovo occhi pieni di lacrime e solidarietà. Siamo facce della stessa medaglia: il dolore, quello subìto, quello provocato. Quegli occhi, quelle storie entrano dentro di me e agiscono come il ferro operatorio di un abile chirurgo. Arriva in profondità e va a cercare il male per sradicarlo. Brucia ma cauterizza.

Ora so. Ne ho le prove! Il male si può sconfiggere, si può anche fermare ma il bene no! Una volta innescato, il bene dilaga e invade, inarrestabile, travolge tutto ciò che c’è intorno.

Mi sento una donna migliore. Sento che possiamo fare un pezzo di strada insieme, senza fretta, curandoci le ferite con un sorriso o un abbraccio, senza troppe parole, fusi nei nostri ruoli e nei nostri dolori.

Fuori piove, ma noi abbiamo il sole dentro. Si chiama Ascolto, Accoglienza, Amicizia, Affetto, Amore, Acqua, Andrea, un pozzo per Andrea

Elisabetta Cipollone

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Il canto dell’acqua nell’arsura

Cara Elisabetta,

eccomi a te, con la responsabilità di chi ha offeso la vita, per cercare di restituirti parte della bellezza che tu ci regali. Ci ascoltiamo e ci sosteniamo ogni giorno per rispondere alle nostre fragilità e al tormento che regna nella solitudine dove tante volte ci rifugiamo. Donna senza risparmio d’amore, senza tregua nel portare il bene dove ha prevalso sempre il male. Combatti come un guerriero e ti fermi solamente quando ci porti le tue cure. La vita è un mistero. Anche tu, come tutti, spingi verso l’infinito ma, a differenza di tanti, punti a un infinito ben definito: la fusione con Andrea, tuo figlio, che vive dentro di te e ti spinge in direzione del bene. Un bene che riconosco e di cui ti sono grato; un bene che ti restituisce, ogni qualvolta scatta la magia, un battito del cuore di Andrea.

Ricordo, e spesse volte lo dici nelle tue testimonianze, quanta rabbia, rancore e voglia di vendetta albergavano in te. Non vivevi se non per cercare giustizia del tribunale contro chi commette reati e contro le  istituzioni che non riconoscevano, fino a prima dell’inizio delle tue battaglie, l’omicidio di strada. Poi, come per incanto, hai conosciuto il Progetto Sicomoro.  Progetto basato su incontri tra parenti di vittime o vittime e responsabili di reato. All’inizio è stata una lotta senza esclusioni di colpi, ma dopo i primi incontri, ascoltando e toccando con mano le fragilità di quegli autori di reato, ha prevalso in te la tua vera identità, il tuo senso materno. E così hai colto che dietro quelle maschere ci sono uomini che hanno bisogno di essere nutriti per potere essere restituiti alla società.

Con noi e per noi, oggi conduci le tue battaglie contro il degrado. Oggi ti sei fatta alleata con chi prima combattevi (noi), nonostante l’offesa più grande che una madre possa subire: la morte di un figlio, per guida spericolata, da parte di uno scellerato senza senso di responsabilità.

Oggi hai sposato anche le idee e iniziative del Gruppo della Trasgressione. Ne sono orgoglioso! Ciò che fai è una fortuna per me e per noi tutti e penso sia motivo di speranza per chi, dopo aver subito atrocità simili alle tue, vive ancora soffocato dal rancore.

Due occhi tra le canne di bambù ascoltano il silenzio della notte. Gocce che cadono, diamanti senza luce, frecce di dolore piantate nel cuore. Un’eco di passi severi e il cuore intona il canto dell’acqua nell’arsura.

Con immensa gratitudine,
Roberto Cannavò

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