La coscienza che abbiamo esiliato

Ho seguito, per come ho potuto, gli sviluppi della lettera di Vito Cosco; ho letto alcune reazioni dei giornali e le riflessioni dei miei compagni. Anche se in questo periodo non posso frequentare fisicamente il tavolo del gruppo, credo che Vito, durante l’incontro del Gruppo della Trasgressione con i parenti, abbia voluto comunicare il proprio senso di colpa a tutti i suoi familiari e in particolar modo al figlio di 13 anni, anche loro vittime del suo delirio e degrado morale.

C’e da dire che gli incontri del gruppo insieme ai nostri familiari, tenuto conto della nostra totale esclusione dalle loro vite e dal contesto sociale, costituiscono per noi detenuti una opportunità fondamentale per farli partecipare alla nostra vita, al nostro percorso di ravvedimento e un’occasione per consegnare loro la nostra crescita, la nostra emancipazione morale dall’abisso in cui eravamo precipitati con i nostri delitti.

Durante la mia lunghissima detenzione, per anni sono stato impegnato in attività scolastiche che mi hanno portato anche a conseguire un diploma. Ne ero fiero. Ero l’unico della mia famiglia in possesso di un titolo di studio. Ma devo ammettere che grazie al percorso col Gruppo della Trasgressione mi sono reso conto che, pur sapendo leggere e scrivere, avevo mantenuto un analfabetismo morale, funzionale ed emotivo.

Cresciuto e nutrito all’interno di una sub-cultura di violenza e di sopraffazione, ne sono rimasto contaminato e con me i miei ideali e gli obiettivi della mia adolescenza. A quel punto, quand’anche vi fosse stato il  “pulsante rosso”  era ormai troppo tardi; lo avrei comunque ignorato, evitato, eclissato.

I figli crescono e insieme a loro crescono le conseguenze del nostro operato; e così, mentre attorno a noi alimentiamo catene di degrado e di emarginazione, crescono anche quelle domande di fronte alle quali non puoi più mentire o tergiversare da vigliacco. La coscienza bussa come un tamburo, mentre aumenta la difficoltà di parlare con i nostri figli di quelle verità che fanno male.

Poterlo fare alla presenza e con la mediazione di esperti psicologi è un privilegio che ci offre il prezioso laboratorio del Gruppo della Trasgressione. Anni fa è successo a me e, grazie agli stimoli che mi ha fornito il gruppo, ho cominciato ad approcciarmi alla verità con le mie figlie; oggi penso, anzi ne sono sicuro, che anche le intenzioni di Vito vertevano in tal senso.

In parallelo alle vittime del nostro delirio, anche i nostri familiari sono vittime innocenti e inconsapevoli delle nostre scelte scellerate. Poter comunicare il risveglio della nostra coscienza ai nostri figli e ai nostri familiari, restituendo loro la nostra attuale consapevolezza, le nostre responsabilità, la nostra autenticità, è il metodo più efficace per riconciliarci con noi stessi e con la società e per proseguire in un sincero e complesso percorso di ravvedimento.

Caro dottore, ho letto la sua affermazione: “…mi rendo conto che si vive la sensazione di tradire la vittima prestando ascolto al balbettio del carnefice… e voglio dirle che si tratta di una sensazione solo apparente. Lei sa bene che dentro l’essere umano logica ed emozioni sono spesso in contrasto. Chi ha subito la perdita di un familiare, infatti, ha certamente bisogno che l’autore del delitto venga punito, ma desidera anche che la volontà del colpevole cambi direzione e che egli maturi coscienza del dolore provocato.

La pena non può esaurirsi nella punizione in senso afflittivo; questa non basta per lenire o per elaborare il dolore della perdita. Chi vive quel dolore, in fondo al cuore, sa bene di non poterlo curare col rancore, con la distanza e, men che meno, con la vendetta sociale. Il meticoloso lavoro di studio e di ricerca che si fa con il Gruppo della Trasgressione consiste soprattutto nell’analizzare gli aspetti che hanno portato al reato e nell’aiutare l’autore a riconoscere il degrado morale nel quale egli si è formato e che ha poi contribuito a diffondere.

Ma quello che il Gruppo della Trasgressione fa sopra ogni altra cosa è recuperare la coscienza che noi stessi abbiamo esiliato. Per riuscirci, incontriamo con una certa frequenza anche familiari delle vittime disposti a prestare ascolto alle nostre storie, con i quali si cerca di capire ed elaborare insieme quel dolore che in una certa misura ci apparenta.

Pasquale Fraietta e Angelo Aparo

Torna all’indice della sezione

Pasquale Fraietta 

Torna all’indice della sezione

 

 

 

Le vite degli altri

Durante il nostro ultimo incontro al tavolo del gruppo, abbiamo commentato la giornata trascorsa con i nostri familiari nel teatro del carcere di Opera e la lettera di Vito Cosco, che di quella giornata è stata protagonista.

Della lettera hanno anche parlato alcuni giornali, provando a farne uno scoop. Di sicuro le nostre storie non hanno la stessa risonanza di quella di Vito, ma dietro ognuno di noi c’è una storia e, come come ha detto Vito quel giorno… “per fare quello che abbiamo fatto c’è voluto poco tempo e poco impegno, ce ne vuole invece molto per capire quello che facevamo“.

La detenzione utile è quella che ti fa prendere coscienza di te stesso, non quella che ti costringe a oziare sul letto, intanto che aspetti il fine pena. Le emozioni che abbiamo provato quel giorno sono collegate a come recuperare il rapporto con noi stessi e con i nostri famigliari.

Io spero che dall’altra parte ci sia qualcuno che osserva realmente il percorso che fa il detenuto. Non chiediamo perdono o di cancellare le nostre colpe, chiediamo che vengano osservate e riconosciute le attività che svolgiamo in carcere e valutati i risultati.

A volte la televisione e i giornali parlano superficialmente di quello che fanno i detenuti pur di vendere, ma queste non sono vere notizie, è solo speculazione. La vera notizia sarebbe entrare nel merito di quello che fa il Gruppo della Trasgressione. Il suo lavoro è quello di tirare fuori dalla persona quello che la persona ha già ma che non sa di avere.

Il problema è che l’arte della maieutica non è facile, mentre è invece molto più facile, eccitante e vendibile, parlare di mostri che non potranno mai essere perdonati.  Ma dedicare attenzione alle cose eccitanti e vendibili è esattamente quello che facevamo noi all’epoca in cui passavamo il tempo ad assumere e vendere sostanze invece che a occuparci di sostanza.

La sensazione che ho provato quel giorno, dopo la lettura della lettera e il discorso di Vito, è stata straordinaria, ma allo stesso tempo ho capito quanto possa essere difficile far comprendere alla gente il cambiamento che avviene in chi ha riscoperto la propria coscienza.  Ho sentito dire a uno dei familiari presenti quel giorno che, se non avesse vissuto di persona questa giornata, per lei Vito Cosco sarebbe dovuto morire in carcere perché solo questo meritava.

Quando si fanno questi incontri, i giudizi smettono di essere coltelli e si arricchiscono di empatia. Forse è proprio di questo che il mondo ha più bisogno… di ascoltare con attenzione le storie degli altri… quello che non abbiamo saputo fare noi quando non prestatavamo attenzione alle vite degli altri.

Marcello Portaro e Angelo Aparo

Marcello Portaro

Torna all’indice della sezione

 

 

Bagliori dal carcere

Sono Giorgio Ciavarella, componente del Gruppo della Trasgressione da circa 4 anni. Il 5 giugno scorso abbiamo avuto l’incontro collettivo con i nostri familiari, un evento dove noi detenuti cerchiamo di comunicare ai nostri congiunti quello che facciamo col gruppo. I temi che affrontiamo durante l’anno sono tanti (l’arroganza, il senso di onnipotenza, la bulimia della grandiosità, la presa di coscienza), ma in quella giornata, parlando con le nostre mogli, i nostri figli e i nostri genitori, cerchiamo soprattutto di buttare giù le maschere dietro le quali ci siamo nascosti per anni.

In quella giornata un componente del gruppo, raccontando il suo percorso in relazione al reato commesso, si è reso protagonista di un evento fuori dal comune e tale da commuovere anche la persona più dura. Alcune testate giornalistiche, però, hanno travisato la lettera da lui scritta e l’hanno riassunto in modo da suscitare scalpore e, soprattutto, rigetto fra i parenti della vittima.

Quando facciamo sentire la nostra voce al di là delle mura (scuole, centri culturali, teatri) non lo facciamo per comperare la nostra libertà; il nostro principale interesse è valorizzare il lavoro sulla coscienza effettuato in questi anni. Non è compito nostro decidere qual è la giusta punizione o se è giusto perdonare; il nostro obiettivo è dare valore all’uomo di oggi e al lavoro che ognuno di noi fa per riconoscere le proprie responsabilità e i propri errori.

Questo non equivale a cancellare il passato; sappiamo bene che non è possibile per le vittime dei nostri reati e non lo è per noi! Ma proprio perché impossibile, è da qui che inizia il nostro impegno sia nel riconoscere le nostre responsabilità sia nel recuperare quello che di buono c’è in noi e metterlo a frutto. Ricostruire come siamo arrivati ai nostri reati e dove abbiamo lasciato le nostre prime aspirazioni è quello che facciamo principalmente al gruppo. Credo che in questo modo riusciamo a recuperare la dignità e l’autostima che ci servono per tornare in società in modo responsabile.

Spesso penso alle vittime che si chiedono: “Perché proprio a me?”. Non c’è una risposta, non c’è una ragione. So di essere legato alle vittime dei miei reati, sono stato io a propagare il male senza nemmeno sapere il perché e a causare il loro male solo perché in quel momento eravamo sulla stessa strada. Progetti come quello del Gruppo della Trasgressione ci sono utili a ricucire, nei limiti del possibile, lo Strappo che abbiamo prodotto. Non ci sono pulsanti rossi, forse solo ago e filo, per chi ha voglia di usarli.

Giorgio Ciavarella e Angelo Aparo

Giorgio Ciavarella

Torna all’indice della sezione

 

 

 

15 domande (quindici) per indagare su “Lo strappo”

Luca Cereda: innanzitutto volevo capire insieme a lei quale sia – e come si possa definire e spiegare – la linea di demarcazione che il nostro diritto fissa tra il concetto di pena e quello di punizione.

Francesco Cajani: se prendiamo come punto di partenza il nostro codice penale (emanato nel 1930), esso si incentra essenzialmente sul concetto di pena, intesa quale conseguenza della violazione di una regola prevista come reato dal codice penale.
Abbiamo dunque una limitazione dei diritti che si esprime in una sanzione, e questa sanzione ha come carattere essenziale proprio l’afflittività perché – quale che sia la sua funzione – la pena implica sempre una sofferenza.
Certo, il fondamento e la funzione della pena sono sempre stati temi dibattuti perché “da millenni gli uomini si puniscono, e da millenni si domandano perché lo facciano”.
In estrema sintesi, da una parte si pone la teoria della retribuzione con la sua idea che il male vada ricompensato con il male: la pena pertanto diviene corrispettivo del male commesso.
Dall’altra si collocano le teorie della prevenzione che attribuiscono alla pena la funzione di eliminare o ridurre il pericolo che il soggetto punito, o in generale la collettività stessa, ricada in futuro nel reato.
E’ invece merito della Costituzione della Repubblica italiana, nel 1948, quello di aver messo in luce, con la previsione di cui all’art. 27 terzo comma, come “le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato”: in tale ottica diviene fondamentale non già la pena irrogata ma l’atto stesso della punizione, e tutto il discorso – che sta anche alla base del nostro documentario – della necessità di “punire bene”, per dirla con Duccio Scatolero, intesa come un vero e proprio diritto per il reo.

Luca Cereda: punire bene, assegnare la giusta pena da parte di chi amministra la giustizia implica necessariamente un interrogarsi sul soggetto, sulla persona da punire, indipendentemente dalla sua età: è davvero pensabile – come lei scrive nella Guida alla visione del documentario – instaurare con esso una relazione che continua anche dopo l’irrogazione della pena?

Francesco Cajani: io sono solito ricordare che già Platone, nel Gorgia, aveva ben riassunto il tema che stiamo analizzando quando fa dire a Socrate che “a ogni uomo che sconti una pena, se questa gli sia stata giustamente inflitta, accade o di diventare migliore e di riceverne giovamento, o di diventare un esempio per gli altri”.
Parole scritte all’incirca nel 407 a.c. …. tuttavia è certo che, nell’antichità così come oggi, il diritto e il processo penale continuino ad essere mossi da una istanza repressiva, che riduce ed esaurisce il fare giustizia nella mera applicazione della pena: con la conseguenza che il dolore del reo punito si aggiunge a quello della vittima.
Anche perché tale modello, a ben vedere, finisce necessariamente per considerare il reo responsabile “di qualcosa” (di una truffa o un omicidio qui poco importa) e non anche responsabile “verso qualcuno”.
Ecco allora che, proprio per dare concreta attuazione all’art. 27 terzo comma della nostra Costituzione, è imprescindibile una punizione in cui il ruolo di colui che punisce non si esaurisca nell’atto di irrogare la pena. Se infatti ogni colpevole ha il diritto ad essere “punito bene”, questo significa – in altre parole – che proprio tramite l’atto del punire lo Stato deve prendersi idealmente carico del suo esito e, per esso, della sua piena efficacia.

Luca Cereda: c’è un senso in cui la punizione acquista anche il significato dell’essere presente per il reo, laddove altri – la famiglia, gli amici, la società ma anche le Istituzioni – non ci sono stati? In questo percorso che ruolo posso avere – e come si costituiscono – i percorsi di giustizia riparativa?

Francesco Cajani: é indubbio che un buon esito della punizione è sicuramente quello che fornisca al soggetto punito tutti quegli strumenti che gli consentano di riappropriarsi della propria umanità (che è stata abbandonata e tradita all’atto del commettere un reato) e, dopo aver incontrato sé stesso, iniziare a pensare all’altro.
Ed è altresì interessante notare come Aulio Gellio, uno scrittore della Roma antica, si domandasse il perchè Platone non avesse ricordato nel Gorgia una terza funzione della punizione, chiamata in greco timoria (ossia vendetta dell’onore della vittima, che verrebbe menomata se il colpevole rimanesse impunito).
L’esperienza anche mia personale mi porta però a dire che molto spesso ai Familiari delle vittime di reati non importa ottenere un risarcimento e, a volte, nemmeno vendetta. Quello che le vittime chiedono, sempre con più insistenza, è che a farsi carico del peso della giustizia sia proprio lo Stato, e non loro.
E pertanto, in uno scenario così complesso, lo Stato deve essere in grado di ri-comprendere, insieme al reo, anche la vittima. Perché non esiste solo un diritto riconosciuto dall’art. 27 della nostra Costituzione al reo, ma anche un preciso dovere verso le vittime: quello di mettere in campo forze positive in grado di “scongelare” il dolore affinchè possa, per quanto possibile, ri-trasformarsi in qualcosa di vivo.
Per questo credo fortemente che sono proprio e solo i percorsi di giustizia riparativa quelli nei quali, al netto dell’incontro tra il reo e la vittima, il dolore dell’uno non si aggiunge ma si sottrae a quello dell’altro.

[le altre 12 domande di Luca Cereda per il programma Radio Scarp e le risposte di Chiara Azzolari, Walter Vannini, Carlo Casoli e Juri Aparo sono reperibili qui]

 

Per approfondire:

– F. MANTOVANI, “Diritto penale. Parte generale”, III edizione, Milano, 1992, pp. 741 ss
– F. STELLA, Prefazione in E. WIESNET, “Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita”, Milano, 1987
– D. SCATOLERO, Atti delle Giornate nazionali di studio e di riflessione sull’applicazione del nuovo codice di procedura penale minorile, Milano 23-24 ottobre 1992, p. 136
– C. MAZZUCATO, La giustizia dell’incontro in G. BERTAGNA-A. CERETTI-C. MAZZUCATO (a cura di), “Il libro dell’incontro”, Milano, 2015
– F. OCCHETTA, “La giustizia capovolta”, Milano, 2016

La partita a bordo campo

 

 

Il Cinque giugno

Egregio direttore, dott. Silvio Di Gregorio,

noi detenuti del gruppo della trasgressione le scriviamo questa missiva per informarla di quello che abbiamo prodotto in queste ultime settimane, tra cui lo scritto di un componente del gruppo e l’evento con i nostri familiari.

Come Lei sa, i componenti del gruppo producono a volte dei testi che vengono letti e commentati nelle riunioni settimanali e poi pubblicati sul sito del gruppo. In questi scritti ognuno può parlare della propria vita e di tutto quello che gli passa per la mente; ovviamente con la serietà che contraddistingue il Gruppo della Trasgressione.

Mercoledì 29 maggio scorso, uno di noi, Cosco Vito, ha portato uno scritto riguardante la sua storia personale, che è stato poi commentato e apprezzato. Lo scritto ha suscitato in noi molte emozioni per la sua drammaticità. Di conseguenza, molti di noi hanno parlato del triste passato personale e della bellezza di sapere oggi che anche noi possiamo avere quella coscienza che avevamo accantonato.

Nell’evento del cinque giugno scorso siamo stati con le nostre famiglie e le abbiamo messe a conoscenza del nostro lavoro, facendoci scoprire delle persone che sanno ammettere le proprie responsabilità e gli errori del passato.

Abbiamo parlato davanti a loro e abbiamo visto i nostri figli e i nostri genitori emozionarsi con noi. Con il risultato che siamo usciti da questo evento molto più ricchi nell’anima e con la speranza di riuscire a coinvolgere più spesso i nostri cari e tutti quelli che vorranno seguirci in questa bellissima avventura.

Per il Gruppo della Trasgressione
Pasquale Trubia e Angelo Aparo

Pasquale Trubia

Torna all’indice della sezione

 

 

 

 

 

 

La montagna sgretolata

Prima che mi arrestassero avevo già cominciato a sentire la montagna sgretolarsi. Ho iniziato a frequentare questo gruppo con qualche dubbio, che poi col passare delle settimane è andato sciogliendosi e mi sono convinto che mi avrebbe fatto bene. Per questo voglio chiamare la mia esperienza col Gruppo della Trasgressione “la montagna sgretolata”.

Avevamo organizzato per mercoledì 5 giugno questo incontro con i nostri familiari nel carcere di Opera dove siamo detenuti. Lì Vito Cosco ha condiviso con i suoi figli e anche con i nostri parenti quello che aveva detto la settimana prima durante la riunione interna del mercoledì. Ha parlato davanti a tutti della sua bruttissima azione contro la vittima (Lea Garofalo). Ci sono stati molti interventi di noi detenuti e anche dei suoi figli e a un certo punto mi sono girato e ho visto mia moglie e molti dei nostri parenti con le lacrime agli occhi.

Ho ripensato a quel giorno e mi sono detto che con questo gruppo ognuno di noi sta sgretolando quella famosa montagna. E allora le persone interessate devono trovare il sistema per farlo. Molti dei nostri familiari hanno questo interesse e, passo dopo passo, spero che anche altri credano in questo progetto.

Paolo De Luca e Angelo Aparo

Paolo De Luca

Torna all’indice della sezione

 

 

Non esistono solo i bottoni rossi

La lettera di Vito Cosco mi ha sorpreso. Ho già diversi anni di esperienza col Gruppo della Trasgressione ma non pensavo che saremmo arrivati alle sue dichiarazioni così facilmente. Vito è una persona taciturna e pensavo che sarebbe stato zitto ancora per molto tempo.

Dopo qualche anno dall’inizio della mia carcerazione l’ispettore di reparto mi ha suggerito di partecipare a questo gruppo. Anch’io parlavo poco nei primi anni. Inoltre, mentre gli altri parlavano di responsabilità personali, io pensavo di essere vittima dello Stato che ingiustamente mi aveva condannato.

C’è voluto più di un anno per capire cosa si fa al gruppo, ma alla fine credo di esserci riuscito. E quello che ho capito è che fra le cose possibili c’era anche che Vito Cosco si mettesse a parlare di quello che ha fatto.

Al gruppo si impara ad ascoltare gli altri, a fare attenzione a quello che vogliono dire le persone anche quando lo dicono male, si impara a capire che le cose si dicono e si capiscono a piccoli passi, che fa strada la persona che viene ascoltata e non quella che viene rifiutata o presa in giro.

Credo che il gruppo sia una terapia e un posto dove ci si confronta con questioni che fuori fanno ridere o che fuori, almeno per noi che siamo finiti dentro, non c’è tempo di considerare.

Il pentimento di Vito è una questione di tipo morale, non si tratta di collaborazione di giustizia né di chiedere perdono alle persone che non possono perdonarlo. Gli articoli che vengono fuori sui giornali o i servizi televisivi dovrebbero tenere conto del fatto che in carcere uno ha bisogno di fare la sua strada, che è già difficile di suo, anche senza aggiungere malintesi che, in una situazione come quella di Vito, portano solo conflitti e ostilità.

Tra l’altro, Vito ha una famiglia, dei figli che non hanno colpa per quello che lui ha fatto e che oggi hanno tutto da guadagnare se il padre viene aiutato a fare una strada positiva.

Detto questo, io mi chiamo Amato Giuseppe e anche io avrei voluto pigiare quel bottone rosso che non c’è. Il dott. Aparo dice però che ce ne sono molti di altri colori. Stiamo a vedere!

Giuseppe Amato e Angelo Aparo

Giuseppe Amato

Torna all’indice della sezione

 

 

 

 

 

 

La lettera di Vito sul TG5

Mi chiamo Antonio Antonucci e frequento il Gruppo della Trasgressione di Opera da un anno e mezzo. Avevamo letto la lettera di Vito Cosco alla riunione del mercoledì precedente, ma non ho partecipato all’incontro dei detenuti del gruppo con i familiari dello scorso 5 giugno in teatro perché ricoverato in ospedale per un piccolo intervento chirurgico.

Mentre aspettavo la mini porzione di pranzo sento leggere al TG parti della lettera… rimango colpito e, anche se riconosco le parole, vivo la sensazione di ascoltare qualcosa di molto diverso da quello che avevo sentito la settimana prima. Quello che alla riunione del gruppo in carcere era stata per me e per il resto del gruppo, componenti esterni compresi, una lettera molto coinvolgente e sulla quale ognuno di noi aveva espresso il suo pensiero, nel servizio che ho ascoltato al TG5 aveva il tono di uno scoop, con notizie sensazionali e contrasti fra familiari.

Tra l’altro, nel servizio, non ho sentito nulla di quello che il dott. Aparo, responsabile del nostro gruppo, aveva scritto in accompagnamento al testo di Vito su Voci dal Ponte e che, per noi che facciamo questo difficile percorso, non è meno importante di quello che ha scritto il nostro compagno.

Per me e per gli altri del gruppo, la responsabilità di Vito è chiara. Non voglio giustificarlo e non giustifico me che, come lui, sono ergastolano per avere commesso un omicidio. Voglio però dire che Vito con quello scritto non voleva offendere nessuno, non voleva riacutizzare il dolore dei familiari della vittima e non voleva chiedere sconti sulla pena. Chi conosce come funziona la Legge sa che quello scritto non può portare a nessuno sconto. In definitiva, Vito non ha fatto altro che ammettere di essere stato una persona spregevole, come d’altra parte lo sono stato io stesso.

Dalla sua lettera e dalle parole che ha detto al tavolo durante la discussione, si capisce soprattutto che lui oggi accetta di essere giudicato e che spera di potere avere con i suoi figli un rapporto più aperto. Tra l’altro, ho saputo da chi era presente all’incontro con i familiari che Vito Cosco ha ripetuto davanti al figlio quello che aveva detto al gruppo la settimana prima, un figlio di 13 anni, anche lui come il mio, vittima del reato del padre.

Tutto questo non toglie nulla alle sue responsabilità per quanto accaduto in passato, ma d’altra parte, nessuno ha cercato di toglierli dalle spalle il fardello che si deve portare lui, come tutti gli altri che siamo in condizioni simili o peggiori delle sue.

In base alla mia esperienza (non ho ancora compiuto 44 anni e ne ho passato oltre la metà dietro le sbarre), posso affermare che, in generale, in carcere e più facile peggiorare che migliorare. Il carcere, non è una novità, è una buona fucina per micro e per macro criminalità. Senza volere togliere niente gli altri corsi che ho frequentato durante le mie precedenti carcerazioni, mi sento di dire che, se alla mia prima carcerazione fossi stato indirizzato verso un gruppo come quello della trasgressione, non posso essere sicuro che non sarei mai più finito in carcere, ma escludo che ci sarei tornato per i reati associativi che mi hanno portato ad avere un “fine pena mai”.

Antonio Antonucci e Angelo Aparo

Antonio Antonucci

Torna all’indice della sezione

 

 

 

 

Sul pulsante rosso

“…dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fiori

Lo scorso 5 Giugno noi componenti del Gruppo della Trasgressione, assieme ai nostri famigliari, ci siamo incontrati presso il teatro della C.R. di Opera, come facciamo da tempo una volta l’anno. L’incontro è stato coordianto come al solito dal dr. Angelo Aparo. La giornata, che ha colpito profondamente noi e i nostri famigliari, è partita con una lettera scritta al gruppo da Vito Cosco, detenuto da circa 10 anni in regime di alta sicurezza presso il carcere di Opera.

Il testo della lettera ha suscitato in noi una grande emozione. Nel corso di questi anni di reclusione il percorso di Vito è stato molto travagliato, ma da circa un anno ha cominciato a dialogare con la propria coscienza, intraprendendo un cammino che ai nostri occhi, ma credo anche a quelli degli altri componenti del gruppo, appare sincero e profondo.

Non sappiamo come Vito sia arrivato a commettere un crimine così grave. La portata del delitto è tale che nessuna analisi riesce a spiegare la cosa. E però sembra che oggi la sua coscienza abbia finalmente preso una svolta significativa.

L’obiettivo del carcere dovrebbe essere quello di rieducare la persona che ha sbagliato e che, giustamente, è stata privata della libertà. È importantissimo che la Legge dia alla persona condannata, oltre alla punizione, una speranza e non un “Fine pena mai”. Chiunque, pur essendo detenuto, rimane un essere umano e, in quanto tale, deve potere avere la possibilità di evolversi. Diversamente, a cosa servirebbe la pena?

Vito vorrebbe pigiare quel “pulsante rosso” per poter tornare indietro, ma nessuno ha il potere di cambiare il passato. Certamente da questa lezione ha imparato e abbiamo imparato anche noi quanto sia importante poter dare una carezza a un figlio e qualche volta riceverla. In questo modo diventa più facile acquisire man mano la consapevolezza del male fatto e dei tanti ostacoli da superare per potere raggiungere la pace con se stessi e con il mondo, dopo il dolore inflitto a entrambi.

Vincenzo Solli, Sebastiano Giglia e Angelo Aparo

Vincenzo Solli, Sebastiano Giglia

Torna all’indice della sezione

 

 

 

Restituzioni

Mi chiamo Giovan Battista Della Chiave, faccio parte del Gruppo della Trasgressione.

Mercoledì 05/06/2019 al teatro della C. R. di Milano Opera, il Gruppo della Trasgressione si è riunito con i familiari dei detenuti. Si tratta di una sorta di festa che viene fatta una volta all’anno per dare la possibilità alle famiglie di capire cosa avviene all’interno del gruppo negli incontri settimanali.

Come al solito, ad aprire la giornata è stato il Dott. Angelo Aparo, psicologo e moderatore del gruppo. L’incontro in teatro è partito con la lettura di uno scritto che Vito Cosco (da circa nove anni in carcere e da quasi un anno componente del Gruppo della Trasgressione) aveva presentato alla nostra riunione del mercoledì la settimana prima dell’incontro con i familiari.

Mentre Vito leggeva il suo scritto pubblicamente, erano presenti anche i suoi familiari: la moglie, il figlio di tredici anni e la figlia di venti. Lo scritto è molto forte, Vito ha cercato di mettersi a nudo e lo ha fatto davanti ai suoi figli, uno dei quali, stando a quanto diceva la madre, non sapeva nulla circa il motivo per il quale il padre si trova in carcere.

Conclusa la lettura, il Dott. Aparo ha chiamato molti dei detenuti e anche i familiari a commentare lo scritto e a esprimere le proprie impressioni. Ne è nato un bel dibattito al quale tutti hanno partecipato con interesse. Subito dopo il dott. Aparo ha chiamato il figlio tredicenne di Vito, chiedendogli di leggere un commento di Elisabetta Cipolloni. Il ragazzo con difficoltà ha letto il commento, ma l’emozione era alle stelle, tanto che alla domanda che gli è stata fatta: “ma tu sei orgoglioso oggi di tuo padre?” è scoppiato a piangere. Un pianto, credo, liberatorio del piccolo che certamente sapeva, ma che finalmente aveva udito dalla voce del padre il motivo per il quale lui si trova in carcere.

Ecco, la giornata è stata piena di emozioni rare, emozioni che fanno crollare tutte le barriere che molti di noi si costruiscono, una giornata dove Vito si è confrontato con molte persone a lui estranee e dove anche altri detenuti si sono sforzati di entrare nei panni di Vito.

Ecco cosa avviene quando la persona detenuta, anche se in regime di ostatività, trova il coraggio, la capacità, gli strumenti per mettersi in gioco. Nel nostro caso, lo strumento è un gruppo che, come dice il dott. Aparo, ha come principale obiettivo l’evoluzione dell’uomo. Vito, come tanti altri che frequentano il gruppo, è riuscito a tirare fuori, o meglio, a riportare alla luce delle diapositive archiviate e segregate in una parte remota del suo e del nostro cervello. Con il lavoro di gruppo al servizio dell’introspezione dentro ognuno di noi si possono ottenere risultati significativi e restituire alla società persone migliori.

Ecco, credo che Vito, dopo tanti anni, stia cercando proprio questo: sta cercando qualcuno che lo ascolti; lui con il suo scritto non sta chiedendo la grazia, ma sta cercando di rianimare l’uomo che è in lui. È chiaro che per crescere non si può e non si deve dimenticare il passato.

L’immenso lavoro che svolgono alcune persone volontarie nel fare evolvere l’uomo non è altro che quello che dice l’art. 27 O.P. *, ma che purtroppo viene realizzato solo in pochissimi penitenziari italiani. Quindi credo che in quel giorno 05/06/2019 sia stato fatto un enorme passo avanti da parte di Vito e che sia stato restituito un padre a un figlio.

° Art.27
Attività culturali, ricreative e sportive
Negli istituti devono essere favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative e ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, anche nel quadro del trattamento rieducativo. Una commissione composta dal direttore dell’istituto, dagli educatori e dagli assistenti sociali e dai rappresentanti dei detenuti e degli internati cura la organizzazione delle attività di cui al precedente comma, anche mantenendo contatti con il mondo esterno utili al reinserimento sociale.

Giovan Battista Della Chiave e Angelo Aparo


Giovan Battista Della Chiave

Torna all’indice della sezione