Il carcere utile

Il carcere è utile?
Mi vuole docile,
facile,
trattabile.

E così, dalla mia cella
Guardo le nuvole
Scorgo le cupole
Sogno
Il sapore delle fragole

Mi addormento
Ripensando alle favole.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Il carcere non mi appartiene

Il carcere non mi appartiene
ci vuole qualcosa che lo previene.

Ma là fuori è una giungla,
dove sono vittima e carnefice.

Mi drogo
per dare sfogo
Alla rabbia
In cui affogo.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Una guida

Se avessi un coach,
che mi ama
che mi sgrida

Una guida che
mi riconosce e valorizza
forse non vorrei una droga
che mi illude
e che mi anestetizza

Ma ora voglio
Cambiare strada
Accettare i miei demoni
E ovunque vada,
Conviverci
Tenerli a bada.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Sguardi bugiardi

Mi sento giudicato dagli sguardi
Aggressivi come leopardi,
bastardi,
bugiardi.

Vorrei sparire.
Poi mi fermo e penso:
Non è mai troppo tardi
Per raggiungere i propri traguardi.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

La spaccatura

La libertà, lo so, mi fa paura
e così ho indossato un’armatura

Ci vivo dentro con una spaccatura
tra me e questa realtà ostile e dura

Non so per quanto starò tra queste mura,
e l’incertezza su chi sono mi tortura.

Vorrei trovare la giusta attrezzatura
Qualcuno che mi aiuti a risanare la frattura.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Insignificanti o padroni del mondo

Insignificante,
in un mondo alienante,
non ho mai trovato
nello spazio circostante
uno stimolo gratificante
che potesse rendere la mia realtà
meno lancinante.

E così,
in un nanosecondo
ecco che sono diventato
padrone del mondo
ho finalmente avuto la mia rivincita
su questo pianeta balordo,
dove
senza rendermene conto,
giorno dopo giorno
sempre di più
stavo toccando il fondo.
Affondo.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Gabbie personali

Vivo da una vita
In una gabbia
Fatta di rabbia
Che mi annebbia
Come sabbia

Negli occhi miei.
Il dolore mi assale,
il dolore non è mai banale
è qualcosa che mi suscita
una furia animale.

Ma nessuno mi sente
E nessuno mi vede
E allora mordo, delinquo
E dunque sono.

Ma ora, ora che ho perso,
Rimango solo a parlare con me stesso.
Finalmente me lo sarei concesso.

Ma qui in carcere mi sento oppresso,
Per farmi stare quieto
mi danno tranquillanti,
Ma ho capito che è il Progetto
l’unica terapia di successo

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

La vita è un’altalena

La vita è un’altalena
Che mi culla,
che mi aliena,
aiuto, frena!

Questa maschera che indosso
mi incatena!
È tutta una messinscena
per nascondere la mia vera pena
di sentirmi da sempre inadeguato,
non stimato,
non amato.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Protagonisti del proprio destino

REPARTO LA CHIAMATA

“Investire su un sistema di negazioni e di divieti non ha senso; lavorare sulla qualità della vita in carcere, sui limiti e i punti di forza della persona, sul recupero di una progettualità per il futuro, ne può avere moltissimo” – Giacinto Siciliano

 Durante questi anni di collaborazione con il Gruppo della Trasgressione ho avuto modo di comprendere l’importanza del dialogo, della comunicazione, del confronto tra persona detenuta e società esterna e della creazione di progetti di vita per contrastare il rischio di recidiva.

Il confronto attivo e la riflessione sul proprio vissuto, con la presa di consapevolezza dei propri agiti e una conseguente assunzione di responsabilità, permettono di giungere al Cittadino che, una volta uscito dal carcere, potrà effettivamente contribuire al benessere della società. Per contro, la detenzione, priva di stimoli e di opportunità di confronto e contatto con la società, è fine a sé stessa e non assolve alla funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione Italiana.

Il cambiamento nelle persone è possibile, se vengono loro offerti gli strumenti adatti per una presa di consapevolezza e una attiva responsabilizzazione: “La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” – Giorgio Gaber

La libertà di mente, come la chiamiamo al Gruppo, il vero indice di cambiamento, viene raggiunta solo attraverso un lungo percorso che inizia all’interno del carcere per poi continuare all’esterno, un confronto attivo tra detenuti e società, fatto di comunicazione, scambio di riflessioni, introspezione, riconoscimento delle proprie azioni devianti e delle proprie e altrui fragilità.

“L’uomo è una meraviglia che ha bisogno di fiducia, di sentirla, di meritarla, magari anche di perderla, sapendo che in quella scommessa diventa protagonista del proprio destino” – Giacinto Siciliano 

 Il Gruppo, come sua prassi quotidiana, fa in modo che il detenuto si interroghi su sé stesso, aiuta studenti e detenuti a comprendere che esiste qualcosa in comune in tutte le esperienze, che sia la devianza o anche le difficoltà, le conflittualità ed i sintomi che si sviluppano in risposta al disagio, poiché questi non sono esclusivi dell’esperienza di chi delinque ma anche di quella degli studenti. Il confronto costante tra studenti e detenuti porta a un arricchimento reciproco, alla riscoperta di una vicinanza di vissuti ed emozioni che difficilmente si sarebbe potuta immaginare prima.

Il lavoro del Gruppo consiste nell’andare in cerca della coscienza che era stata messa da parte durante i primi anni di vita e con l’adolescenza, quando i conflitti e le sofferenze portavano spesso la persona a sviluppare un’immagine di sé compatibile con il reato.

Il carcere, purtroppo, per come è strutturato, è un ostacolo alla comunicazione. La persona detenuta non deve perdere invece il contatto con la società esterna, di cui fa parte e dove tornerà a essere cittadino una volta uscito. Come scriveva Beccaria, “Non c’è libertà finché le leggi permettono che, in certe condizioni, una persona cessi di essere persona e diventi un oggetto”.  L’esperienza detentiva, infatti, molto spesso porta all’alienazione e all’incapacità di riadattarsi al mondo esterno dopo il rilascio.

Occorre abbandonare l’ipotesi che condizioni estreme di disagio dei detenuti possano fare da deterrente a futuri comportamenti antisociali, perché la violenza genera violenza, e il degrado fisico e ambientale contribuiscono ad aumentare o creare il degrado morale. La pena scontata interamente in carcere, senza stimoli né contatti con il mondo esterno, è disfunzionale: rinchiudere una persona, già in partenza portatrice di rabbia e rancori, in una cella senza alcuno stimolo e senza la possibilità di confrontarsi con la società, non la potrà portare a riflettere e prendere coscienza del proprio percorso. Anzi, vivrà come ingiusta l’istituzione, maturando ancora più rabbia nei confronti dell’Autorità.

“La pena è utile quando il tempo in carcere viene impiegato in modo proficuo partecipando attivamente alle attività e agli incontri proposti, sfruttando le offerte formative e scolastiche e imparando un lavoro. Così i detenuti possono ricevere mille stimoli e scoprire di possedere abilità diverse da quelle che li hanno portati dove si trovano. Una pena utile non si può scontare in un carcere che non sia adeguato. […] sovraffollati, vecchi, fatiscenti, hanno troppe mura, troppe sbarre, pochi spazi per le attività responsabili. È compatibile tutto ciò con l’irrogazione di una pena utile e dignitosa? […] la dignità di un uomo rimane un valore intoccabile anche in cella” – Giacinto Siciliano

 Il confronto con la collettività porta ad arricchimento e crescita personale, in quanto stimola la riflessione sul proprio vissuto, sulle proprie fragilità e permette, attraverso l’ascolto, il riconoscimento dell’altro in quanto essere umano da rispettare. In questo modo viene riconosciuta l’identità della persona, il suo pensiero, la sua scrittura, la sua creatività, ma soprattutto il suo valore, tutti aspetti che il detenuto nel corso della sua carriera criminale ha spesso sotterrato, dimenticato e nascosto perfino a sé stesso.

Il contatto con il mondo esterno al carcere permette a detenuti e membri della società esterna di interagire e collaborare per obiettivi comuni e favorisce nel detenuto (e non solo) il senso di autoefficacia e di autostima personale attraverso il riconoscimento da parte della collettività della propria funzione all’interno della società.

“Lo Stato forte è quello che dà fiducia e ha il coraggio di investire nelle persone, lo Stato forte non è quello che dice sempre no, perché essere chiusi non stimola il cambiamento. Se non c’è cambiamento, non ci sarà neppure testimonianza del cambiamento e la gente fuori avrà sempre paura e non avrà motivi per investire, per accogliere, per aiutare a sua volta a completare un percorso” – Giacinto Siciliano

È estremamente importante che l’Istituzione promuova uno scambio tra società e detenuti e vigili su di esso, così come risulta necessario un dialogo tra detenuto ed Istituzione. In questo senso, “promuovere” significa favorire la produzione di materiale che fa crescere la coscienza nel detenuto e ne previene la recidiva. Per evitare che un soggetto, una volta uscito, torni a delinquere, occorre responsabilizzarlo e dargli una funzione attiva.

Non tutte le persone “stanno in piedi” con la stessa facilità e l’investimento per mantenere le persone più in difficoltà con una funzione produttiva, sulla distanza, restituisce alla società maggior benessere rispetto al fatto che quella persona venga lasciata a se stessa. Le iniziative che possono contribuire all’evoluzione e al consolidamento della coscienza del detenuto non dovrebbero essere un epifenomeno del carcere ma parte integrante dello stesso, in nome della funzione rieducativa della pena. Infatti, il carcere è parte della società e nei confronti di questa non può non avere una responsabilità.

Il momento dell’ingresso in carcere è un evento traumatico per tutto ciò che ne consegue: la rottura dei rapporti con il mondo esterno, le fragilità e le problematiche individuali, la precarietà dei rapporti affettivi.

Il carcere è anche terreno fertile per l’insorgere di patologie psichiatriche durante tutto il periodo detentivo e nella fase prossima alla scarcerazione, legate all’ansia del reinserimento sociale.

Il Reparto La Chiamata ha come obiettivo centrale che la persona venga accompagnata durante la sua detenzione in un percorso di recupero della coscienza, che può solo avvenire attraverso un costante confronto con la società esterna, con gli studenti, i volontari, gli psicologi, l’Istituzione.

Nel reparto è necessario che la persona detenuta ricostruisca la fiducia nell’Istituzione e nella società di cui fa parte, ricucia lo strappo che si è creato tra lui e la collettività, sentendo di ricoprire una funzione valida e riconosciuta da quest’ultima. È fondamentale che chi si trova in carcere riacquisti fiducia e stima in sé stesso e nelle proprie potenzialità, svolgendo attività (formative, lavorative, gruppi di riflessione) volte alla costruzione di progetti futuri e non più compatibili con il reato.

Risulta inoltre centrale che il detenuto possa coltivare il rapporto con la sua famiglia e con i suoi figli, riacquistando autorevolezza e credibilità agli occhi di questi ultimi e prevenendo quindi la possibile devianza di seconda generazione.

Da tutti questi interventi trarrebbero giovamento sicuramente le persone detenute, ma anche le loro famiglie, i loro figli e, non ultimo, la società intera, perché una carcerazione che non contempla adeguati percorsi di reinserimento sociale e di responsabilizzazione è in netta contrapposizione alla sicurezza sociale e alla funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione italiana.

Nota: Tutte le citazioni del dott. Giacinto Siciliano provengono da “Di cuore e di coraggio”, edito da Rizzoli, 2020.

Arianna Picco

Reparto LA CHIAMATA

Raul Montanari

Raul Montanari – Intervista sulla creatività

Raul Montanari è scrittore e docente di scrittura creativa. Spiega ai suoi allievi le tecniche applicate dagli scrittori. Si dedica allo studio teorico della creatività espressa attraverso la prosa narrativa e la sceneggiatura cinematografica. Con altri della sua generazione, ha attirato nel campo della narrativa un pubblico giovane che leggeva fumetti con un linguaggio molto avanzato e che era interessato ad espressioni anche estreme della narrativa. Si è espresso nel genere Noir, che si occupa del conflitto tra bene e male. Nel 1991 ha pubblicato il suo primo romanzo “Il buio divora la strada” portando il Noir all’attenzione dei grandi editori.

 

Gloria: Cos’è per te la creatività?

Raul Montanari: Ogni atto espressivo è creativo in sé. La scrittura creativa adopera una serie di stratagemmi perché è una creatività sottomessa a leggi molto precise volta a ottenere il massimo dell’efficacia per il lettore. Lo scopo? Che i sentimenti e i pensieri che l’autore vuole trasmettere diventino risonanti anche per il lettore, diventino pubblici, possano quindi avere un significato per gli altri. La creatività è una disposizione dello stare nel mondo molto diffusa. La creatività disciplinata, per potersi rivolgersi a un vero pubblico, comporta delle regole e difficoltà.

 

Arianna: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Raul Montanari: La creatività si esprime in vari ambiti. Nell’ambito della narrativa e dei formati espressivi del cinema e del fumetto ci sono due condizioni a monte dell’idea creativa e che appartengono alla persona creativa: uscire dalla propria vita ed incontrare la vita degli altri, perché la nostra vita non dà materiale sufficiente per scrivere un romanzo. Qui risiede anche la differenza tra prosa e poesia: poeti illustrissimi passano tutta la vita parlando solo di sé stessi, ma siccome nella poesia l’accento è messo sull’arte della parola, l’aspetto di apertura del mondo esterno può essere quasi superfluo. Invece, quando si scrive in prosa è impossibile scrivere solo attingendo alla propria vita; infatti, chi scrive vive, oltre alla sua vita, tutte le vite dei personaggi, e per poter moltiplicare i punti di vista occorre curiosità per la vita degli altri.

Per scrivere una buona prosa occorre attingere a tre magazzini: quello della propria vita, quello della vita degli altri che raccontano le proprie esperienze (e l’atto di ascoltare le storie degli altri è un’esperienza soggettiva) e infine quello comprendente tutto il resto (i libri che si leggono, i film che si vedono…).

Per fare un esempio, nel 2006 ho pubblicato un romanzo dal titolo “L’esistenza di Dio” il cui personaggio principale volevo fosse un ex detenuto, uscito dal carcere per presunto uxoricidio. Volevo che avesse una fobia e così ho esaminato le fobie che potessero andare bene per un personaggio del genere e ho pensato alla claustrofobia, la più temibile per un recluso. Nel primo magazzino sulla mia vita non trovavo niente su questa fobia, quindi ho esaminato il secondo magazzino e ci ho trovato mia madre, che mi ha parlato dei suoi problemi con la claustrofobia; nel terzo magazzino, attraverso ricerche, ho scoperto nuove curiosità su questo genere di paura.

Il secondo ingrediente a monte della creatività nella scrittura è il fascino per l’espressione di parola scritta che nasce leggendo: alle spalle di un grande scrittore infatti c’è sempre un grande lettore.

 

Gloria: Cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Raul Montanari: L’idea non ho mai capito da dove viene; sono sempre state usate metafore per descrivere lo scaturire del processo creativo, come ad esempio la metafora del Big Bang, ovvero qualcosa a cui nessuno ha assistito ma delle cui conseguenze noi tutti facciamo parte: non vedi nascere l’idea ma te la ritrovi lì.

L’idea può venire dalla vita o dalla narrativa. Ad esempio, nel mio ultimo romanzo, l’idea è nata da una ragazza che esiste realmente e che si è presentata alla mia porta per vendermi un giornale;  da questo episodio ho cominciato a chiedermi cosa potesse causare una simile epifania nella vita di un uomo solo; di solito ragiono per contrasti: cosa ci può essere di più contrastante tra una giovane ragazza raffigurante il massimo della socialità vendendo giornali alle porte delle case, e un uomo che si è chiuso a riccio nella sua solitudine?

 

Arianna: Che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Raul Montanari: Io mentre scrivo sto male. Il mio procedimento creativo è diviso in tre momenti: preparazione di circa un mese (scaletta cronologica, ricerche sui luoghi e su tutti gli aspetti coinvolti nella storia, creazione dei personaggi, scaletta dei capitoli), prima stesura in circa un altro mese, ed infine correzioni e aggiustamenti.

Il vero momento creativo è la prima stesura, il mettere sulle pagine delle parole che prima non esistevano. Questo atto di creazione lo reputo estremamente doloroso perché provoca una immensa astrazione dal mondo reale e lo stare dentro al mondo immaginario è alienante, corri anche il rischio di contaminare il mondo ideale col mondo reale e viceversa.

Diventi un vampiro della vita perché succhi energie alla vita per metterle nelle pagine del tuo romanzo.

Una volta concluso il romanzo sento delle dinamiche bellissime di rispecchiamento, mi rivedo nelle mie pagine. Ma anche il mancato rispecchiamento provoca un piacere narcisistico: anche se si racconta un episodio, una paura, un sogno che appartengono ad un’altra persona, lo si fa con le proprie parole.

 

Gloria: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso e sulla percezione dell’autore in generale?

Raul Montanari: La dimensione dell’autore ha conservato un prestigio enorme nonostante la scrittura sia antichissima, ormai, e nonostante il rapporto con il destinatario abbia degli spazi sempre più ristretti perché le persone hanno sempre meno tempo per leggere. Rimane questo fascino perché si sente che questa forma di creatività che passa attraverso la parola ha un carattere esplosivo.

 

Arianna: Nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo cosa determina?

Raul Montanari: Per quanto riguarda le persone che entrano come personaggi nelle pagine, emerge l’aspetto vampiresco di cui parlavo prima: le persone sono spesso deluse da come vengono rappresentate in una narrazione. D’altronde, come scrittore tu non devi solamente obbedire alle leggi della vita ma anche alle leggi della narrazione: se ti serve che un personaggio sia stronzo e che metta in difficoltà il protagonista, devi fargli fare queste cose, è la storia stessa che ti detta le regole. Quando scrivi, oltre ad incontrare la vita degli altri, incontri anche una logica interna della storia che stai scrivendo e questa logica ti costringe a fare delle scelte, che spesso lasciano insoddisfatta la persona che si ritrova dentro il racconto.

Per quanto riguarda il rapporto con gli altri più in generale, io credo che la narrativa predisponga ad un’elevata capacità empatica. Una delle cose più difficili da fare quando si scrive una storia è per esempio tratteggiare il ruolo dell’antagonista, personaggio fondamentale perché la narrazione nasce sempre da un conflitto. Se si volesse fare una sintesi della narrativa, infatti, si potrebbe dire: un personaggio vuole far qualcosa ma fatica a farlo perché qualcuno si mette in mezzo. Per quanto riguarda l’ostacolo, vi possono essere tre tipi: l’antagonista, l’ambiente o un conflitto interiore. Tuttavia, nella maggioranza dei casi i diversi tipi di ostacoli vengono personificati in un antagonista: per esempio, si potrebbe dire che, se abbiamo un protagonista detenuto, il carcere è il suo ostacolo ambientale perché pone dei limiti fisici alla sua libertà. Tuttavia, è più facile identificare l’antagonista in una guardia sadica e cattiva, in questo caso l’ambiente diventa una persona.

 

Gloria: Quanto è importante l’apprezzamento degli altri per il prodotto creativo?

Raul Montanari: Varia molto, sia in base all’obiettivo dell’autore sia in base al tipo di espressione che ha scelto. Io conosco persone che producono atti creativi, i quali, ai loro occhi, hanno valore creativo in sé. Queste persone sono capaci di mettersi in una relazione con il loro prodotto creativo che non è mediata dal riconoscimento degli altri. Questo vale molto di più per la scrittura poetica, mentre la scrittura in prosa ha bisogno di un pubblico. A livello puramente economico, pubblicare un romanzo con una casa editrice ha dei costi e se tu/il tuo libro non piace, l’editore non guadagna nulla e tu ti estingui come narratore. Non ti pubblicano più! Per un romanziere quindi il pubblico è necessario. Ho conosciuto persone che avevano un rapporto molto intimo con il prodotto della loro creazione tanto da essere contenti così. Il riconoscimento altrui è un valore aggiuntivo di cui chiunque è felice. Sostanzialmente nessuno scrive solo per sé stesso, sostenere questo è solo un atteggiamento difensivo, paura del giudizio.

 

Arianna: Chi sono i principali fruitori del rapporto creativo e come ne traggono giovamento?

Raul Montanari: Nel caso della lettura ci sono lettori di ogni tipo, di conseguenza è impossibile piacere a tutti. In particolar modo è impressionante come quello che tu scrivi possa suscitare reazioni diverse nelle varie persone e soprattutto reazioni diverse da quelle che tu autore ti aspetti. Ogni cosa che scriviamo è sottoposta al famoso gioco della teoria dell’informazione: seduti intorno a un tavolo, tu riferisci una frase all’orecchio di una persona, la quale, a sua volta, la ripete al suo vicino e così via, fino a tornare a te ed è una frase completamente diversa dall’originale. Nella scrittura affrontare il giudizio degli altri porta anche a scoprire come ogni persona vedrà la tua narrazione a modo suo e prenderà dalla narrazione ciò che è entrato in contatto, in modo abrasivo o sintonico, con lei.

 

Gloria: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Raul Montanari: La prima cosa è la solitudine: l’atto creativo è un atto di raccoglimento. Sia la scrittura che la lettura sono atti di isolamento, attività che nascono come antisociali. Al contrario di altre attività creative come guardare un film, ascoltare una canzone oppure visitare una mostra, le quali possono essere svolte in gruppo, la scrittura prevede un rapporto uno a uno. Tutto ciò che avviene prima (ricerche, immedesimazione negli altri) e dopo (incontro con i lettori) sono invece attività sociali.

 

Arianna: Pensi che esista una relazione tra depressione e creatività?

Raul Montanari: Negli anni ’90 ho fatto molte traduzioni letterarie. Il primo libro che ho tradotto era un memoir sulla depressione scritto da William Styron. Il libro s’intitola “Un’oscurità trasparente” ed è la storia personale della depressione dell’autore. Questa storia racconta dello sprofondamento nella depressione e poi della rinascita attraverso due espressioni di tipo creativo: la scrittura e la musica. Da una parte, infatti, l’atto della scrittura implica apertura e fiducia, oltre ad aiutarti ad oggettivare certe tensioni e conflitti interiori rappresentandole su carta. L’oggettivazione permette di attribuire le tue sofferenze a qualcun altro e di conseguenza riesci ad avere una visuale diversa. La musica, d’altra parte, ha permesso all’autore di riconoscere l’entità della sua malattia e lo ha spinto alla ricerca di un percorso di salvezza. In particolar modo, l’ascolto di un brano musicale estremamente triste ha suggerito a Styron una distinzione tra tristezza e depressione. La tristezza è un sentimento nobile e necessario per l’uomo, al contrario la depressione è un aspetto autodistruttivo, da cui scappare.

 

Gloria: Quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Raul Montanari: Secondo la teoria dell’opera aperta di Umberto Eco, l’atto creativo non è mai concluso. Manganelli diceva che pubblicare un libro è un modo per disfarsene, altrimenti vai avanti a correggerlo all’infinito. Il prodotto creativo può venire cristallizzato ad un certo punto, l’atto creativo al contrario è energia infinita. Nel mondo della scrittura abbondano metafore di tipo procreativo: è normale infatti paragonare il libro ad un bambino e comparare il lavoro di scrittura ad una gravidanza. Sono tutte metafore che indicano un apparentamento analogico tra la creatività universale e il tuo atto creativo personale.

 

Arianna: Pensi che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

Raul Montanari: Sì, sotto ogni punto di vista. Tutte le funzioni dei prodotti creativi sono sociali; non ce n’è una che non sia sociale. Non siamo capaci di vivere senza “narrativizzare” il mondo: trasformiamo sempre il mondo in un racconto. Se guardiamo noi stessi e la memoria che abbiamo di noi stessi, possiamo notare in che modo vediamo la nostra vita: come fosse un romanzo, con i suoi personaggi, i suoi colpi di scena, i capitoli, le svolte, i cambiamenti di ruolo…

Dei nostri primi anni di vita, non abbiamo un ricordo così ben strutturato. Si potrebbe dire che viviamo i nostri primi anni con un atteggiamento più poetico che narrativo; abbiamo delle poesie, dei flash, delle piccole immagini che contengono un’emozione. Cominciamo ad organizzare narrativamente lo sguardo che abbiamo sulla nostra stessa vita intorno ai 9-10 anni. L’atteggiamento narrativo è antropologico, connaturato alla specie umana, che applica questo atteggiamento a tutta la realtà esterna. Perfino il complottismo è indizio della nostra tendenza a narrativizzare: abbiamo una tale ripugnanza a pensare che le cose possano accadere senza che ci sia dietro una trama, che ci attacchiamo anche alle spiegazioni più improbabili per costruirci una storia. Questo pensiero complottista è la versione a volte comica e a volte grottesca di una propensione narrativa.

 

Gloria: Pensi che la creatività sia un dono naturale e dunque un privilegio di pochi oppure una competenza accessibile a tutti che può essere allenata?

Raul Montanari: Penso che la creatività sia accessibile a tutti, altrimenti non avrei la scuola di scrittura creativa. Il talento esiste, ma l’atteggiamento creativo è universale. Ciò che fa davvero la differenza non è il talento, ma la determinazione, che è il vero carburante. La determinazione non va però confusa con la mitomania, che fa ottenere una soddisfazione parziale, temporanea, allucinatoria, ma spegne la volontà.

 

Arianna: Ritieni che la creatività possa avere un ruolo utile a scuola o nelle attività di recupero del condannato?

Raul Montanari: Sì, sicuramente. Innanzitutto, dal punto di vista psicologico, mette in moto dei meccanismi salutari come l’oggettivazione, il tentativo di entrare nei panni degli altri, che aiuta anche nell’organizzazione del proprio vissuto personale. Quando si rappresenta l’altro, naturalmente non in modo stereotipato in base alla sua funzione narrativa, ma come persona nella sua totalità, aiutiamo noi stessi a percepire il nostro vissuto, creando una nuova consapevolezza più salutare di quello che è il nostro ruolo nelle vite degli altri. Anche l’aspetto narcisistico non va trascurato: l’innalzamento dell’autostima che può seguire l’atto creativo può essere propedeutico a qualsiasi tipologia di recupero.

Intervista ed elaborazione di
Arianna Picco e Gloria Marchesi

 

 

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