Uno spazio libero e protetto

Sofia Lorefice

Una vita mancata

Le mani volavano sulla tastiera producendo un’armonia e un ritmo non arginabili. Tutti nella stanza smisero di fare quel che stavano facendo e non poterono far altro che lasciarsi travolgere dalla musica.

Io ero senza parole. Era mia madre la donna che suonava. Ma io neanche sapevo che sapesse suonare. Come era possibile?

Quando finì l’applaudirono a lungo, noi bambini riprendemmo a giocare, di lì a poco fu servita la torta di compleanno, vennero aperti i regali e poi ognuno tornò a casa.

Strada facendo interrogai mia madre con gli occhi e con le parole, ma non ottenni risposta. Solo un lungo silenzioso pianto, irrefrenabile; le lacrime le rigavano il volto ma non fece niente per nasconderle o per asciugarle. Entrammo in casa e il pianto continuò.

Era strano. Non il fatto che piangesse. Piangeva sempre, ogni giorno, silenziosamente, copiosamente. Ma, subito prima che mio padre rientrasse, si asciugava gli occhi, si sciacquava il viso e quando lo accoglieva sembrava calma, normale. Questa volta non fece niente per nascondersi, lasciò che la vedesse.

Mio padre chiese spiegazioni ma da lei non ne arrivarono, era come se mio padre nemmeno avesse parlato. Era come se non ci fosse.

Fui io a raccontare come avevamo passato il pomeriggio e come lei avesse suonato il piano, e come fosse stata brava e applaudita, e del mio stupore e dell’ammirazione che provavo per lei, e delle domande che mi ero fatto senza trovare risposta.

Mio padre la guardò a lungo senza parlare.

Quella sera mangiammo in pizzeria ma senza la mamma. Per un mese non la vidi. La porta della sua camera era chiusa. Mentre ero a scuola preparava i pasti e accudiva la casa, ma era diventata  invisibile. Io chiedevo e chiedevo, ma le risposte non arrivarono.

Col tempo tutto tornò normale, Ogni tanto tornai a chiedere ma inutilmente.

Crebbi un pochino, imparai a usare il computer e a navigare in internet. Imparai a fare ricerche. Di sito in sito, di link in link, arrivai alla verità. Mia madre era stata una grande pianista, una promessa internazionale secondo molti, ma a vent’anni aveva abbandonato le scene. Si era sposata.

Sapete una cosa? Io non piango mai. Per favore non chiedetemi perché.

Angela Pessina

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Non posso dimenticare

Io non posso perdonare, perché non posso dimenticare. Non posso dimenticare come hai distrutto la spensieratezza e la leggerezza che avrebbe dovuto accompagnare i miei vent’anni.

Non posso dimenticare come hai demolito quel senso di fiducia nell’altro che, forse ingenuamente, da sempre mi ha contraddistinta.

Non posso dimenticare come, attraverso il tuo narcisismo, hai deciso di annullare il mio valore, considerandomi un oggetto di tua proprietà, privandomi della libertà di scegliere.

Non posso dimenticare come oscillavi tra il chiedermi aiuto disperatamente e il vomitarmi addosso tutta la tua rabbia, come se fossi io la causa del tuo tormento.

Non posso dimenticare il mio desiderio di urlare e di come questo non sia mai stato ascoltato e compreso da nessuno, poiché nessuno poteva garantirmi una protezione dal tuo delirio.

Non posso dimenticare come invece sia stato chiesto a me di cambiare, di nascondermi, di andare lontano, di modificare le mie abitudini e sparire, come se fossi io quella sbagliata.

Non posso dimenticare gli sguardi attoniti delle persone che mi circondavano e la facilità con cui hanno deciso di voltarsi dall’altra parte.

Non posso dimenticare gli occhi preoccupati di mia madre, che mai sono stati così in grado di comunicare, pur senza dire una parola.

Non posso dimenticare la paura, non ci riesco.

L’unica cosa che posso fare invece è imparare a convivere con la mia sofferenza, guardandola dritta in faccia ed impedendole di disintegrarmi ogni volta che ci penso, perché nulla ormai si può fare rispetto a quanto già accaduto.

Federica Turolla

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Mi chiamo Alessandra e sono una femmina

Mi chiamo Alessandra e sono una femmina.

Non mi sono mai sentita completamente a mio agio con il mio essere femmina, come se ci fosse qualcosa di fuori posto. Non ho mai amato il rosa, non so truccarmi se non con un accenno di matita e mascara e non amo fare shopping. Da bambina giocavo con le macchinine più che con le barbie, anche se ne ho comunque qualcuna a casa. Ho sempre avuto più amici maschi che amiche femmine, non per principio, ma perché mi sentivo più in sintonia, più simile. Mi piaceva fare sport, giocare a calcio e a pallavolo in cortile, organizzare serate giochi in scatola, andare al bowling, giocare a bocce in spiaggia. Qualche sera d’estate ancora oggi ascolto le mie amiche parlare di prodotti di bellezza, trucchi e maschere per capelli e vivo un senso di inadeguatezza, come se mi sentissi estranea a un mondo a cui forse appartengo dalla nascita, come per diritto, ma di cui non capisco le regole e le forme.

Guardo con ammirazione mascherata la femminilità di alcune donne, che sanno muoversi con sensualità e dolcezza, senza mai risultare volgari, mentre io mi sento così poco aggraziata. Qualche giorno fa una ragazza con cui lavoro mi ha detto ”Ale ma tira su quei piedi, come cammini? Li stai rovinando quei poveri stivali!”. Mi sembra che il femminile e la femminilità abbiano un segreto a cui non riesco ad accedere, un po’ per scelta, un po’ per incapacità, un po’ come se ci fosse una serratura di cui non possiedo la chiave.

Sono femmina e mi piacciono tante cose che molti definiscono da maschio. Scherzando in famiglia, mi è sempre stato raccontato l’aneddoto che il mio papà, che ha sempre voluto figli maschi, ha fatto due figlie femmine che sembrano due maschi (soprattutto per il tifo calcistico). Ma poi, in verità, non ho mai capito perché ci fossero cose che si definiscono da maschio e altre da femmina, come se ci fosse una particolare predisposizione neuronale per le macchine se sei maschio e per le bambole se sei femmina.
E in fondo, a pensarci bene, quello che mi piace è trascorrere del tempo giocando, leggendo, guardando film, parlando di viaggi e di mostre e proprio non saprei incasellare questi hobby in fiocchi azzurri o rosa.

So che mi chiamo Alessandra e che sono femmina, del resto, non me ne è mai importato granché. Sento però dentro di me una cosa che riconosco essere tipica delle donne, ed è la paura. Ho paura di notte, quando cammino per le vie della città e provo a distrarmi con dei diversivi, cercando però di rimanere sempre all’erta nel caso arrivasse qualcuno. Ho paura quando sono a casa da sola la sera e sento un rumore sospetto. Ho paura quando sono alla pompa di benzina e sono sola, le chiavi servono ad aprire lo sportello del carburante e io non potrei scappare.

Ho paura, ho paura quando…non so, so che c’è sempre una paura di sottofondo che mi accompagna, come un fedele alleato che rimane nell’ombra e che emerge solo in alcuni momenti significativi, ma in fondo non ti abbandona mai.

Non ho paura perché sono Alessandra. Ho paura perché sono femmina.

Non mi piace giocare a calcio perché sono un maschiaccio, ma perché sono Alessandra. Non mi piace un look acqua e sapone perché sono poco femminile, ma perché sono Alessandra. Non amo giocare a bocce in spiaggia perché sono come un maschio, ma perché sono Alessandra.

Ma ho paura per strada non perché sono Alessandra, ma perché sono femmina. E questo mi fa arrabbiare.

Lo do per scontato, come se fosse normale vivere così e molto spesso mi dimentico di interrogarmi se è davvero così tanto normale vivere così.

Alessandra Messa

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Selvaggi precisi

Carlo Galbiati

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Il lunedì della svolta

È un lunedì freddo e lento come tanti altri lunedì d’inverno, con l’unica differenza che è da tre giorni che piove incessantemente. Mi incammino verso l’ufficio dove faccio ripetizioni e da lontano vedo già i bimbi che mi stanno aspettando con la schiena curva a causa della cartella troppo pesante. O forse a causa delle due ore di ripetizioni noiose che li aspettano.

I miei pensieri vengono interrotti da uno più urgente: devo attraversare la strada per allontanarmi dal negozio di quel signore pelato, quello che mi fa sempre commenti molto poco carini e mi fischia alle spalle come se fossi un cane. Come ogni lunedì a quest’ora è affacciato alla porta, intento a fumarsi la sua schifosa sigaretta, e come ogni volta, sembra aspettare proprio il mio arrivo, per penetrarmi da parte a parte con quello sguardo che sa di frustrazione e impotenza mascherate da arroganza.

Dicevo, mi allontano e vado sul marciapiede al lato opposto della strada affrettando il passo. Ma oggi, questa cavolo di pioggia ha creato una pozza enorme e non mi resta che passarci in mezzo inzuppandomi gli stivali. Ma manca poco, sono quasi arrivata alla fine della via e da lì tornerò indietro per entrare in ufficio.

E poi improvvisamente mi scatta qualcosa nel cervello: sono stufa di fare questo teatrino ogni settimana, sono stufa di iniziare il mio lavoro quasi con le lacrime agli occhi perché mi sento impotente e nauseata, sono stufa di non poter reagire, per paura che il mezzo uomo non si fermi soltanto alle parole ma passi agli atti. E allora decido di attraversare la strada proprio davanti a lui e lo guardo dritto negli occhi, mentre sta già ridendo con quel suo ghigno, tipico di chi pensa di avere tutto a sua disposizione e si prepara a dire le sue solite frasi piene di veleno.

Con passo deciso gli vado incontro ed è a questo punto che vedo, per la prima volta, l’incertezza nei suoi occhi e, quasi come se il mio metro e cinquanta di statura potesse incutergli paura, comincia ad indietreggiare e si fa piccolo piccolo di fronte a me. Mi guarda con aria perplessa mentre gli urlo in faccia tutto il mio dolore e gli dico che non sarebbe rispettoso fischiare nemmeno ad un animale.

Subito dopo me ne vado trionfante, consapevole che in realtà non ho compiuto chissà quale impresa. Ora tutti i lunedì Sergio, il mezzo uomo redento, mi aspetta sulla soglia del negozio per salutarmi in tono educato e chiedermi com’è andata la settimana.

Elisabetta Vanzini

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Rispetto e cura

Non sono una bambola, non sono qui per soddisfare esclusivamente le tue voglie, io non sono tua, non voglio essere il tuo sfogo, ma neanche la tua roccia o la tua ancora di salvezza. Io voglio che ci salviamo insieme. Non voglio essere la tua stampella emotiva, camminiamo insieme, uno accanto all’altra con le nostre fragilità e difficoltà.

Non sono perfetta, non cucino bene, non sono sempre allegra, ho i miei difetti, ma voglio che tu mi accetti per quel che sono. Perché questa sono io e io non sono sbagliata.

Aiutami a rispettarmi e io ti aiuterò a rispettare te stesso. Salviamoci insieme, io ti tenderò la mia mano, ma non dovrò essere io a trascinarti a galla, anche tu dovrai nuotare con me perché abbiamo bisogno di avere rispetto e cura l’uno dell’altra.

Asia Olivo

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Prendimi le mani

Ripenso alle urla e al bisogno di avere accanto a te un uomo che ti desse quella serenità promessa e mai mantenuta. I tuoi occhi scrivevano e disegnavano tutto ma ero cieco, forse accecato dalla mediocrità che mi invadeva i sentimenti e polverizzava la mia umanità.

Oggi, la consapevolezza di ciò mi procura un dolore forse paragonabile al tuo, sommerso dalla solitudine. Ma proprio questo dolore, sentito nel mio intimo, mi permette di riconsegnarmi a te, desertificato dal male e nutrito di te che negli anni hai saputo mantenere la rotta e indirizzarmi, uomo a te.

I dolori non si possono estinguere, ma possiamo, oggi, insieme modellarli con la complicità dei nostri occhi.

Non solo sguardi, niente più silenzi…
Prendimi le mani e guidami

Roberto Cannavò

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Il buio

Vorrei che quella ragazzina di 16 anni che, in centro città, si avvicinava al suo motorino per tornare a casa non avesse dovuto aver paura. Un motorino che non partiva e tu, che nel buio sei apparso cercando di fare il male che avevi in mente. Vorrei che quella ragazzina non avesse dovuto correre via, con tutta la forza, mentre tu la inseguivi. E vorrei tanto che la responsabilità, oggi, si impadronisse della tua coscienza, proprio come volevi fare con una ragazzina molto più piccola di te.

E vorrei che tutti i Teseo accompagnassero le ragazze nel buio, anziché essere il buio stesso.

Alessia Adorni

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Non è solo un complimento

Quando si parla di violenza di genere, ci vengono in mente gli episodi più barbari e violenti riportati dai programmi televisivi o che leggiamo sui giornali. Ci saltano alla mente gli episodi, ahimè numerosissimi, che quotidianamente avvengono nel nostro paese: tentati omicidi ai danni della compagna o moglie; una ragazza che viene picchiata in centro città dal suo ragazzo; l’ennesima madre uccisa dal padre dei suoi stessi figli, i quali d’ora in poi saranno condannati a vivere in una realtà in cui la mamma tanto amata non può più essere presente affettivamente, psicologicamente e fisicamente, e il padre traditore men che meno, perché condannato al carcere o perché ha compiuto un omicidio-suicidio; uomini che piuttosto che accettare una separazione decidono di uccidere i figli che hanno messo al mondo per far sentire in colpa a vita la donna che rimane sola e distruggerla psicologicamente.

In Italia, un nuovo nome si aggiunge alla già lunga lista di vittime di femminicidio ogni tre giorni. Solo tre giorni. E ovviamente tutti rimaniamo indignati di fronte a queste notizie, ma troppo spesso non si va oltre l’indignazione e dopo pochi giorni ci si dimentica dell’ennesima povera disgraziata che ha incontrato la morte per mano di chi le prometteva amore.

Non si va oltre l’indignazione. Non si va oltre il feticismo del dolore altrui. Non ci si chiede come sia potuto succedere, che cosa abbia portato a quell’ennesimo, straziante e in troppi casi ultimo, episodio di violenza. Non ci si chiede il perché dell’evento o, se la causa scatenante viene ricercata, lo si fa quasi per tutelare se stessi, per proteggersi dietro il pensiero che questi uomini devono per forza essere pazzi per aver compiuto un’azione del genere, devono per forza avere una qualche forma di disturbo.

Ma non ci si chiede veramente il perché. E se invece scoprissimo che i prodromi dei fatti di cronaca che tutti conosciamo sono nelle azioni quotidiane, banali, che ogni giorno ogni donna subisce, talvolta senza nemmeno rendersene conto lei stessa?

Non sono violenza di genere tutti gli stereotipi che fanno parte della nostra cultura, del nostro linguaggio e dei nostri valori? Non è forse violenza di genere quando, per descrivere un essere umano che ha numerosi rapporti sessuali con persone diverse, si usano termini come “farfallone”, “uomo di mondo” se il protagonista è un uomo, mentre per una donna non si esita a definirla “puttana”?

E con quale termine si può categorizzare il comportamento di un ragazzo che decide di vendicarsi per la fine del rapporto con l’ex ragazza condividendo con gli amici sue foto intime?

Perché molti uomini – e anche donne – ridono quando si fa la solita battuta risentita fino allo sfinimento riguardo al fatto che “si sa, le donne non sanno mica guidare, figuriamoci fare i parcheggi a S”?

Per quale motivo a una donna di 50 anni, realizzata e felice ma senza figli, viene spontaneo dire con amarezza: “che peccato.. mi dispiace che tu non sia riuscita ad averli” senza nemmeno essere sfiorati dall’idea che può essere una scelta legittima quella di vivere senza mettere al mondo creature, e senza per questo essere “donne fredde e ciniche”?

Quante volte capita di leggere sulle testate giornalistiche dei titoli tipici di una narrazione violenta, in cui si riporta che il pover’uomo distrutto e abbandonato dall’ex compagna ha tentato di suicidarsi e di portare con sé anche i figli perché troppo innamorato? O del famoso manager di successo che non è riuscito a resistere ai suoi istinti perché la collaboratrice domestica aveva la divisa troppo scollata?

Al giorno d’oggi è normale che una ragazza di 20 anni, che fa la cameriera per avere una primissima indipendenza economica, si senta dire che non è buona a nulla, non fatica abbastanza, non è capace di fare il suo lavoro ma che, nonostante questo, non viene licenziata perché bella e, si sa, in un bar le ragazze carine attirano clienti, e il cliente ha sempre ragione, anche quando fa commenti e richieste inopportune. È normale che tutti ridano quando il proprietario, con spirito goliardico, fa battute alludendo al fatto che la giornata di lavoro della cameriera in questione non finirà di certo all’ora di chiusura del locale, perché la ragazza deve soddisfare in tutto e per tutto il suo capo.

E perché te la prendi se per strada gli uomini, mentre stai camminando tranquilla, ti urlano frasi sessiste al suon di clacson come “ciao bella”, “mamma cosa ti farei” o fischiano per chiamarti come se fossi un cane! E dai, è un complimento, vuol dire che piaci! Come siete suscettibili voi donne!

Pochi pomeriggi fa, aiutavo Samuele, il bambino di cui mi prendo cura, a fare i compiti per il giorno dopo. Esercizio di inglese, present continuous, inserisci i verbi coniugati nelle frasi corrette: la mamma stira e lava i piatti, mentre il papà è tornato dal lavoro e guarda la tv. Samuele mi guarda e mi chiede perché la mamma sta a casa ad occuparsi delle faccende domestiche mentre il papà è al lavoro. Samuele, quella piccola peste intelligente che dopo due minuti stava già correndo verso la playstation, mi ha dato uno scossone. I bambini possono stupirsi di quello che per noi adulti è diventato tanto normale da non accorgerci della sua assurdità. Purtroppo non sono solo frasi banali. Sono messaggi subdoli, che destano poco allarme e che, ripetuti quotidianamente, generano assuefazione al male che vi si cela dietro. 

Per fortuna, non ho avuto esperienze di violenza e maltrattamenti gravi nella mia vita. Per fortuna. Ma la stessa sorte non è capitata a tutte le ragazze e le donne che, per svariati motivi, si innamorano di un uomo che spezza loro le ali al posto di valorizzarle.

Quindi questo chiedo a tutti gli uomini che fanno parte del mio gruppo e non solo: che insegnino prima di tutto a se stessi qualora non lo avessero già fatto, e poi ai loro figli, amici, conoscenti e qualunque persona intorno a loro, che la violenza è così radicata nel nostro modo di pensare perché nasce dalle azioni più semplici come il linguaggio comune e gli stereotipi quotidiani. 

Chiedo a tutti gli uomini di smarcarsi e scollarsi dall’idea che una suonata di clacson non abbia mai fatto del male a nessuno, anzi, al massimo ha rinvigorito la tua autostima di donna… “perché sei desiderata”! 

Vi chiedo di indignarvi di fronte a tutti i gesti e parole apparentemente banali, e non solo di fronte alle notizie di cronaca che annunciano l’ennesimo nome, dell’ennesima donna, vittima dell’ennesimo femminicidio, perché è facile indignarsi di fronte a eventi di questo calibro. 

Vi chiedo di indignarvi di fronte ad un complimento che tale non è, perché poi la donna “tanto desiderata” si sentirà impotente e per giunta stupida perché “in fondo è un complimento, dovresti essere contenta di piacere agli uomini”.

Riusciremo a modificare la nostra cultura di genere e a combattere tutte le forme violenze più gravi solo quando tutti cominceranno ad indignarsi di fronte a frasi apparentemente banali, e urleranno a squarciagola che no, in fondo non è solo un complimento. 

Elisabetta Vanzini

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