Il padre

I Greci antichi avevano capito molte cose. Tra le loro opere l’Odissea può ancora oggi trasmetterci messaggi preziosi che, tra l’altro, aiutano anche a chiarire alcuni concetti su cui anche noi del Gruppo stiamo riflettendo, accettando alcune interpretazioni o dubitandone.

Nell’isola di Itaca spadroneggiano i Proci, figure proterve che circondano con la loro tracotanza Penelope, regina dell’isola, rimasta sola a governare perché il marito Ulisse è partito per la guerra e, dopo anni, ancora non fa ritorno. La insidiano, si sono installati nella reggia dove passano il tempo tra gozzoviglie e alterchi. Insidiano la sua virtù di donna chiedendola in moglie e pretendendo che lei scelga uno di loro e insidiano nel contempo il suo potere, perché bramano il regno.

Penelope si difende come può, procrastinando la scelta fino al momento in cui avrà finito la tela che la vede impegnata ogni giorno. Ogni giorno diligentemente tesse e la tela si allunga ma poi la notte con altrettanta diligenza la disfa, accorciandola.

Telemaco, il principe figlio di Ulisse e Penelope, cresciuto senza padre e divenuto adolescente non sopporta più la situazione. È arrabbiato col padre perché è cresciuto senza di lui, gli sono mancati attenzione, affetto, insegnamenti, sicurezza che la presenza di un padre dovrebbe garantire. È arrabbiato, poco gli importa che suo padre sia un guerriero valoroso, un eroe di cui la società ha bisogno.

È molto arrabbiato ma capisce che senza il padre la situazione sua, familiare, dell’isola, sarebbe precipitata fino a un punto di non ritorno. E allora prende la sua prima decisione da uomo: va a cercarlo. Arma una nave, si procura l’equipaggio e lui, giovane che non si è mai allontanato da casa, inesperto di mare e digiuno di arte della navigazione, va a cercare il padre.

Reparto LA CHIAMATAGenitori e Figli

Nuccia Pessina

Un reparto d’atmosfera

In un reparto che nasce per i giovani carcerati, ritengo siano almeno due gli elementi che non possono mancare per una giusta partenza: un’atmosfera di libertà e di responsabilità, come dovrebbe essere fuori, nella società dei “normali”, se le cose andassero per il verso giusto.

La libertà dev’essere nell’aria, si deve respirare a cominciare dall’inizio: la libertà di aderire all’ingresso nel reparto. Nel reparto ci entra chi vuole e deve sapere che molte saranno le attività proposte e quelle richiedibili ma che tutte dovranno convergere verso un obiettivo imprescindibile: la costruzione della responsabilità.

Dopo la scelta iniziale, la libertà dovrà manifestarsi nella possibilità di interazione con gli interni ma anche con gli esterni. Interazioni con coetanei ed educatori, con esperti e insegnanti, con psicologi e volontari, interazioni che presuppongano ascolto e collaborazione, impegno individuale e coinvolgimento di gruppo, formulazione di obiettivi in cui riconoscersi e per cui lavorare e  valutazioni del percorso condivise.

Un lavoro immane ma anche entusiasmante! Il confronto deve essere continuo e, per essere stimolante, dovrà basarsi su attività varie: letture da comprendere, interpretare e su cui dibattere; composizioni personali spontanee o guidate; visione di filmati e osservazioni di immagini; ascolto di musiche, messa in scena di canovacci proposti o frutto delle varie discussioni o rielaborazione personale….

Chi sarà a fare le scelte e a guidarle? Un educatore? Uno psicologo? Un carcerato? Un triumvirato? Questa domanda e le risposte che le si daranno sono importanti quanto il punto di partenza.

Due, secondo me i pre-requisiti perché il progetto abbia le gambe: il desiderio di partecipare e la capacità di ascoltare sé e gli altri, da parte di tutti i soggetti coinvolti.

Sicuramente ci sarà molto da discutere e da lavorare per individuare obiettivi di breve, medio e lungo termine. Per poterlo fare bisogna sapere quali soggetti esterni e con quali competenze parteciperanno ai lavori, quali i tempi e le disponibilità delle istituzioni, quali le aspettative.

Un punto di partenza ma anche una stella polare per orientarsi nel percorso potrebbe essere l’affermazione del dottor Aparo che “si suicida chi non ha obiettivi credibili e porta dentro un rancore profondo”, giusto per non dimenticare che il percorso non potrà essere solo culturale ma anche psico-pedagogico.

Reparto LA CHIAMATA

Gli orizzonti della miseria

Vedo nelle riflessioni pseudo-sociologiche deliranti di Raskolnikov la sapiente costruzione di un nemico contro cui combattere e potersi scagliare, un nemico che legittima la sua identità.

L’usuraia è il “pidocchio” perfetto da eliminare senza porsi troppi interrogativi. Persino il caso, che fa capolino tra le righe, viene comunque piegato a beneficio delle sue teorie e dei suoi obiettivi.

Per caso entra in trattoria e ascolta la conversazione tra due sconosciuti a proposito dell’usuraia e le informazioni che riceve dal loro colloquio sempre più lo autorizzano a compiere un’azione per la quale non esiste nessuna possibile autorizzazione.

Emerge la Russia in questo romanzo, come in tutti gli scritti di Dostoevskij, una Russia, tra le altre cose, poverissima.

Si delinea una miseria che spinge le persone ad abitare in stanzucce così anguste da poter raggiungere il chiavistello della porta d’ingresso senza alzarsi dal divano.

Una miseria che fa girare Raskolnikov malvestito, sudicio perché non possiede biancheria di ricambio, con gli stivali sfondati.

Una miseria che tiene Raskolnikov a pane e acqua, per giorni senza mangiare, in preda a una febbre che lo porta al delirio, mascherando con questo quello precedente, forse innato o stimolato dalle circostanze.

Una miseria che lo spinge fuori corso, gli fa abbandonare l’Università, lo allontana da quei dibattiti nei quali amava infervorarsi e che testimoniano il bisogno di rinnovamento che come un fremito percorre la Russia del periodo.

Una miseria così nera da spingere a porre una domanda, che talvolta io ancora oggi mi pongo e a cui non è così scontato trovare una risposta soddisfacente: una persona febbricitante e digiuna da giorni quanto può essere lucida? Esiste un rapporto tra malattia e crimine? E se esiste qual è? Come lo si definisce?

Delitto e Castigo

La macchia gialla

Si era più o meno di questa stagione.

Il mio papà una mattina mi portò a casa di mio nonno. Mio nonno faceva il contadino e abitava in una casa che, come quelle dei suoi vicini , anch’essi contadini, si affacciava su un grande cortile, di fatto un’enorme aia. Non mi piaceva particolarmente andare a casa di mio nonno, non saprei dire perché. Quel giorno, però, mi aspettava una sorpresa. Quando arrivai, superato il portone d’ingresso nel cortile, non riconobbi il luogo. Una magia l’aveva trasformato: l’aia era diventata color giallo sole e il contrasto col cielo azzurro era sorprendente. Ai bordi erano sedute molte persone che stavano sgranando le pannocchie di granturco. Chi canticchiava, chi parlottava, e intanto i chicchi gialli cadevano per terra e si aggiungevano agli altri, e la macchia gialla si allargava sempre di più.

La bellezza di quell’immagine mi avvicinò a mio nonno e al suo mondo e dopo quella volta ci andai  volentieri.

La bellezza di quell’immagine mi è rimasta nel cuore.

Officina creativa

Una mappa per la pena

In relazione al prossimo convegno su “Una mappa per la pena” voglio provare a riassumere  quanto ho acquisito nei miei dieci anni di volontariato col Gruppo della Trasgressione.

Tutte le settimane ho ascoltato per ore i detenuti parlare di sé, dei propri sentimenti, desideri, emozioni, frustrazioni e per ore ho ascoltato le risposte dello psicoterapeuta dottor Aparo e dei vari componenti esterni del gruppo. Per ore ho ascoltato il dialogo cui anch’io ho dato il mio contributo e ho imparato molto.

Ho imparato che l’arresto, la condanna e qualche volta la carcerazione sono necessari per fermare l’abuso. Ho sentito gli stessi detenuti dire: “Per fortuna mi hanno fermato… se non mi avessero fermato avrei continuato a delinquere

Ho imparato anche che la carcerazione, pur tante volte necessaria, non è sufficiente per adempiere pienamente al dettato costituzionale, dove si afferma che la pena non deve avere solo valore afflittivo ma rieducativo.

Alle Istituzioni, per far sì che i detenuti diventino cittadini pienamente partecipi della società che hanno offeso, chiederei di prevedere, già dal primo periodo della condanna definitiva, un progetto e percorso di evoluzione.

Gli obiettivi dovrebbero essere l’acquisizione di una coscienza e la conseguente capacità di assumersi le proprie responsabilità.

Per arrivare alla coscienza, sulla base dell’esperienza acquisita in questi anni di partecipazione attiva alle dialettiche serrate del gruppo della trasgressione, credo siano indispensabili alcuni passi:

  • indagare con metodo sull’abuso commesso, sulle modalità e sulle ragioni, aiutando l’abusante a portare alla luce sentimenti, attitudini e pensieri al momento del reato. Ciò farebbe acquisire consapevolezza di sé e della realtà;
  • esplicitare con chiarezza che l’obiettivo da raggiungere è l’esercizio della responsabilità, che è tratto tipico del cittadino adulto;
  • creare occasioni di contatto con il mondo esterno che tolgano il detenuto da un isolamento che, pur spiacevole, può diventare una comfort zone difficile da abbandonare;
  • creare occasioni in cui i detenuti riescano a individuare una funzione da svolgere e si sentano utili alla società che in precedenza hanno offeso, irrobustendo così la parte migliore di sé.

Infine, in relazione al formarsi di una coscienza, credo  importante:

  • che l’abusante arrivi a conoscere personalmente le conseguenze del gesto compiuto (materiali e morali, difficoltà, dolore, ansia), se non della sua vittima diretta, almeno di una vittima che ha subito lo stesso tipo di abuso;
  • che il percorso di evoluzione preveda la possibilità di verificare in situazioni concrete la reale acquisizione di capacità nell’esercizio e nel… piacere della responsabilità.

Tante sono le competenze che questo approccio richiede, ma sono consistenti anche i vantaggi e i risultati ottenuti nei 25 anni che il gruppo compie quest’anno. I tanti detenuti che alla distanza ne confermano l’efficacia suggeriscono che questa possa essere una giusta modalità operativa o, quanto meno, una direzione che merita di essere studiata per valutarne la portata, i pregi e i limiti.

Nuccia Pessina                              Una mappa per la pena

Tre barche

Aiuto, fateci salire!

Che cosa ci fate qui? Dov’è la vostra barca?

Era un canotto, si è bucato, stava affondando, così ci siamo buttati.

Ma da quanto state così?

E’ venuto buio due volte.

Più di 48 ore? Sarete esausti.

Lo siamo!

Quanti siete?

Siamo in cinque, ma tanti ce ne sono stati prima di noi e tanti ce ne saranno.

E gli altri?

Gli altri sono in fondo al mare.

Ecco ci siamo, riuscite ad arrampicarvi sulla scaletta?

Ci proviamo.

Ma lui perché non si muove?

Rascid, Rascid! Forza, tirati su!

(Ma Rascid non sente e non risponde. Rascid non c’è più)

Voi chi siete?

Siamo pescatori.

E perché ci avete presi su?

Eravate in pericolo e di questo avevate bisogno, di essere presi su.

Grazie.

E’ una legge del mare. Chiunque sia in pericolo, viene salvato dai marinai.

E se fosse un nemico?

Quando un uomo è in pericolo di vita, prima bisogna salvarlo, le categorie cominciano dopo. Se si scoprirà essere un nemico, avremo salvato un nemico, ma quando l’abbiamo deciso era un uomo che volevamo salvare.

Ma sarà ancora un nemico l’uomo che è stato salvato?

Forse sì. O forse apparterrà prima alla categoria dei salvati che a quella dei nemici. Lui stesso in quanto salvato si sentirà di appartenere alla categoria dei riconoscenti, poi a quella dei nemici.

Ma, che cosa vuol dire sentirsi un riconoscente?

Per esempio scoprire che dopo essere stato aiutato, sentire che a tua volta vorresti aiutare. Così ti succede una cosa strana. Guardi gli altri e, per la prima volta, li vedi davvero. E vedi le loro debolezze e per la prima volta non te ne approfitti. Anzi, cerchi di sostenerle.

Questo è un riconoscente?

Sì, questo è un riconoscente. Questo è un uomo.

Adesso che ne sarà di noi?

A)

Vi portiamo all’isola, vi ripuliamo, vi diamo da mangiare e poi da dormire.

E poi?

Poi, una volta rifocillati e ripuliti sarete liberi di andarvene.

E come faremo senza una guida?

Vi verranno forniti gli strumenti per cavarvela. Avrete imparato un mestiere, conoscerete una lingua nuova per andare nel mondo senza perdervi, per entrare nel mare senza affogare.

B)

Vi portiamo all’isola, vi rifocilliamo.

E poi?

Poi aspetterete

Che cosa?

Che il tempo passi, che arrivino le carte, che vi trasferiscano.

Per portarci dove?

In un’altra isola.

E lì che cosa faremo? Che cosa?

Che passi del tempo.

Quanto tempo?

Quello che sarà necessario.

E poi?

Poi ve ne andrete. Sarete liberi.

Liberi? Forse saremo liberi di andarcene dall’isola, ma non di andarcene dalla parte malata di noi stessi.

C)

Vi portiamo sull’isola, vi rifocilliamo.

E poi?

Poi aspetterete.

Che cosa?

Che il tempo passi, che arrivino le carte, che voi facciate delle scelte.

Che cosa mai dovremmo scegliere?

Vi verranno fatte delle proposte. Potrete seguire dei corsi, a vostro gusto.

E come sapremo quali ci saranno davvero utili? Corsi di cosa?

Un po’ di tutto. Poesia, teatro, scuola…

E’ una specie di scuola ?

Una specie, sì.

Che cosa ci insegnano?

Che cosa vi insegnano, che cosa vi insegnano! Un po’ tutto e un po’ niente. Non siate petulanti.

Ma ci insegnano a nuotare?

Nuccia Pessina

Officina creativa

Per una pena non ostativa alla coscienza

In qualità di volontaria e componente del Gruppo della Trasgressione e dopo anni di frequentazione e di ascolto dei detenuti e delle loro esperienze, vorrei esprimere ciò che ne ho ricavato, sperando di dare un contributo al documento che il nostro gruppo si prefigge di produrre sull’ergastolo ostativo.

Le persone arrivano in carcere perché hanno effettuato delle scelte e di queste i detenuti parlano già dai primi tempi della frequentazione del gruppo. Ascoltandoli, si coglie che molti di loro, guardando all’indietro, considerano le loro scelte (quelle che si sarebbero poi rivelate gravide di conseguenze) a volte del tutto casuali, altre volte inevitabili: casuali, soprattutto quelle all’inizio della loro esperienza deviante; inevitabili, quelle avvenute dopo tante altre effettuate nella stessa direzione e in una fase avanzata del cammino che li avrebbe condotti in carcere.

Ad ascoltare un detenuto all’inizio del suo percorso di riflessione, si comprende che, secondo lui, tali scelte (casuali o indotte dalle circostanze) erano state comunque espressione della sua volontà; si avverte chiaramente che è sua esigenza rassicurare se stesso d’essere stato protagonista consapevole della propria vita.

Man mano che il percorso di riflessione avanza e si approfondisce, il detenuto comprende e ammette che non è così, che le sue scelte, anche quando egli se ne sentiva pienamente autore, erano avvenute perché egli non aveva consapevolezza o volontà sufficiente per scegliere diversamente, perché il suo sguardo sul mondo e sulle persone e, non di meno, gli stati d’animo che viveva all’epoca restringevano drasticamente l’orizzonte delle scelte riconoscibili e, a conti fatti, accessibili.

Dunque, uno dei nodi da affrontare quando si vuole parlare di rieducazione è la ricognizione dei sentimenti, delle emozioni, degli stati d’animo, delle influenze che avevano agito sulla persona nello spaccato della sua realtà familiare e sociale, guidandone le scelte, apparentemente libere, in realtà profondamente condizionate.

A tale ricognizione è importante che il detenuto arrivi per sua decisione, cioè in conseguenza di una scelta sintonica con i suoi desideri attuali, consapevole che ciò che scoprirà o ricorderà sarà di enorme aiuto per conoscersi, per capire chi era prima di deviare e per cominciare a ritrovare parti di sé e aspirazioni che credeva perdute o che non sapeva nemmeno di avere.

Così comincia la (ri)costruzione della coscienza. Tale (ri)costruzione è l’obiettivo della rieducazione di cui parla la nostra Costituzione.

Un aspetto centrale è la convinzione che la rieducazione non cambi l’indole o la personalità del detenuto; non le cambia perché non è possibile o perché non è auspicabile? E dunque, a che cosa deve mirare la rieducazione?

Ad aiutare il detenuto a ricostruire una scala di valori in base alla quale effettuare le proprie scelte!

Quella usata al tempo dei reati, infatti, si è rivelata fallace, ma era quasi sicuramente ego-sintonica; bisogna dunque costruirne una nuova, adatta alle scelte di un cittadino e non più di un criminale, ma altrettanto capace di rappresentare i desideri della persona che nel frattempo si è diventati. Non è opportuno che la scala di valori sia imposta al detenuto, deve essere da lui (ri)scoperta, accettata e introiettata.

Per arrivare a questo punto, ma soprattutto per andare oltre e migliorarsi sempre, il confronto con le persone che vengono dall’esterno è indispensabile. Persone, gruppi, scolaresche, studenti, tirocinanti, volontari, chiunque desideri mettersi a disposizione di una rinascita individuale e sociale. La ristrettezza delle sbarre, inevitabile all’inizio e forse anche utile, man mano deve essere accompagnata da un confronto con il mondo esterno.

In questo quadro quale funzione attribuire all’ergastolo o all’ergastolo ostativo?

L’ergastolo contribuisce di per sé alla (ri)creazione della coscienza, che è l’unica forma di rieducazione valida e duratura? Io non credo. La carcerazione, più o meno lunga in relazione al reato, rappresenta la punizione per il reato commesso e, forse, è anche necessaria e opportuna, ma deve sempre essere il presupposto per una crescita personale che riporti il detenuto ad essere un uomo e un cittadino; deve quindi essere affiancata a un percorso di evoluzione, senza il quale risponderebbe solo a criteri punitivi, forse comprensibili dal punto di vista del singolo cittadino, ma certamente sterili dal punto di vista di uno Stato che ha come obiettivo dei cittadini responsabili.

L’ergastolo ostativo contribuisce per le sue caratteristiche a far meglio dell’ergastolo normale? Io non credo, perché il vincolo che rende indispensabile la collaborazione con la giustizia, come elemento per giudicare attendibile il pentimento e la dissociazione dal mondo malavitoso di appartenenza, non garantisce quello che promette e potrebbe anche essere usato dal detenuto in modo opportunistico.

Egli potrebbe non avere nulla di nuovo e di utile da segnalare alla giustizia, o potrebbe temere ritorsioni contro la sua persona o i suoi cari, o potrebbe anche segnalare vecchi compagni di squadra senza davvero essersi dissociato interiormente, senza avere acquisito di nuovo una coscienza.

Parlare di ergastolo, dunque, non ha senso se si vuole davvero incidere sull’umanità che ha sbagliato e darle la possibilità di dimostrare di averlo capito. Senza questa speranza l’ergastolo, e forse in particolare l’Ergastolo Ostativo è una vendetta e non più una punizione.

A questo punto il problema potrebbe essere quello di avere gli strumenti per misurare il possesso di una coscienza. Il Gruppo della Trasgressione è stato spesso efficace in tal senso e questo è il motivo per cui si è guadagnato la stima e il riconoscimento da parte di molti, ultimamente anche delle Istituzioni carcerarie e politiche. Lo stesso, immagino, vale per altri gruppi che perseguono finalità analoghe.

Ma se questi gruppi hanno un valore, se rispondono a quanto la Costituzione e i nostri ordinamenti si aspettano dalla pena, perché non vengono sostenuti? Se quello che da questi gruppi viene fuori è un risultato effettivo e riconoscibile, è necessario che l’istituzione ne esamini l’operato, approfondisca se e come ciascuno di loro coltiva gli obiettivi cui deve rispondere la pena, ne sostenga il confronto degli uni con gli altri. E laddove vengano riconosciuti l’efficacia e i risultati del loro operato e del metodo, occorre renderli paradigmatici, dotandosi delle risorse umane indispensabili perché tutto ciò funzioni al di là dei pionieri che hanno aperto nuove strade nel campo della rieducazione.

Se anche c’è stato un tempo in cui i laboratori della coscienza nati in carcere sono stati più simili a botteghe d’arte che a officine, oggi è probabilmente giunto il momento di provare a far diventare scienza quello che in passato è stato il risultato dell’estro di qualcuno. In questo modo, molti più detenuti tornerebbero a essere uomini, le carceri sarebbero meno affollate, la società sarebbe più sicura.

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Il potere di generare

Chi è la donna nella mente di chi l’ammazza, da figlio o da compagno? Anche di questo si parlava nell’incontro del 30 marzo.

Io credo che all’origine della violenza contro la donna ci sia una questione di potere. Quale potere nel caso specifico? Quello di generare una vita.

Per millenni la donna ha partorito figli generati da un congiungimento carnale con l’uomo. Per millenni il controllo della fertilità è stato volto a massimizzare la fecondità del corpo femminile.

L’aumento demografico nel XVII secolo divenne addirittura un requisito politico auspicabile per aumentare o sostenere la potenza di uno stato (popolazionismo). Solo dalla seconda metà dell’ ‘800 il controllo delle nascite ha assunto un carattere limitativo, esercitato con l’interruzione del rapporto sessuale, socialmente diffusa e culturalmente riconosciuta tanto da essere indicata da Freud come portatrice di nevrosi.

Si è passati dal figlio come possibile conseguenza del desiderio sessuale dell’uomo per una donna, e della donna per un uomo, al figlio come oggetto della volontà cosciente.

Poi sono arrivati gli anticoncezionali. Operando la parziale disgiunzione tra atto sessuale e procreazione, la tecnica medica ha consegnato alle donne il potere di decidere quando e se fare un figlio, rendendo potenzialmente ininfluente la volontà dell’uomo.

Poi è arrivata la fecondazione in vitro, con la quale il testimone del potere di generare è passato nelle mani della tecnica medica. Si è così consumata pienamente la divaricazione tra atto sessuale e procreazione, consegnando alla donna la possibilità di procreare oltre ogni limite.

Tutto questo non può non avere inciso e tuttora incidere sulla cultura della maternità e della genitorialità, dell’amore e del rapporto di coppia e delle relazioni tra genitori e figli.

Io non ho le competenze per spiegare come tali cambiamenti culturali incidano sulla psicologia individuale degli esseri umani contemporanei, ma so per certo che non possono non incidere.

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Genitorialità

Uno dei temi più trattati al Gruppo è il rapporto tra padri e figli o se si preferisce la genitorialità.

 

CAPITOLO I
Un puzzle

Mi si è affacciato alla mente un puzzle formato da molti tasselli, ciascuno portatore di una diversa sfumatura.

Freud: “La morte del padre è la perdita più decisiva nella vita di un uomo”

Il poeta Caproni rinviene tra le rovine bombardate di piazza Bandiera a Genova una statua di Anchise sofferente che si aggrappa ad Enea che lo trasporta come un fagotto, mentre accanto cammina il piccolo Ascanio. Caproni: “Enea sono io, siamo tutti”.

Crono divorava i suoi nati per paura di perdere il potere e qualcosa di simile fa Laio. Quando Laio decide di sacrificare il figlio Edipo, davvero vuole solo neutralizzare una profezia nefasta?

A un crocevia Edipo uccide uno sconosciuto viandante anziano il cui cammino incrocia casualmente. Quel crocevia si pone fuori dalla civiltà, perché Edipo e Laio si rivelano incapaci di esprimere la propria umanità. Danno invece sfogo a violenza, rabbia, paura, incapaci di incarnare la pietas che contraddistingue l’umanità.

Telemaco subisce la presenza dei Proci che protervamente abitano la sua casa aspettando minacciosi che Penelope scelga uno di loro per marito. Senza l’aiuto e la guida di un padre è inerme. E così parte alla ricerca di Ulisse, ha bisogno che Ulisse ritorni, che torni a fargli da padre. Paradossalmente la sua adultità si manifesta proprio in questa ammissione di bisogno.

Nell’Iliade Ippoloco, padre di Glauco, consegna al figlio in partenza per la guerra l’armatura, dicendogli: “Ricorda di essere sempre il primo e non svergognare la generosa razza dei tuoi avi”. Con questo monito non gli dà solo un’armatura ma un’etica dell’esistenza. E’ con questa duplice consegna che incarna appieno il suo ruolo di padre, affettivo e normativo.

Priamo, canuto, rugoso, tremante di dolore e di paura, osa avvicinare Achille, nemico e uccisore del figlio Ettore, e lo supplica di restituirgliene il corpo. Achille guarda Priamo, la sua canizie, il suo dolore, la sua tristezza e non vede più il nemico, ma il proprio padre Peleo. Riconosce nel dolore di Priamo il dolore di Peleo, il proprio dolore, il dolore del mondo. E piange con lui per la tragicità dell’esistenza, per la fragilità dell’umana stirpe.

Non è dunque solo un legame di sangue che ratifica il ruolo di padre e figlio.

 

CAPITOLO   II
La nascita di un figlio

La nascita di un figlio a volte si colloca in una sala parto, a volte in una stanza d’albergo ai tropici.

Rivedo una salopette di jeans e una maglietta azzurra, una massa di riccioli neri, uno sguardo serioso e un accenno di sorriso. Mi sono inginocchiata per mettermi al suo livello e ho spalancato le braccia.

Rosy gli ha dato una spintarella e il bimbo è venuto a farsi stringere. Questa è stata la prima volta con mio figlio.

E’ entrato nella mia vita in quella stanza d’albergo e non ne è più uscito.

La genesi di un amore comincia molto prima della nascita di un figlio.

Nel desiderio di accoglierlo.
Nel desiderio di farsi accogliere.
Nel fantasticare di come sarà.
Nel lasciarlo essere ciò che è.
Nel lasciarsi vedere per come si è.
Nell’insegnargli a ridere e piangere.
Nel lasciarsi insegnare a ridere e piangere.
Nell’amarlo e nel lasciarsi amare.
Nel farsi sorprendere e nel sorprenderlo.

La nascita di mio nipote è avvenuta in sala parto, ma la genesi del mio amore per lui è cominciata molto prima.

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Una vita mancata

Le mani volavano sulla tastiera producendo un’armonia e un ritmo non arginabili. Tutti nella stanza smisero di fare quel che stavano facendo e non poterono far altro che lasciarsi travolgere dalla musica.

Io ero senza parole. Era mia madre la donna che suonava. Ma io neanche sapevo che sapesse suonare. Come era possibile?

Quando finì l’applaudirono a lungo, noi bambini riprendemmo a giocare, di lì a poco fu servita la torta di compleanno, vennero aperti i regali e poi ognuno tornò a casa.

Strada facendo interrogai mia madre con gli occhi e con le parole, ma non ottenni risposta. Solo un lungo silenzioso pianto, irrefrenabile; le lacrime le rigavano il volto ma non fece niente per nasconderle o per asciugarle. Entrammo in casa e il pianto continuò.

Era strano. Non il fatto che piangesse. Piangeva sempre, ogni giorno, silenziosamente, copiosamente. Ma, subito prima che mio padre rientrasse, si asciugava gli occhi, si sciacquava il viso e quando lo accoglieva sembrava calma, normale. Questa volta non fece niente per nascondersi, lasciò che la vedesse.

Mio padre chiese spiegazioni ma da lei non ne arrivarono, era come se mio padre nemmeno avesse parlato. Era come se non ci fosse.

Fui io a raccontare come avevamo passato il pomeriggio e come lei avesse suonato il piano, e come fosse stata brava e applaudita, e del mio stupore e dell’ammirazione che provavo per lei, e delle domande che mi ero fatto senza trovare risposta.

Mio padre la guardò a lungo senza parlare.

Quella sera mangiammo in pizzeria ma senza la mamma. Per un mese non la vidi. La porta della sua camera era chiusa. Mentre ero a scuola preparava i pasti e accudiva la casa, ma era diventata  invisibile. Io chiedevo e chiedevo, ma le risposte non arrivarono.

Col tempo tutto tornò normale, Ogni tanto tornai a chiedere ma inutilmente.

Crebbi un pochino, imparai a usare il computer e a navigare in internet. Imparai a fare ricerche. Di sito in sito, di link in link, arrivai alla verità. Mia madre era stata una grande pianista, una promessa internazionale secondo molti, ma a vent’anni aveva abbandonato le scene. Si era sposata.

Sapete una cosa? Io non piango mai. Per favore non chiedetemi perché.

Angela Pessina

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