Aula Dostoevskij

Vedo crescere il coinvolgimento e i contributi e vorrei tanto che questo tipo di iniziative avessero uno spazio stabile all’università e in carcere. Il gruppo della trasgressione è nato 25 anni fa proprio con questi obiettivi.

Anche se siamo ancora lontani dalla meta, l’intesa con Francesco Cajani ha prodotto i frutti che stiamo vedendo. Per me e per il gruppo della trasgressione leggere contributi come quelli di Angelica Falciglia o di Sebastiano Venturi è un vero piacere e un incentivo a continuare.

Certo, sarei molto più contento se vedessi partecipare in modo attivo ai nostri incontri le figure istituzionali che hanno facoltà di decidere e di finanziare le iniziative ritenute utili all’evoluzione della materia. Per il momento mi limito a rallegrarmi per il vivace confronto con cui scaldiamo la smart room dove si svolgono i nostri incontri.

Adesso aggiungo un paio di considerazioni legate a quanto ho ascoltato in “Aula Dostoevskij” mercoledì scorso:

  1. I detenuti con i quali vi confrontate non sono rappresentativi della popolazione carceraria e, tanto meno, dei delinquenti in attività. Il senso di equilibrio e di responsabilità che voi leggete nelle loro parole vengono fuori dopo anni di frequentazione del gruppo della trasgressione o di attività equiparabili. Per arrivare a questo livello di sensibilità il delinquente in attività deve prima essere arrestato e poi costretto a pensare e a sentire, guidato da qualcuno che sia credibile ai suoi occhi e che abbia le competenze per orientarne l’evoluzione.
  2. La civiltà, per quello che intendo io, non è garantita dalla presenza di norme ben codificate e di sanzioni ben commisurate alla violazione delle norme. La civiltà è l’attitudine a riconoscersi nell’altro e a voler costruire con gli altri. Ma chi nasce e cresce nella emarginazione, nella miseria economica e/o affettiva, ha grande difficoltà a concorrere agli obiettivi comuni.
    Non credo che la civiltà progredisca in proporzione alla garanzia che giudici e poliziotti vengano puniti con lo stesso rigore usato per rapinatori e spacciatori (pur se condivido il principio); credo invece che la civiltà progredisca ogni volta che ci si chiede cosa induce le persone (povere e ricche, guardie e ladri) a sentirsi distanti dall’altro tanto da poterlo ferire come se fosse un estraneo e ogni volta che vengono identificate le condizioni per ridurre tale distanza e per motivare le persone alla costruzione di uno spazio comune.

Mi sembra che nella smart room offertaci dal dott. Di Gregorio, direttore del carcere di Opera e alleato del progetto, stiamo facendo proprio questo, servendoci di Raskol’nikov, Fausto Malcovati, Alberto Nobili, Marisa Fiorani, Paolo Setti Carraro e i tanti studenti e detenuti che stanno attivamente partecipando all’iniziativa.

Delitto e Castigo

Delitto e coscienza

Il delitto è un’azione umana. Così come umano è possedere una coscienza. Credo che il delitto porti alla erosione della coscienza fino a sopprimerla, ma tale soppressione non è un’azione compiuta solo dai criminali. La coscienza si può sopprimere per non soffrire, per non capire, per non vedere, per mascherarsi e fingere di non accorgersi del proprio malessere o del malessere legato all’ambiente che ci circonda. Il delitto amplifica e porta questo atto psichico fino allo “stadio” ultimo.

Se sopprimere una coscienza è azione innata e inconscia frutto del dolore, ritengo che sia saggio partire dal dolore. Dolore e conflitto sono intrinsecamente legati.

Vogliamo sentire il conflitto perché ci umanizza.” Ha detto Vincenzo, detenuto. E credo che questa chiave di lettura dell’argomento si intersechi profondamente in un discorso che unisce vittime di reati, autori di reati e coloro che con i reati ci lavorano.

Il conflitto ci umanizza, certo. Ma ritengo che l’autore e la vittima del reato vivano due conflitti diversi. Il primo conflitto è frutto di un dolore che non si è percepito quando viene commesso il reato; il secondo conflitto è frutto di un reato e portatore di un dolore che non si sarebbe dovuto provare di principio, un dolore ingiusto, un dolore che nasce dall’abuso. Il primo è un dolore che bisognava provare. Il secondo un dolore che non andrebbe mai provato.

La maniera di vivere il dolore poi muta e si muove su piani differenti e intersecati ma in evoluzione:

  • l’evoluzione che negli anni fa il detenuto per affrontare il peso della propria azione e soffrirne dopo la consapevolezza, desiderando diventare strumento utile per una vita migliore;
  • l’evoluzione del dolore della vittima, che si fa strumento portatore di valori quali la giustizia, la legalità e il coraggio. Il coraggio di chi dopo un percorso decide di mettersi a confronto e affrontare con dignità luoghi e persone che possono ricordare il trauma subito.

Raskolnikov è solo un genere di criminale, certo, ma non credo sia un caso che Delitto e Castigo sia uno dei libri più letti nelle carceri del mondo. Che forse il criminale sia curioso? Curioso di vedere come altri percepiscono e vivono il delitto?

Non ritengo dunque che la soppressione della coscienza sia di per sé disumana (in diversi stati e gradi, sono convinta che tutti abbiamo avuto momenti del genere nel corso della nostra esistenza) ma che lo diventi se portata all’estremo. Non provare dolore e non volerlo affrontare diventa problematico quando l’assenza del proprio conflitto e anestetizzarsi l’anima porta a un conflitto tragico nella vita altrui.

Usando le parole di Emanuele e Pasquale, il conflitto porta dolore, ma porta anche a nuove occasioni di crescita. Crescita, poi, porta a un miglioramento che si riflette in luce nuova e positiva per il soggetto, per gli affetti più stretti, per la società.

Una persona che vive il conflitto e cresce, si responsabilizza – i detenuti parlano della responsabilità dell’essere padri. Una responsabilità che si vive nei riguardi dei figli e una gioia e un impegno che non sarebbe possibile senza aver vissuto il conflitto. Perché mettersi in conflitto e comprendere consapevolmente il peso delle proprie azioni genera degli insegnamenti positivi che verranno portati fuori, all’esterno, partendo dalle proprie famiglie.

Credo che qui stia il senso del conflitto. Conflitto è maturare. Maturare significa migliorare e ogni piccolo passo di una persona verso il bene è progresso per la società intera e un passo prezioso per la guarigione di un mondo ove il crimine viene subito, il crimine viene commesso.

Angelica Falciglia

Delitto e Castigo