Caravaggio e il contenitore

Non sono sicura di avere pienamente a fuoco ciò che il dipinto di Caravaggio (Vocazione di San Matteo- la Chiamata), mi s-muove dentro. Avevo già visto sui libri questa opera, ma non l’ho mai veramente guardata.

Il carcere di Opera, contesto nel quale questo dipinto è stato discusso, i detenuti e il gruppo della trasgressione come interlocutori, il Professor Zuffi in qualità di esperto e il Professor Aparo hanno fatto si che questa esperienza fosse perfetta!

Perfetta per imparare, perfetta per conoscersi gli uni e gli altri, ma soprattutto perfetta per guardarsi dentro e chiedersi se durante il cammino di vita di ciascuno di noi una “chiamata” abbia potuto dare valore o disvalore alla nostra esistenza.

Per quanto mi riguarda, a seguito dei sommovimenti interni indotti dal dipinto, la sensazione che ho provato è stata di una complessiva umiltà:

Umiltà nel Cristo, che indica Matteo con il timore nel dito ma con il braccio teso dalla determinazione: “Ti scelgo, ma non ti voglio per forza. Sta a te decidere”.

Umiltà negli occhi e nel modo di indicare se stesso di Matteo: “Io? Perché io?, Chi sono io?”

Una conversazione fatta di sguardi e gestualità, come spesso accade quando non si trovano le parole, o forse non servono.

In qualche modo la nostra vita è costellata di chiamate. Le più importanti e significative parlano una lingua difficile, o che in qualche modo ci sforziamo di non voler capire perché quando lo facciamo ci causano affanno, fatica, a volte sofferenza. Ad esempio nel mettersi in gioco in un rapporto umano, dove lo scambio tra donare e ricevere è a volte fonte di frustrazione.

Non siamo in grado di comprenderci gli uni e gli altri forse perché pecchiamo di mancanza di umiltà, che a mio parere, invece,  è così ben rappresentata da Caravaggio. Questa mancanza fa si che arriviamo a rispondere ad altri tipi di “chiamate”, che si presentano dentro di noi urlando a squarciagola, che ci fanno sobbalzare e ci mandano in confusione, non ci permettono di avere la lucidità di ponderare la scelta, mentre appagano il bisogno di avere un posto nel mondo e di colmare i nostri vuoti.

Mi riferisco, ad esempio, ai richiami del denaro e del potere e, perché no, anche a quello dell’amore.

Caravaggio è stato un rivoluzionario per la sua epoca, ha cercato di sovvertire i canoni del tempo che imponevano agli artisti regole e un solco nel quale muoversi.

Il “contenitore” famigliare nel quale è nato lo ha protetto e lasciato libero di esprimersi e di dare spazio alla sua creatività. Gli ha dato fiducia e gli ha permesso di intraprendere la sua strada di artista. Questa libertà ha fatto a botte con i vincoli che la società del tempo gli imponevano, rendendolo un ribelle e un trasgressore. Così la sua arte nasce pregna di anticonformismo e ribellione, ma libera, nonostante il rispetto (quasi sempre) delle regole imposte.

Mi trovo quindi, mentre scrivo, a stupirmi, perché appena sopra ho detto di averci visto umiltà e mi domando come possano conciliarsi le due cose: umiltà e ribellione.

Rifletto un attimo e cerco in me una risposta: si può riconoscere l’umiltà dentro di noi quando si ha avuto la possibilità, grazie a contenitori avvolgenti e credibili, di esprimere la propria libertà. Tutt’altro rispetto a quanto riconosco essere accaduto a me.

Il mio contenitore famigliare non ha generato quella fiducia in me stessa che solo l’amore permette di sviluppare e, al contrario,  mi ha indotto a investire gran parte delle mie energie nel tentativo di farli ricredere, per farmi accettare… che pessimo modo di usare il mio tempo e le mie risorse emotive! Questo ha fatto sì che anche io ho avuto bisogno di ribellarmi e trasgredire, ma a differenza di Caravaggio (poco umile il paragone), che lo ha fatto a viso aperto, con tenacia e consapevolezza, io ho sempre dovuto indossare una maschera per avere il coraggio di andare alla ricerca di quella fiducia e dell’amore mancato.

Questo abito mi ha esposto a molteplici “chiamate urlate”, poco coerenti con ciò che veramente io ero… ma che ho ascoltato nella speranza di colmare quel vuoto che causava sofferenza. Per questo forse, oggi, pur riconoscendo l’umiltà quando la vedo, spesso la confondo con senso di inadeguatezza.

Ma non fa niente, ce l’ho fatta, adesso riesco a scegliere, a volte con un po’ di cinismo, lo ammetto, “contenitori” che mi regolano l’esistenza senza opprimerne la creatività, ma facendomi crescere tutti i giorni.

Il più importante è quello saldo, pacato e silenzioso di mio marito, che da quasi trent’anni mi accetta, incredibilmente, per quella che sono. Un altro, più terremotante e rumoroso, in questo caso con accezione positiva, è quello del Prof Aparo e del Gruppo della Trasgressione, che, senza troppi complimenti, ti scombussolano e alimentano l’anima.

Ludovica Pizzetti

Caravaggio in città

Il barattolo

Quando ero piccolo ero un arrampicatore, un ometto che riusciva a scalare gli scomparti della vecchia credenza a casa di mia nonna al mare.

Proprio nell’ultimo scomparto si trovavano dei barattoli di diversi colori, che contenevano una infinità di cose: caramelle, biscotti, cioccolatini, spezie…

Di frequente, con la mia famiglia e alcuni cugini, ci recavamo in quella casa. Eravamo tanti in quelle occasioni, più di una ventina. Lì prevalevano le regole ferree di mio nonno, un omone in pensione che aveva l’hobby della pesca. Per lui più che una passione era un lavoro. Ogni mattino infatti andava in mare, calava le reti per poi la sera ritirarle, svuotarle e quindi ributtarle in acqua. In una sorta di moto perpetuo.

A turno, reclutava uno dei nipoti per farsi aiutare a remare.

Lì entrava in gioco un barattolo di colore bianco, sempre pieno di caramelle, che venivano elargite a noi ragazzi come ricompensa. Inoltre, ricordo che al mattino presto arrivava “Cicino”, un garzone di un forno della zona, con la sua bicicletta con un grande cesto pieno di brioche zuccherate ancora calde.

In quell’atmosfera vivace, rumorosa e piena di vita, ero sempre attento nell’osservare gli adulti e ascoltare le chiacchiere, i sussurri e le discussioni intorno a me. lo aspettavo circospetto il momento giusto per scalare la credenza e raggiungere con fatica il famoso contenitore con il tappo bianco.

La vita, in un susseguirsi di incontri e di bei momenti, trascorreva con le sue stagioni e si consumava velocemente. Ad un tratto mi sono scoperto uomo: volevo solo vivere, correre e liquidare in fretta le tante domande che mi nascevano.

Il tempo si era portato via alcuni pezzi importanti della mia famiglia e mi ero creato nuovi legami e nuove amicizie. Dopo essermi ritirato da scuola avevo iniziato a lavorare. Ero cambiato e quando mi recavo a casa dei nonni in me prevaleva il senso dell’opportunità: andavo per farmi dare qualcosa di concreto.

La credenza era sempre al solito posto ma non era più il barattolo bianco ad attirare la mia attenzione. Era un contenitore grigio dove i miei nonni erano soliti mettere delle banconote da mille o duemila lire. Aspettavo solo che mi facessero un cenno per allungare la mano, afferrarlo e prendere qualche soldo. Ormai ero abbastanza alto e per me era diventato semplice raggiungere il barattolo.

Non avevo più bisogno di scegliere tra i vari colori: per me aveva importanza solo il contenitore grigio.

Un giorno mio nonno morì in un incidente d’auto. Da allora, tornando in quella casa, mi resi conto che era cambiata la disposizione dei barattoli ed anche il loro contenuto. La vita stessa era cambiata. Per me a quel punto scegliere era diventato difficile.

Mi incuriosì un barattolo di colore rosso. Un barattolo cui non avevo mai prestato attenzione. Così allungai la mano per prenderlo, lo aprii e al suo interno vi trovai del sale.

Giovanni Battista Della Chiave

RaccontiMicro e Macro-scelte

Il sollievo di Matteo

Dell’arte amo la capacità di mutare forma, il suo scivolare tra le menti degli spettatori trasformandosi a seconda della loro necessità. Credo sia proprio questa particolarità a tenere in vita le opere e, partecipando all’incontro di “Caravaggio in città”, ne ho avuto la conferma;

Sono convinta che, almeno per quanto mi riguarda, le interpretazioni nascano dalla necessità di immedesimarsi, di sentirsi partecipe dell’opera stessa; penso che ritrovare nei personaggi caratteristiche affini alle proprie stimoli ulteriormente la curiosità di chi osserva e, allo stesso tempo, gli sia di particolare conforto.

Conoscevo già la ‘’Vocazione di san Matteo’’, ma in passato l’ho guardata con occhi completamente diversi. Ricordo, per esempio, di non aver mai tenuto realmente conto degli sguardi dei personaggi; oggi invece è un particolare che mi sembra fondamentale, forse protagonista dell’intera opera.

Io percepisco nell’espressione di Matteo una scintilla di desiderio; personalmente non colgo nel suo viso lo stupore di essere stato chiamato, piuttosto mi sembra di leggere in lui la necessità di sentirsi coinvolto e il sollievo che la chiamata stessa gli provoca. Forse è per questo motivo che gli altri personaggi del dipinto rimangono indifferenti all’entrata di Cristo, semplicemente non lo stavano aspettando.

Secondo me, non si è sempre consapevoli di essere in attesa di qualcosa o qualcuno, eppure, quando si presenta la possibilità di venirne a conoscenza, lo si riconosce quasi istintivamente; Matteo si sente il destinatario dell’invito, sa di esserlo.

Fino ad ora credo di aver sempre fatto parte del gruppo degli indifferenti o, per lo meno, non ho mai realmente colto le chiamate che, nel bene e nel male, realizzo solo oggi di avere ricevuto.

Ultimamente, invece, mi rivedo molto nella figura di Matteo, e più sento la chiamata risuonare, più riconosco in me lo stesso sollievo che leggo nei suoi occhi.

Beatrice Ajani

Caravaggio in città

L’azione della chiamata

I miei genitori sono entrambi grafici e amanti dell’arte e spesso, quando ero piccola, mi portavano in giro per musei e mostre. Come è possibile immaginare, il museo non era proprio il mio posto preferito dove passare il sabato pomeriggio. Mio padre però era furbo e per coinvolgermi si è inventato un gioco: ognuno di noi doveva immaginare i titoli delle varie opere e chi si avvicinava di più al titolo originale vinceva. Strano ma vero, vincevamo sempre io e mia sorella.

Ora che sono grande, nei musei ci vado volentieri di mia spontanea volontà. Spesso però mi capita di fermarmi a cercare di indovinare il titolo dei quadri, lo trovo un modo per capire se sono riuscita a percepire il messaggio che l’autore voleva mandare.

Nel caso de La chiamata di San Matteo invece, ho saputo il titolo prima ancora di vedere il quadro. So che il titolo originale è La vocazione di San Matteo, ma mi piace pensare che la scelta di presentarlo al Gruppo come chiamata sia fatto di proposito. Il titolo che gli ha dato il professor Aparo mi evoca una sensazione di dinamicità e di dialogo, di domanda e risposta. Trovo che rispecchi molto il quadro, perché guardandolo è difficile individuare subito il protagonista. Chi è il soggetto principale del quadro? Matteo, circondato da colleghi e apprendisti? O Cristo, coperto quasi interamente da Pietro? Per me, il soggetto principale di questo quadro è l’azione della chiamata, rappresentata dal dito di Cristo puntato su Matteo e dal dito di Matteo, rivolto a sé stesso.

Inoltre, un aspetto che adoro dell’arte è che consente di provare diverse sensazioni pur rimanendo sempre uguale. Aver ascoltato le percezioni degli altri, mi ha aiutato ad avere un’impressione più generale. Ho potuto quindi soffermarmi sull’espressione incredula di Matteo, sull’indifferenza degli altri avventori, sullo sguardo di Cristo, da alcuni percepito severo, da altri accusatorio.

Mi piace paragonare questo evolversi di sensazioni che si manifesta davanti ad un’opera d’arte all’evolversi della coscienza di un detenuto: l’incontro e l’ascolto delle esperienze, le opinioni e le riflessioni dell’altro sono  strumenti fondamentali per la crescita e lo sviluppo della propria identità.

Cristo chiama e Matteo può rispondere oppure no, entrambi però sanno che l’azione è eseguita da tutti e due.

Anita Saccani

Caravaggio in città

Agosto con Paolo

Buongiorno a tutto il Gruppo della Trasgressione, sono Francesco. Mi fa piacere condividere con voi quello che mi succede ogni volta che termina l’incontro.

Quando vado via da qui, sento la necessità di andare al passeggio, e mentre cammino e ascolto la musica, rifletto sui discorsi che fa il Dottor Aparo e su tutte le domande e riflessioni che vengono poste al gruppo.

Ultimamente mi ha colpito moltissimo il fatto che Paolo Setti Carraro è entrato a far parte del gruppo interno. Provo a capire il dolore che ha dovuto sopportare in tutti questi anni assieme ai suoi famigliari. Inoltre, mi rendo conto che non ci possano essere scuse né giustificazioni per quell’ignobile atto; in quanto la signora Setti Carraro è stata una vittima innocente ed era estranea al lavoro che svolgeva il marito. Da quello che ho letto, il lavoro che svolgeva il Generale Della Chiesa non lo stava eseguendo per un suo scopo o tornaconto, ma perché il governo gli aveva concesso poteri speciali per combattere il terrorismo. Visto che il Generale, con grandi meriti, ha portato a termine il progetto di smantellare le brigate rosse, lo stato lo ha mandato in Sicilia per combattere la mafia.

Da tempo mi domando cosa c’entrava la moglie del generale! E perché hanno usato tanta ferocia su una donna innocente? Da quando sono in carcere sento dire che i mafiosi usano e rispettano dei codici, ma in tale situazione non si sa come mai non hanno tenuto in considerazione il codice tanto sbandierato.

Io non sono stato uno stinco di santo, non ho mai fatto parte di organizzazioni criminali ma ero vicino a dei miei parenti e a un mio fratello che hanno fatto parte di un’organizzazione mafiosa. Oggi mi sento di chiedergli umilmente scusa per il dolore che gli hanno arrecato tutti i mafiosi ed in particolare il dolore che ho prodotto anche io.

Apprezzo tantissimo che dal mese di agosto Paolo è entrato nel gruppo della trasgressione interno. Paolo è una persona che, nonostante il dolore e la tragedia che ha subito, è riuscito trovare la forza di confrontarsi con persone che gli hanno provocato il dolore che si porta dietro. Io trovo Paolo di un’umanità disarmante, la sua umiltà e i suoi discorsi mi portano a riflettere e a vergognarmi di quello che ero.

Inoltre, condivido pienamente quando sostiene che il dolore che uno subisce non deve essere rimosso, ma bisogna farselo attraversare addosso. Secondo il mio punto di vista, una persona può migliorare e cambiare solo attraverso l’avvicinamento delle istituzioni.

Per quanto riguarda la partecipazione all’omicidio della sorella di Paolo, io credo purtroppo che, sia Pasquale che tutti i detenuti presenti al tavolo, se all’epoca dei fatti avessimo fatto parte di quell’organizzazione mafiosa, sicuramente avremmo dovuto partecipare alla strage, sia perché venivamo istigati, esaltati dai capi e dai compagni, sia perché quando si è giovani non si  è coscienti e tantomeno avevamo gli strumenti per capire e sentire il dolore che avremmo provocato ai famigliari della vittima. Quelle sofferenze, quei sentimenti lasciano dentro ai famigliari della vittima delle cicatrici, in quanto si vive con quel ricordo.

Da quando partecipo al gruppo mi sono resoconto che quello che sostiene il Dottor Aparo è tutto vero. Ognuno di noi ha perso la propria umanità da giovanissimo, poi strada facendo si mette a tacere la coscienza ancora di più, arrivando a compiere gesti terribili. Secondo il mio pensiero l’umanità che c’è in ognuno di noi può essere ritrovata se le istituzioni non abbandonano le persone a sé stesse, ma iniziano a trattarli come esseri umani e non come fascicoli viventi.

L’umanità che c’è in  ognuno di noi può essere stimolata e alimentata se le persone vengono incoraggiate a mettersi in gioco e a crescere culturalmente. Sostengo che il cambiamento avviene attraverso il confronto e i laboratori come il Gruppo della Trasgressione, dove le persone vengono stimolate a prendere consapevolezza del loro passato. Inoltre, il rapporto che si viene a creare con le persone che aderiscono al Gruppo è importante. Queste persone durante il percorso diventano figure di riferimento. Gli incontri e le relazioni portano i detenuti a una rivisitazione profonda del loro passato e attraverso tali riflessioni iniziano a liberarsi dalle gabbie mentali.

Questo sta succedendo a me perché Lei, Paolo e il resto del Gruppo mi mettete in condizioni di liberarmi dei pregiudizi e di quei meccanismi che si vengono a creare tra il detenuto e l’educatore o lo psicologo. Nell’incontro della settimana scorsa si è parlato di psicoterapia. Nel mio caso il Gruppo funge da terapia, in quanto mi sta aiutando sia a relazionarmi che a mettermi in gioco e a superare le mie condizioni psicofisiche che mi trascino da quando è avvenuto il distacco con mio fratello gemello.

Lei, con i suoi discorsi conditi da bestemmie, e tutto il gruppo mi stimolate a venir fuori in modo naturale e sincero, senza aver paura di mostrare le mie fragilità, paure, emozioni.

Concludo facendovi sapere che se ho prodotto questo scritto è stato grazie a tutto il Gruppo.

Milano – Opera, 11/10/2022
Francesco Sergi

Incontri con le vittime

Il paese delle coscienze

Giro per le viuzze del centro
Sento una grande confusione
poca luce
C’è un grande patrimonio intorno

Mi accorgo che lui
mi segue
Scelgo di girare l’angolo
per una via più luminosa
cerco di seminarlo
ma non ci riesco

Forse quella scelta è stata un’illusione
Giro e rigiro la coscienza

Cercandomi piccolo
ritrovo sempre un bambino
che conosceva il suo sguardo
i suoi occhi parlavano con i miei
capivo bene
quando dovevo stare zitto
quando piangere
e quando correre

Ma spesso mi mancava la forza per scappare
non perché fossi affaticato
io
in quei momenti
ero solo stanco

Giovan Battista Della Chiave

Poesie

Muri

MURI

Muri verticali
muri orizzontali
muri calcificati dal sole

muri sproporzionati alle pene
muri crepati
dove niente respira

muri dove il limite
è il cielo azzurro
muri rifugi di lucertole

muri grigi e lordi
che frantumano
le grida e gli sguardi

muri che delimitano
ciechi sentieri di speranze

Giuseppe Di Matteo

Officina creativa

Ricordi d’infanzia

Sono nato a Reggio Calabria. Ricordo quando ho iniziato a esplorare il quartiere dove sono cresciuto, dove i palazzi nuovi si mescolavano alle case vecchie: per cinque anni ho vissuto in una di queste case vecchie, prima che il cemento coprisse la natura circostante.

Era un cascinale di tre appartamenti, costeggiato da una stradina poco asfaltata con rientranza di un piccolo pergolato: la prima casa era di un vecchietto che la usava come deposito di piccoli rottami. Ogni volta che andavo a trovarlo, l’odore di grasso e di oli esausti mi rimaneva impresso e ogni volta che entro in un’officina meccanica mi viene in mente Don Ciccio, questo era il suo nome. Mi insegnava come si smontavano gli avvolgimenti delle casse acustiche e dei trasformatori, per recuperare il filo di rame. Subito dopo c’era la mia casettina dove vivevo con mia madre, mio padre, le mie sorelle e i miei fratellini. La casa non era grandissima ma si stava bene. Il cascinale era ben lontano dalla strada e con i miei fratelli ci giocavamo senza che mia madre dovesse preoccuparsi per noi in mezzo alla strada trafficata. 

Più in là viveva una signora anziana, che per rispetto chiamavamo nonna Giulia. Era piccolina di statura e un po’ curva ma di cuore grande. Mi ricordo che viveva da sola. Mi è rimasto un bel ricordo di nonna Giulia. Lei ci rimproverava per il casino che facevamo con i miei fratelli giocando. Dopo averci rimproverati ci chiamava offrendoci dei biscotti fatti da lei e ci diceva: “u sapiti che vi voju beni!”.

Un altro mio ricordo era la festa patronale: mi divertivo a girare tra le bancarelle fermandomi a guardare come preparavano le mandorle pralinate e anche un tipo di biscotto fatto con tanto miele che noi chiamavamo ZIDDA o MUSTAZZOLI. La particolarità di questo dolce erano le molte forme, esempio pesce, cavallo, cestino, casetta, ecc. Sono belli da guardare e buoni da mangiare per chi ha denti forti. 

Un altro mio ricordo di mia mamma è il fischio con cui ci chiamava e col quale io e i miei fratelli capivamo che era l’ora di ritornare a casa.

Le passeggiate in Via Marina, il lungo mare di Reggio Calabria, con la sua ringhiera di ferro antico che affaccia sul mare e in lontananza si vede la Sicilia. La via marina come noi la chiamavamo, arrivando dal porto, divide le due strade a senso unico, un chiosco di gelati che ha circa 80 anni e dove per prendere una brioche con il gelato devi aspettare circa 30 minuti, però ne vale la pena. I gusti che prendevo di solito erano il caffè, la nocciola e la panna. La gustavo pianissimo per quanto era buona.

Più crescevo e più mi piaceva esplorare. Un giorno mio padre mi regalò una bicicletta misura 14 marca Graziella. E’ stata una gioia grande potermi spingere più lontano per conoscere la mia città.

La mia prima meta con la bicicletta è stata la Stazione Centrale con la sua piazza dove facevano capolinea i pullman di linea e quelli della città. Al centro della piazza sovrastava la statua di Giuseppe Garibaldi a cavallo.

Proseguendo in direzione nord, sul corso dedicato sempre a Garibaldi s’incontra la Villa Comunale con i suoi enormi alberi dai nomi esotici. Dalla parte di sotto, nella Villa Comunale si trova un laghetto pieno di pesci rossi che se la contendevano insieme ai cigni. Prima dell’uscita c’era un piccolo zoo con due leoni, tre babbuini, un pavone e una gabbia di uccellini.

Continuando sul corso Garibaldi si arriva al Duomo con le due statue di S. Pietro e Paolo e la grande piazza con i magazzini ai lati. Proseguendo si arriva al museo dove si trovano le statue di bronzo ritrovate a Riace che tutto il mondo ci invidia!

Questa è una parte della mia città .

Bollate, 16/09/2022
Salvatore Luci

Officina creativa

Mia madre, un’imbrogliona

Penso ingannasse anche mia sorella. Con me ha cominciato a farlo che ero ancora piccolissimo. Non mi piacevano le uova o mi sembrava non mi piacessero. Lei ogni mattina metteva un tuorlo d’uovo nel latte, miscelava il tutto per bene e me lo dava da bere. Di fronte alle mie perplessità sul nuovo colore del latte, mi diceva che, apposta per me, il lattaio aveva portato il latte della vacca giovane. A quel punto io riconoscevo che era proprio buono e mi sentivo un privilegiato.

Ma l’inganno più perfido e praticato per anni è partito quando, all’età di otto anni e arrabbiatissimo, volevo picchiare mia sorella Lina, che all’epoca ne aveva due. In quella occasione, mia madre, senza scomporsi, mi ha detto che avrei potuto farlo, ma che avrei dovuto aspettare che Lina avesse almeno una decina d’anni. E tutte le volte che io chiedevo se potevo picchiarla lei rispondeva “aspetta, a piccirida è ancora truoppu nica”.

E così siamo andati avanti fino a che io mi sono trovato a guardare “a piccirida” come facevano lei, mio padre, i nonni e le zie e, a quel punto, ho perso per sempre la possibilità di picchiarla.

Tra l’altro, sarebbe anche difficile, visto chi la difenderebbe.

Genitori e figli

Il mio sporco gioco

Mi chiamo Giuseppe Amendola, nato a Napoli nel 1963.
Vi dico subito che il fatto per cui mi trovo in carcere da 32 anni non è colpa di nessuno e ci tengo a dire che i miei famigliari sono state delle brave persone.

Giorni fa, al teatro del carcere di Opera dove si svolgeva il corso della Trasgressione con il dott. Aparo, c’era anche il professore di scuola d’arte Stefano Zuffi. Ci ha fatto vedere un quadro di Caravaggio che io ho intitolato: “La chiamata di ritorno”. In questo quadro c’è Cristo con Pietro: Cristo punta con il dito Matteo che si trovava in compagnia di uomini non graditi a Cristo.

Non potete credere quante volte, quando ero fuori, mi puntavano quel dito addosso, era come una spada che mi trafiggeva il cuore.

La mia vita è stata tutto un gioco. Ho giocato e mentre giocavo cercavo di scappare e di nascondermi da questo gioco che io facevo con il finto sorriso sulle labbra. Dovevo proteggere la mia famiglia, una famiglia fatta di persone per bene. Non gli facevo capire niente, io giocavo e loro erano felici nel vedermi giocare con la vita, ma non conoscevano le mie paure, il mio sporco gioco. Dovevo nascondere i soldi che guadagnavo e andavo avanti con tante bugie per giustificare con mia moglie quei pochi soldi che portavo a casa.

Dio mio, quanti dolori ci sono dentro di me, come vorrei che qualcuno mi ascoltasse e mi facesse capire che non sono più solo e che questo mio gioco è finalmente finito.

Ora voglio parlare a tutti i ragazzi che si rovinano la vita proprio come ho fatto io da ragazzo. Miei cari ragazzi, se non credete a queste mie parole fate una cosa, cercatemi e, quando mi avrete trovato, guardatemi bene e vedrete in me un uomo distrutto per il male che ha fatto, vedrete un uomo che ha giocato troppo sporco con la vita. Vi raccomando, quando mi guarderete, fatelo con il cervello e non con il cuore poiché se mi guarderete con il cuore vi posso solo fare pietà, ma se mi guarderete con il cervello capirete che non vi conviene fare la mia stessa fine.

Io vi prego, salvatevi! Non date soddisfazione a chi non vede l’ora di puntarvi il dito addosso, proprio come nel quadro di Caravaggio, per dire: “Eccolo, quello è il cattivo”. No, non dategli questa soddisfazione, fategli capire che avete capito questo gioco e dite ad alta voce che ogni tipo di mafia fa schifo. Vi prego, smettetela di rovinarvi la vita. Voi siete ragazzi intelligenti e non potete non capire che vogliono la vostra vita a tutti i costi per vivere sulle vostre spalle. Senza di voi il gioco è finito.

C’è un’ultima cosa che vi voglio dire:  mi trovo in carcere da 32 anni ma non sono bastati per togliermi, come diceva il grande signore Giovanni Falcone, “il puzzo che c’era dentro di me” e così, nel 2021, ho fatto chiamare il sostituto procuratore della D.I.A. di Napoli e mi sono liberato del puzzo che c’era dentro di me ovvero un passato di violenza e malavita.

Concludo chiedendo scusa e perdono a tutte le vittime di mafia, ai loro famigliari e a tutti quelli che ogni giorno combattono con la propria vita la criminalità organizzata e quella comune. Chiedo scusa alla mia famiglia per avere messo la vergogna sui loro visi. Ringrazio tutti quelli che fanno di tutto per metterci sulla strada giusta.

Grazie di cuore.

Caravaggio in città