Prevenzione bullismo 2016/17

Milano, 14 aprile 2017

PROGETTO PREVENZIONE BULLISMO
Rotary club Milano Duomo
Gruppo della Trasgressione
Anno scolastico 2016/2017

 

In relazione al progetto concordato per l’anno 2016-2017, nell’ambito degli interventi nelle scuole per la prevenzione al bullismo, il “Gruppo della Trasgressione” ha svolto un intervento articolato su due piani concentrandosi sul Centro di Formazione Professionale Pia Marta:

  1. Tre incontri mirati su 20 ragazzi (fra i 16 e i 18 anni) per i quali, a giudizio degli insegnanti (con i quali abbiamo tra l’altro consolidato una buona sintonia), erano stati rilevati: particolari disagi in ambito familiare, difficoltà di relazione con i compagni, scarso rendimento scolastico, manifestazioni di insofferenza verso le regole, coinvolgimento in atti devianti e, infine, condanne penali, pur se con misure alternative alla carcerazione quali: messa alla prova, affidamento in comunità;
  2. Quattro incontri, con coinvolgimento di un centinaio di studenti, nel corso dei quali, nell’auditorium dell’istituto scolastico e nel teatro del carcere di Opera, vi è stata la solita vivace interazione fra una nutrita selezione dei componenti del “Gruppo della Trasgressione” e le 4 classi selezionate dai responsabili dell’istituto scolastico coinvolto. Oggetto degli incontri è stato il tema del “Raccontare Storie”

Più in dettaglio, per quanto riguarda il primo punto, sono stati formati due gruppi ristretti che coinvolgevano ognuno una decina di studenti della scuola e 6/7 componenti del Gruppo della Trasgressione (studenti e detenuti). Per la prima volta i componenti del Gruppo hanno tenuto gli incontri senza il coordinamento del Dott. Aparo, il quale ha invece avuto il ruolo di supervisore, al termine di ogni incontro ristretto. A tale proposito, sono state fatte delle riunioni durante le quali è stato riportato quanto emerso durante il gruppo, sono stati discussi i successi, affrontati i dubbi che sono sorti e si sono pianificate le strategie e le linee guida da mantenere nell’incontro successivo.

Durante questi incontri si è cercato, tra l’altro, di far sì che i ragazzi della scuola imparassero a raccontare la storia dei detenuti del Gruppo e viceversa.

Saper raccontare la storia di una persona permette a chi la racconta di imparare a tenere in mente e a prendersi cura di dettagli ed episodi dell’altro ai quali spesso non si dedica attenzione; permette di imparare a coinvolgere le persone che ascoltano e fa sì che la persona raccontata non si senta un insieme di avvenimenti ma un soggetto in divenire; permette di individuare nella storia del protagonista conflitti fra spinte regressive ed emancipative, dolori e dispiaceri che tengono tante volte ancorati al passato, ma anche speranze e desideri di evoluzione che proiettano verso il futuro.

Nei primi due incontri, in cui sono state coinvolte tutte e 4 le classi del progetto, si è affrontato il tema della scelta, del percorso che porta a determinate scelte, delle emozioni coinvolte e delle conseguenze delle scelte fatte (Vedi su www.trasgressione.netMicro e macro-scelte”.

Significativo è stato anche l’incontro svoltosi all’interno del carcere di Opera. L’esperienza di entrare (per alcuni di rientrare) in un carcere ha facilitato la riflessione sulle conseguenze delle proprie scelte, pur se, nel complesso, questa giornata è stata la meno vivace. La partecipazione degli studenti è stata modesta, pur se gli incontri successivi hanno reso evidente che la giornata ha seminato in loro spunti di ulteriore riflessione e di autocritica.

Durante l’incontro finale, gli studenti coinvolti nei gruppi ristretti hanno consegnato ai loro compagni, ai loro insegnati e ai componenti del Rotary presenti, le storie che hanno imparato a raccontare e ciò che hanno vissuto durante gli incontri.

Nel complesso, il progetto ci è cresciuto fra le mani via via che lo si portava avanti e ha coinvolto sia i detenuti che hanno alle spalle anni di carcere (vedi i loro scritti su www.vocidalponte.it) sia gli adolescenti incastrati in situazioni famigliari e sociali complicate. Quello che abbiamo constatato e che stiamo continuando a vedere anche dopo la conclusione ufficiale degli incontri è lo sviluppo di relazioni e di progetti che hanno, chiaramente riconoscibile, il sapore della fiducia.

I risultati dell’esperienza sono tangibili: molti dei ragazzi coinvolti hanno cominciato a frequentare le nostre attività, sono venuti a una rappresentazione del Mito di Sisifo, partecipano il sabato alla bancarella, dove comunicano le loro difficoltà, ricercando nel nostro gruppo un sostegno e un riferimento per sentirsi riconosciuti e per porsi domande.

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Un viaggio nell’adolescenza

Roberto Cannavò

L’esperienza che sto vivendo con gli studenti del Pia Marta è una forma di rivisitazione della mia, anzi mi permetto di dire, della nostra adolescenza. A differenza dell’esperienze che abbiamo fatto fino a oggi presso le varie scuole di Milano e Provincia, dove i confronti con gli studenti sono stati quasi sempre stati introdotti da rappresentazioni teatrali (il mito di Sisifo e altro), al Pia Marta abbiamo seguito un altro percorso, interagendo direttamente con alcuni studenti di circa 18 anni, segnalati per la loro “vivacità” dallo stesso Istituto.

Il 27 febbraio abbiamo avuto il primo incontro, durante il quale vi è stata una reciproca esplorazione tra loro e noi. Il 6 marzo, per essere più incisivi e per creare un po’ d’intimità, ci siamo divisi in 2 gruppi. In quello di cui faccio parte, l’inizio è stato, da parte degli studenti, solo di ascolto: nessuno di loro aveva rotto il guscio. Quindi, Massimo, componente del Gruppo della Trasgressione, ha iniziato a parlare della sua adolescenza e di tutte le scelte sbagliate, sicuramente fatte anche per colpe non sue, che lo hanno portato su percorsi devianti. Accanto a me era seduta una studentessa che aveva prodotto uno scritto, ma che, forse per mancanza di autostima, come in seguito mi confidò, non voleva fosse letto. Alla fine, tuttavia, siamo riusciti nell’intento di condividerlo.

Intanto che Massimo continuava a raccontarsi, cercavo di spiare nel modo più discreto possibile le emozioni di ogni singolo, compresi i miei compagni di gruppo. L’attenzione è stata altissima e mi ha fatto da apripista per raccontarmi un po’. Lo stesso hanno fatto altri miei compagni. Poi, durante una piccola pausa, ognuno di noi si è relazionato, a livello individuale, con uno studente e quando abbiamo ripreso l’incontro, come per magia, si sono rotte le corazze, così che abbiamo raccolto da ogni studente un pezzo della sua vita.

Ciò, secondo l’esperienza che sto facendo da anni con il gruppo, si è potuto realizzare (non avevo nessun dubbio in merito) in conseguenza del fatto che per primi ci siamo raccontati noi. I ragazzi prima si sono a tratti rispecchiati nelle stesse problematiche, poi è stato per loro quasi un dovere restituirci qualcosa del loro intimo.

Abbiamo creato così tanto feeling che il 20 marzo 2017, penultimo giorno dei nostri incontri con gli stessi studenti, abbiamo stabilito un patto: raccontare la nostra esperienza pubblicamente. Il “gioco”, se così lo possiamo definire, consisteva nell’essere protagonisti uno della storia dell’altro. Infatti, io ho raccontato, con il suo consenso, la storia di una ragazza e lei la mia. Lo stesso hanno fatto altri componenti del Gruppo della Trasgressione con altri studenti.

Sicuramente siamo all’inizio di un grande lavoro che condurrà i ragazzi e noi stessi verso la conquista di quei valori insiti in ognuno di noi, ma che sono stati abortiti nel corso del viaggio adolescenziale per ragioni che cercheremo di scoprire durante questo meraviglioso lavoro. Il tutto è così bello e promettente che auspico possa avere una continuità responsabilmente riconosciuta da parte delle Istituzioni.

I nostri obiettivi sono quelli di fare emergere le fragilità e le insicurezze che portano tante volte a rispondere con condotte devianti e con alleanze con cui si scivola gradualmente verso la perdita dei valori morali, l’autoreclusione e, nei casi estremi, il suicidio: strade che, purtroppo, abbiamo percorso in passato noi detenuti del Gruppo della Trasgressione e che, oggi, chi crede realmente nel recupero dell’uomo e della sua dignità ci aiuta a ripercorrere in senso inverso.

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Con gli studenti sulla trasgressione

Verbale dall’incontro a Opera del 29-03-2017
Cristina Brioschi

Gli studenti della scuola “Laura Conti” di Buccinasco avevano già partecipato ad un incontro con il Gruppo della Trasgressione, sono perciò arrivati al Carcere di Opera con alcuni spunti, a partire dai quali si è snodata la discussione della mattinata. In particolare, i ragazzi avevano individuato tre diversi tipi di trasgressione (utile, inutile, inutile ma comprensibile) e insieme ci si è chiesti se avessero una matrice comune.

Questa è stata dapprima individuata nel superamento di un confine e nel voler raggiungere un obiettivo. Quest’ultimo concetto è un po’ vacillato quando ci si è chiesti quale potesse essere l’obiettivo di dar fuoco ad un clochard. Si è quindi passati all’ipotesi che le trasgressioni, più che avere un obiettivo chiaro, hanno di solito una spinta confusa. Proprio il fatto che in molti casi non sono ragionate e progettate segna un discrimine tra un gesto che distrugge e uno che crea. Quest’ultimo ha come caratteristica quella di far parte di un percorso che tende ad un fine.

A questo punto Marco (ragazzo della scuola di Buccinasco) ha chiesto ai detenuti perché si fanno trasgressioni inutili e dannose, pur avendole riconosciute come tali. Spesso le si fa perché si dà il carattere dell’irrinunciabilità a qualcosa che non si possiede.

L’individuare la condizione di vita che può dar luogo a questa tensione è stato utile per capire che questa tensione ci accomuna tutti, pur se ciascuno vi reagisce in modo personale. Da piccoli capita di considerare qualcosa irrinunciabile e di volerlo subito; lo stesso succede quando si è grandi ma non si è o non ci si sente ascoltati dalle istituzioni, dalla società, dal mondo: ci si sente di nuovo piccoli e, per ottenere qualcosa, si “puntano i piedi” e si sconfina.

Abbiamo poi ragionato su come una trasgressione, da dannosa e distruttiva che era stata, può divenire utile alla crescita individuale e collettiva. I detenuti hanno cercato di comunicare agli studenti i risultati della riflessione su se stessi: tasselli necessari per il percorso sono prendere consapevolezza dei propri errori, essere capaci di autocritica, ma soprattutto comunicare con le proprie fragilità e con qualcuno in cui si ha fiducia e che possiamo riconoscere come guida.

E’ però difficile imbastire un dialogo con se stessi, se per buona parte della vita non si è nemmeno immaginato di poterlo avere: secondo Alessandro, l’esigenza di comunicare con se stessi nasce da qualcosa di non razionale che ci fa invertire la strada, un’urgenza al pari di quella che spinge a trasgredire, ma che va nella direzione opposta. Ci si accorge di non essere in equilibrio, si vedono affiorare nuove esigenze a cui bisogna fare spazio; affinando il proprio ascolto, ci si dà la possibilità di cambiare, mentre si impara a scegliere e a prendersi la responsabilità di quello che si fa. Occorre immaginarsi il proprio futuro per poterlo creare nel presente una scelta dopo l’altra: avere un progetto su di sé fa la differenza nel come facciamo le nostre trasgressioni.

Nella seconda parte dell’incontro i ragazzi e i detenuti si sono vicendevolmente intervistati per poi raccontare l’uno la storia dell’altro a tutto il gruppo. Credo che questo sia un lavoro utile per rinnovare lo sguardo su di sé, per avere una prospettiva più globale, per decifrare la propria direzione e per capire come la si sta portando avanti, per toccare con mano che quello che viviamo è stato in gran parte scelto da noi: si può continuare sui propri binari se ci si riconosce nella direzione che abbiamo intrapreso o provare a svoltare, se il nostro percorso lo richiede.

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Il ponte

Adriano Sannino

È bello oggi raccogliere i frutti di quello che il Gruppo della Trasgressione ha cominciato a seminare nelle carceri milanesi venti anni fa: un progresso continuo nel rapporto fra detenuti e istituzione, nella relazione con alcuni licei e università della provincia di Milano, nell’alleanza con la Croce Rossa Italiana, che ha permesso ad alcuni detenuti di fare prima il corso di primo soccorso e poi, insieme a comuni cittadini, di seguire il Corso di “Operatore Sociale Generico”.

Cercherò di illustrare quello che il gruppo sta facendo in quest’ultimo periodo e quello che ha dato a me e ai miei compagni. Faccio parte da circa 6 anni del Gruppo della Trasgressione, che mi ha permesso di conoscere e interagire con migliaia di ragazzi di diverse scuole medie inferiori e superiori, di età tra i 13 e i 20 anni. Ma debbo dire che la relazione che si è creata con l’Istituto Piamarta e con la Croce Rossa Italiana è qualcosa di rivoluzionario sia per noi che per la società! Se miglioriamo noi che abbiamo contaminato tutto quello che toccavamo e se migliorano i ragazzi che dovranno occuparsi con le loro mani del mondo di domani, di sicuro i nostri figli avranno un futuro migliore.

Non pensavo che una persona come me, che ha fatto parte di una organizzazione camorristica, potesse diventare, insieme a studenti e psicologi del Gruppo della Trasgressione, utile a dei ragazzi con diverse problematiche ed essere per loro un Peer Support (educatore).

Entrare nell’edificio del Piamarta e trovare in un’aula circa 12 ragazzi, tra i 15/20 anni, con storie complicate, che ti aspettano per interagire con te, mentre nelle altre aulne si continuava a fare lezione, è meraviglioso. Nel vedere quel quadro così bello, sono tornato al passato, quando avevo 12/13 anni e frequentavo la scuola. La cosa che mi ha stupito di più è che quando ha suonato la campana per la pausa, i ragazzi non sono usciti dall’aula fin quando non abbiamo concluso il discorso.

Le storie di questi ragazzi vanno dal rapporto difficile con i loro genitori e con i loro professori fino al fascino dei falsi miti, all’uso di sostanze stupefacenti e al comportamento del bullo che indossa delle maschere per mettersi in mostra.

I ragazzi in un primo momento si sentivano osservati e studiati, poi noi abbiamo rotto il ghiaccio con il nostro metodo, cioè un tavolo unico, dove ognuno racconta, chi in modo scherzoso, chi con serietà e coinvolgimento, parte della propria vita. In questo modo, gli studenti hanno cominciato senza difficoltà a fare domande e a raccontare di sé.

Da lì in poi è partita una vera e propria maratona di riflessioni e di rivelazioni di segreti nascosti. Ognuno, con i propri tempi, ha dato il proprio contributo. Ci sono storie come quella di “G”, ma anche di altri ragazzi, che a soli 17 anni ha già avuto una vita travagliata, in quanto usava sin da piccola sostanze stupefacenti e ora si trova, da circa 9 mesi, a svolgere i servizi sociali.

Riflettere su queste storie mi porta a dire che io, per questioni meno complicate di loro, mi sono venduto, prostituito a dei falsi miti. Con il senno di poi penso che, se all’epoca avessi avuto l’opportunità di incontrare il Gruppo della Trasgressione, probabilmente non avrei svenduto i miei valori. Avrei scoperto che le fragilità fanno parte di ogni essere umano e che non vanno tenute nascoste; inoltre avrei capito che rispettare i limiti è una vera e propria “trasgressione positiva”.

Dopo gli incontri ci siamo confrontati anche con alcuni professori ed educatori dell’Istituto, che ci hanno detto che sono rimasti colpiti dal fatto che i ragazzi si sono aperti con noi senza conflitto e hanno trovato il coraggio di aprire i loro forzieri e raccontarci cose intime della loro vita familiare e non solo. A mio avviso, si sono aperti con noi perché non ci hanno visto come un’Istituzione o un’autorità, bensì come loro alleati.

Continuerò a lavorare insieme al Gruppo della Trasgressione affinché i ragazzi delle diverse scuole che incontriamo possano cercare le risorse e la motivazione per vivere con dignità e per costruire qualcosa di bello, invece di chiudersi da soli in una gabbia, come abbiamo fatto noi in passato. Forse noi detenuti del Gruppo della Trasgressione possiamo essere il ponte che collega i ragazzi problematici con le Istituzioni.

Come dicevo, l’altro incontro straordinario che ha segnato la mia vita e che mi ha fatto scoprire la libertà, non solo fisica ma anche mentale, è quello con la Croce Rossa. L’attestato che abbiamo ottenuto con il corso di “Operatore Sociale Generico” e il tirocinio che stiamo per iniziare con la Croce Rossa permetteranno ad alcuni detenuti del gruppo di fornare le “unità di strada”, gruppi di assistenza con cui cercheremo di restituire, nel nostro piccolo, qualcosa di significativo alla società.

Nel passato, quando avevo scelto di essere una bestia, volevo che l’ambulanza non arrivasse sui luoghi dei miei crimini. Oggi l’alleanza tra il Gruppo della Trasgressione e alcune istituzioni (il Rotary, la Croce Rossa, l’Amministrazione penitenziaria) mi fa sentire parte integrante di quella società che lavora per salvare gli altri. Sono fiero, nel mio piccolo, di avere incontrato un’Istituzione che da un secolo e mezzo, si prodiga in tutto il mondo per sostenere chi ha bisogno di aiuto.

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Dal ring del Coming out

Caro dottore, ho visto che quello che avevo scritto non le è bastato. Me lo ha modificato, aggiungendo per abuso il suo pensiero astruso.

Comunque l’ho compreso, il mio cervello è sempre in uso. A volte sono un po’ chiuso, ma di sicuro non ottuso. Se la rima che ho prodotto non le piace, la cambi pure lei, che é così sagace.

Io non possiedo la stabilità mentale con cui andar da solo in mezzo al mare, ma ho una zattera che non affonda e che mi permette di cavalcare l’onda 😁

Tanti saluti dal Coming out
Gabriele

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Lorenzo alle colonne d’Ercole

Gabriele Tricomi e Angelo Aparo

Son partito per capire dei concetti
Così ho iniziato a costruire dei muretti
Ma il mio piano era ancora un po’ confuso
Presi la zappa in mano e cominciai a farne uso

Tre persone vennero prima a lavorare
E poi Lorenzo, con le mani a ciondolare
Ma quel ragazzo che pareva ‘sì distante
Fra tutti divenne il più costante

Cominciammo a parlare, persino a progettare
Piccoli sentieri e aiuole da innaffiare…
Ma senza una fonte d’acqua corrente
La fatica diventava deprimente…

Un giorno arrivo con due tronchi
Su un furgone francamente sgangherato
Aparo li guarda e vede Ulisse,
Sagace, indomito e di sapere assetato

Ricorda il mito greco e il confine su quel mare
Lo stretto che l’impavido volle superare

Quei tronchi non sono da buttare
Neanche sedili su cui stare a riposare
Sono le colonne che vogliamo innalzare
Per segnare il confine e chiederci ogni volta
Perché lo vogliamo oltrepassare

D’improvviso ci prende un desiderio
Di giocare a rintracciare la semenza
Con cui di fianco a Ulisse proveremo
Finalmente a cercare conoscenza

Lorenzo, che come me non voleva rinunciare,
riprende la zappa e mi dice “non mollare”.

E così lavoriamo fino a sera,
quando ci allontaniamo dal terreno
con la speranza che domani sia sereno.

Adesso oltre il confine c’è un sentiero
Che puoi seguire da solo o in compagnia
Di un vecchio amico o dell’ultimo straniero

Te ne puoi persino allontanare
Se non dimentichi la voglia di legare
Quello che c’è al di qua e al di là del mare

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  • Abbozzi d'aiuola

Il mio destino

 

Massimo Moscatiello

Sono cresciuto oltrepassando
Le colonne d’Ercole da stolto
Pur vivendo, mi sentivo morto
Ogni limite varcato era un torto

Un giorno incontrai Ulisse
Che mi disse: A conti fatti
Tu puoi anche sconfinare
Ma sete di sapere devi avere

E non basta! Devi anche verificare
Quanto sta in piedi quello che hai imparato
E se con gli altri riesce a funzionare

È così, più libero di dire no alla seduzione
Senza perdermi occasione di istruzione
Con fatica e con gioia ora cammino
Apro le vele e modello il mio destino

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“Fiori per un fiore”

Caro dott. Aparo,

alla fine “pago anche io il biglietto” per il 21 marzo 2017 a Operaeccolo qui.

Una somma di piccole cose, tra le quali – per quanto possa valere, dopo 15 anni di frequentazione – un personale attestato pubblico al valore del Gruppo della Trasgressione e alla bellezza di quello che sei e che fai.

IL 21 MARZO A LOCRI E IN 4000 LUOGHI D'ITALIA

Quanto può fare 940 diviso un mah?!” … così penso la sera del 20 marzo mentre devo decidere quante pagine ragionevolmente dovranno essere stampate per la lettura, al carcere di Opera, degli oltre 940 nomi delle vittime innocenti delle mafie. Un conto davvero complesso, soprattutto per uno come me che non ha mai amato la matematica ma, soprattutto, non ha la più pallida idea di quante persone l’indomani avrebbero avuto il coraggio di alzarsi in piedi e farsi avanti verso un leggio.

Di una sola cosa eravamo certi: che il leggio dovesse stare non sul palco ma sullo stesso piano dei presenti…. per riavvicinare, per quanto possibile, le distanze. Ma anche per altri motivi, non facilmente spiegabili a parole.

Alla fine mi convinco che 30 poteva essere un giusto compromesso, tra la speranza e il timore che caratterizza ogni prima volta.

Nonostante per me sia questa lettura il vero senso del mio 21 marzo 2017, decido comunque di attraversare tutta la città per arrivare a Quarto Oggiaro, in Piazzetta Capuana.

Non sembra per niente il primo giorno di primavera mentre, con il mio scooter, cerco di ripararmi dal vento freddo di Milano mentre il centro città degrada, sempre più, a periferia.

Le scritte sui muri però segnano costantemente tutto il mio percorso, oltre che la storia del nostro bistrattato Paese… del resto quel “Più lavoro meno sbirri di Locri assomiglia da vicino a quel “meno giudici, più libertà di quel 19 marzo 2010 a Milano, trentesimo anniversario dell’uccisione di Guido Galli.

Per un attimo realizzo così che sono proprio quelle due scritte, paradossalmente, ad aver segnato il punto di partenza e di arrivo non solo dei miei pensieri ma anche della mia fortunata coincidenza a ritrovarmi legato ai percorsi di riparazione con alcuni Familiari delle vittime di mafia, i cui sentimenti mi sconvolsero per la prima volta durante un incontro presso il Centro culturale San Fedele: era il 20 marzo 2010.

Ma non c’è però tempo per soffermarmi su quel pensiero perché sono ormai arrivato a destinazione: ho difficoltà a capire dove sia il palco perché sono subito colpito dall’immagine di diverse centinaia di fogli colorati appesi dappertutto… i numeri diventano visioni, e la prospettiva diventa necessariamente più complessa. Anche perché, su quei fogli, ci sono non solo i nomi ma anche le storie.

Nel ricercare quelle poche che davvero conosco, mi lascio interrogare dalle altre.

Non sono il solo, e allora simbolicamente immortalo anche la speranza di questa bella gioventù:

Da un altoparlante sento la voce, come sempre pimpante, di Lucilla che si rivolge ai moltissimi ragazzi presenti… grida a squarciagola quello che Peppino Impastato era solito dire a Cinisi, anche lei senza timore: “La mafia è una montagna di merda!”. Applausi.

Mi avvicino per vedere meglio l’effetto che fa… ha tra i capelli un bellissimo fiore arancione e continua il suo accorato discorso introduttivo.

Poi è il turno di Nando Dalla Chiesa…. ricorda amaramente come “quel Peppino Impastato è diventato noto solo grazie ad un film”, dopo tanti anni dalla sua morte e dalle calunnie fatte trapelare ad arte sul suo conto. Tanto che sua madre ebbe a dire di aver finalmente ricevuto giustizia: “Ha ottenuto giustizia non da una sentenza dello Stato italiano, ma da un film!”.

Ricorda i nomi e le storie di chi, nell’impiego pubblico (giudice, carabiniere, direttore di un ufficio di registro non importa), ha fatto il proprio dovere, pagando per questo con la vita. E conclude ricordando che “la lettura dei nomi mal si concilia con il brusio”.

Rimarrà immobile in mezzo al palco per tutto il resto del tempo, mentre un vento freddo ritorna alla carica e anche molte Autorità presenti, complici altri impegni istituzionali, scendono dal palco e si allontanano subito dopo aver letto alcuni nomi.

Gli altri Familiari sono ugualmente sul palco: intravedo Francesca seduta sul fondo mentre Lorenzo dall’altra parte è in piedi con la felpa di Libera. Nel mezzo Emanuela che, nervosamente, si tocca i capelli.

Quando finisce la lettura, mi complimento con Lucilla per la sua forza d’animo e, in cambio, ricevo due fiori di carta che avevano fino a quel momento abbellito la piazza: “questi li devi portare in carcere, mi raccomando!”.

Sorrido al pensiero di essere ricevuto dal Direttore Siciliano con due fiori in mano, ma ogni desiderio di Libera mi risuona – quasi sempre – come un ordine. Mi allontano non prima di aver staccato alcuni di quei fogli colorati, da recapitare ai rispettivi Familiari (impegnati come testimoni in altri luoghi d’Italia) come un ricordo milanese.

All’arrivo ad Opera c’è il tempo solo per venire a conoscenza che 180 detenuti avevano chiesto di partecipare all’incontro e tentare di conseguenza di rivedere, con Federica e Luana del centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano, tutto l’impianto che avevano immaginato pensando invece ad una dinamica di un piccolo gruppo …… ma nel frattempo sono arrivati anche tutti gli altri ed entriamo nella sala del teatro interno al carcere.

Eccoci qui: una piccola delegazione della cd. società civile, 20 persone tra Familiari, mediatori del Comune di Milano, volontari di Libera e componenti esterni del Gruppo della Trasgressione. Più altre persone interessate a capirne di più, tra le quali intravedo anche Fabio e Maurizio, i due Carabinieri che lavorano ogni giorno con me e che, liberi dal servizio, hanno deciso di accettare il mio invito.

Dobbiamo iniziare perché sono già passate le 15.00, e del resto io non vedo l’ora perché il peso della corresponsabilità di questo momento iniziava ad essere insopportabile… per fortuna, accanto a me che riesco a dire solo poche cose e peraltro male, Giacinto Siciliano invece sapientemente parla di un concetto di sicurezza inteso quale restituzione di uno spazio di responsabilità alle persone che vogliono confrontarsi.

Silenzio.

Inizio a essere anche io più tranquillo: mi siedo mentre tiro un sospiro di sollievo perché realizzo che, comunque vada, l’importante era davvero iniziare.

Ed è Federica che, alzandosi dalla seconda fila, inizia con la pagina n. 1…. dalla sua voce, generalmente pacata, escono nomi e cognomi quasi urlati.

Ricordo quello che lei disse all’inizio del primo incontro, il 7 settembre 2016, tra Marisa e alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione, incontro durante il quale fu il mio amico Lorenzo Frigerio a buttare lì l’idea che si potesse continuare un percorso così importante con la lettura dei nomi delle vittime innocenti proprio in quello stesso carcere: “Il mediatore ha il compito di dare la parola alle persone”. Ed in quel momento mi sembra proprio che, con quelle piccole urla, stia ben assolvendo il suo compito: nomi che, dal 1893 ad oggi, chiedono a gran voce non solo Memoria ma anche, e soprattutto, Impegno.

Federica non fa a tempo a tornare al suo posto con in mano la pagina che ha appena letto che subito si avvicina al leggio un detenuto, e poi un altro. E un altro ancora.

Ognuno con il proprio timbro ma tutti con la voce spesso rotta dall’emozione….ma non è quello che a me colpisce, come invece sottolineerà Manlio Milani. Io sono rapito dal silenzio di tutto quello che gira intorno a quel leggio.

Perché, negli anni, sono stato a Modena, Roma, Milano e Firenze e mi ricordo perfettamente delle letture dei nomi delle vittime innocenti durante quelle Giornate del 21 marzo… ma un silenzio così, davvero, non riesco proprio a ricordarlo.

Un silenzio nel quale quei nomi assumono finalmente un significato diverso, come se qualcuno avesse deciso di “rimasterizzarne” l’audio e, al contempo, di liberarli dalla polvere accumulatasi negli anni.

Ad un certo punto si alza Manlio a leggere una pagina, ma poi sono ancora i detenuti a fare la fila.

Uno dopo l’altro. Sempre tutti in silenzio.

Si alza anche Marisa ma, prima di lei, è Luana a leggere il nome di Marcella.

Ma Marisa, ugualmente, legge la sua pagina scandendo nome dopo nome con uguale intensità, come se fossero, tutti e tutte, figli e figlie sue.

Tra un detenuto e l’altro riescono solo ad “infilarsi”, oltre ad un Maresciallo dei Carabinieri libero dal servizio e pertanto in abiti civili, l’Ispettrice Visentin – orgogliosa della sua uniforme di Polizia Penitenziaria indossata non come uno scudo ma come un servizio – e Cristina, che da grande sogna di diventare un Pubblico Ministero.

Perché, per il resto, se ci fossero altri fogli sarebbero sempre loro a leggerli: uno dietro l’altro, i detenuti del carcere di Opera. Pluriomicidi che fanno la fila, in religioso silenzio, di fianco ad un leggio. Tanto che l’ultimo foglio devono, per forza, leggerlo metà per uno.

La lettura termina. Il silenzio ancora no.

Mentre le volontarie di Libera, che nel frattempo si erano messe anche loro in fila, capiscono che devono necessariamente ritornare al loro posto. Riconosco Aurora: è stata lei che sabato sera aveva avuto il coraggio di una spudorata “richiesta di intercessione”, via telefono cellulare, per entrare in carcere. Consapevole di essere in ritardo, voleva comunque esserci ….a tutti i costi.

Chiedo aiuto alla freschezza dei suoi 26 anni per la parte più difficile, ma che – immerso nell’interminabile silenzio di quei 45 minuti – ho sentito non poteva mancare: i fiori di Lucilla.

Ancora una volta una immagine di Shakespeare mi indica il senso di tutto: “Fiori per un fiore”.

Ci alziamo insieme e andiamo a legarli, uno per parte, sul leggio. Alla fine io richiudo la cartelletta che, ormai, non contiene più quei 30 fogli. E torno a sedermi.

Sto molto meglio: immagino che quei nomi così possano tutti riposare, come Ophelia, finalmente in pace.

Non più disturbati da quel fruscio che anche questa mattina, nonostante il delicato avvertimento di un Familiare prima della lettura, aleggiava ogni tanto sulla piazza. O dalla puzza di qualche spinello, come lo scorso anno in Piazza Beccaria con la complicità di insegnanti distratti ad accompagnare anche qualche alunno svogliato.

E ripenso a tutte le volte che io stesso devo combattere, dentro di me, quel senso di svogliatezza che caratterizza l’essere umano in alcuni periodi della propria esistenza.

Ma è Aparo a ridarmi la carica, mentre alcuni Familiari e alcuni detenuti decidono che è arrivato il momento di fare un altro pezzo di strada insieme, ad iniziare dalla distanza che li separa dal palco e da 10 sedie bianche fino a quel momento vuote: “Vorrei regalare a Marisa e agli altri Familiari qui oggi presenti alcuni beni confiscati alla mafia. Si tratta di Beni che la criminalità organizzata ha utilizzato per uccidere senza però fermare la loro capacità di evolversi. Non possono restituire la vita alle loro vittime ma, grazie alla comunicazione con se stessi e con la società avviata e coltivata in carcere, si fanno oggi portavoce dei loro valori di civiltà”.

Di quei piccoli beni confiscati alla mafia declama ad alta voce nomi e cognomi, come aveva fatto quel 7 settembre quando l’incontro era necessariamente entrato nel vivo. Ho imparato ormai quello che questo vuole significare: come il mediatore, anche l’educatore in carcere – nel riconoscere l’altro tramite i segni distintivi della sua persona e non del suo reato – è in grado di “dare la parola alle persone”.

10 sedie bianche sul palco… 2 mediatori, 3 Familiari, 5 detenuti. Viene spontaneo a tutti lasciare la parola a chi il reato lo ha subito.

Marisa non esita un secondo di più: “da quel 7 settembre ho potuto incontrare qui in carcere tanti altri figli. Marcella non c’è più da quasi 27 anni ma oggi la sento viva come non l’ho mai sentita”.

Piango senza vergognarmi: l’ho sentita parlare ormai tante volte in pubblico della bellezza di Marcella e oggi, per la prima volta, finalmente riusciamo tutti a vedere – in primo piano – la bellezza di Marisa.

Tocca a Rosa…. aveva paura di non arrivare in tempo – una volta terminato il suo lavoro – a Opera ma, camminando di fianco a lei durante tutto il percorso che ci separava dal teatro, capisco che la vera paura era quella di voler entrare in carcere. “Quando hanno ucciso mio nonno all’inizio non riuscivo a capire…. Come un uomo può uccidere un altro uomo? Marisa una volta mi ha portato a Bergamo, c’era un ex camorrista che diceva che a Scampia i bambini non possono scegliere. Io, in prima fila, scuotevo la testa in completo disaccordo. Io non ci volevo credere …. sono andata a vedere di persona, e mi sono ricreduta. Io non perdono ma posso dire, oggi, che il mio dolore non è molto diverso dal vostro, perché nella vita si sbaglia. E anche io mi ero sbagliata”.

E’ il turno di Manlio Milani: “io non sono una vittima della mafia, ma questa mattina – in piazza della Loggia a Brescia – abbiamo alla fine letto anche i nomi delle vittime della strage. Perché non c’è differenza tra chi ha ucciso, così come tra chi è stato ucciso. Molte delle vittime non le conosciamo, ma la stessa cosa vale per chi ha commesso il reato: chi è il colpevole? Quale persona è? Cosa conosciamo di lui?”. Con questa conclusione: “anche io non credo nel perdono, ma al recupero della relazione sì. Occorre quindi alzare lo sguardo su chi ha commesso il reato ma anche su di noi”. Aria pura per i miei polmoni.

Il primo detenuto che prende la parola torna a quel 7 settembre e a quella domanda di Marisa: “perché?”. “Io ti avevo risposto: eravamo delle bestie. Poi c’è stata una persona che aveva detto: non accetto questa risposta perché, seppur bestie, eravate bestie con la consapevolezza. Ecco… ho riflettuto molto durante questi mesi: quella persona aveva ragione!”.

Ripenso al mio personale verbale di quel primo incontro, che ho regalato a Marisa con la speranza che potesse un giorno finalmente condividerlo con altri. E a Walter, oggi invece assente, che sarebbe stato contento di sentire l’effetto di quella sua obiezione da criminologo.

Ma subito sono colpito da un altro paradosso che viene messo a nudo, davanti a tutti, con una semplicità disarmante: “Ho ucciso una persona, la figlia di 10 anni mi ha perdonato pubblicamente. Io invece mi vergogno…. in questo ci dovete aiutare anche voi”.

Uno dopo l’altro, i detenuti del carcere di Opera sono un fiume in piena: “mentre sentivo quei nomi è stato automatico pensare alle persone che ho ucciso io. La prima volta che ho ucciso un uomo ho provato soddisfazione, si chiamava Roberto. Sono in carcere dal 1994, all’inizio non mi ricordavo neppure più come fosse. Poi ho provato dolore”.

Sono stato combattuto… mi alzo o non mi alzo… non volevo sporcare quei nomi. Ma alla fine ho deciso che dovevo fare qualcosa, anche oggi”.

Finalmente riesce ad arrivare sul palco anche Michele, altro Familiare: “Vado a Messa ogni mattina. Stamattina il Vangelo parlava di Pietro e di quella domanda: quante volte io devo perdonare?

Prende la parola Luana, che confida a tutti: “io non ero sicura di voler leggere quei nomi, quasi sottraendo una pagina alla lettura di un detenuto. Ma ho pensato che questo fosse una cosa giusta e ugualmente importante oggi: mi sono alzata pensando che di poter rappresentare la comunità, che necessariamente deve essere anch’essa qui presente”.

Sono le 17.20, abbiamo abbondantemente superato il tempo che ci eravamo prefissati di impiegare. Federica dal palco mi guarda come se dovessi anche io dire qualcosa, ma io invece passo la palla a Siciliano.

Non è da me non pagare il biglietto, come dice Aparo ogni volta che inizia un incontro del Gruppo della Trasgressione: l’ingresso è libero per tutti, ma tutti poi sono chiamati a pagare il biglietto esprimendo la propria opinione.

Ma io, questa volta, non ce la faccio.

Ripenso allo slogan di questa XXII Giornata della Memoria e dell’Impegno: “luoghi di speranza, testimoni di bellezza”. E non riesco a trovare nulla altro di bello da dire ai presenti, che sono stati così straordinari già di per loro.

Penso invece, per un lunghissimo attimo, a tante cose che bussano alla mia pancia tutte insieme, inaspettate.

A coloro che stanno in silenzio dietro le tende di quel palco e che invece potrebbero dire – come ha supplicato Don Ciotti anche domenica scorsa – “almeno dove li hanno seppelliti”: nomi ancora senza un corpo su cui piangere.

Al fatto che, come si è lasciato sfuggire un detenuto, “certo, non tutti le carceri sono come Opera…quello che riusciamo a fare qui difficilmente si può fare in altre realtà”. E al fatto che, come si è lasciato invece sfuggire un Familiare, “in carcere ho trovato una umanità che fuori spesso non riesco a trovare”. Affermazioni entrambe vere. Ma considerazioni, per me, terribilmente amare. Come cittadino, prima che come magistrato. Ma, a dire il vero, anche come magistrato: perché non capisco come sia possibile che la fecondità dell’idea del Gruppo della Trasgressione, e con essa le fatiche quotidiane e molto spesso neppure retribuite di Juri Aparo, non venga doverosamente considerata dalle Istituzioni come un Patrimonio dell’Umanità intera.

Non riesco poi a non pensare a quel filo rosso che lega Marcella Di Levrano, Gaetano Giordano e Giuseppe Tallarita: donne e uomini che hanno avuto tutti l’ardire di dire “no” alla mafia. E alla nostra società, invece così piena spesso di silenzi colpevoli.

Non riesco a non pensare a tutti quei rumori di sottofondo, brusii che spesso rendono banali le cose. Ai tempi veloci di quello che chiamiamo oggi il nostro vivere insieme, ai Familiari che stamattina ho visto scendere dal palco chiamati a testimoniare davanti ad una telecamera durante la lettura dei nomi dei loro cari, perché il TG di mezzogiorno ha tempi più stretti da quelli che la Memoria rigorosamente impone.

Non riesco a non pensare che sentenze dei Tribunali possano davvero essere sostituite dai film, sia pure importanti. E a quante volte ho sentito un Familiare lamentarsi contro questo o quel magistrato, tanto vicino al giudice dormiente raffigurato in un quadro che ogni tanto ancora oggi torna di moda.

Ma poi sento un Direttore di un carcere che sale sul palco e dice: “l’incontro di oggi da un senso al nostro lavoro” e la pancia inizia a farmi meno male.

Ci saranno altre occasioni, anche per dire ad Emanuela che, dentro un teatro che sta dentro un carcere, il nome di Piero Carpita è risuonato in tutta la sua bellezza.

E per restituire Memoria ad altre persone, anche perchè un detenuto, alla fine di tutto, si è avvicinato per chiedermi: “sono stato attento tutto il tempo ma nella lista dei nomi mancava la persona che ho ucciso io”.

Con l’Impegno di tutti.

Perché è vero che la mafia è una montagna di merda ma anche noi, molto spesso, siamo dediti a comportamenti maleodoranti. Ma riconoscere questo è già il primo passo per un cambiamento reale.

Come un lenzuolo bianco appeso da ciascun palermitano, speranza di Giovanni Falcone rievocata oggi all’interno di un carcere di massima sicurezza.

Nel quale, alla fine, ci sarebbe stata bene la musica della Trsg.band e quelle parole di De Andrè che abbiamo cantato anche al matrimonio di Sofia: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”.

Tra Opera e Milano, 21- 23 marzo 2017

Francesco Cajani

Una trasgressione alle colonne d’Ercole

Valeria Pozzoli

Per poter tornare dal viaggio interiore oltre le Colonne d’Ercole ci vuole consapevolezza: ero questo, adesso sono questo, ho scoperto questo di me che prima non sapevo. Mi  ha sempre fatto comodo rinchiudermi in un certo tipo di personaggio, quello della ragazza timida, che non dice mai la sua, che non rischia mai ma che è così brava ad ascoltare e a dare consigli accorati; ogni volta che sento la spinta a buttarmi, mi dico: “sei sicura di volere lasciare questa zona di comfort, sei sicura di voler tradire il personaggio che ti sei costruita attorno?”.

Ma dietro ogni timido c’è un esibizionista che freme per mettersi a nudo davanti al mondo e che allo stesso tempo ha troppa paura per farlo. Fino a qualche mese fa non avrei mai pensato di potere scrollarmi di dosso la coltre che io stessa avevo posto su di me… una serie di cambiamenti repentini, e che ancora forse sto cercando di elaborare, mi hanno fatto comprendere, invece, che sto diventando, lentamente e per gradi, la persona che vorrei essere: che sorride, che condivide esperienze, che non ha più così tanta paura di affrontare la vita, che cerca pian piano di uscire da quel personaggio che ormai le sta stretto. Per me trasgredire significa sbarazzarmi di quel vestito che mi sono cucita addosso, avere il coraggio di essere quello che l’esibizionista che si nasconde dietro al timido vorrebbe che io fossi.

Tornata dalle Colonne d’Ercole, mi piacerebbe poter gridare con soddisfazione di aver preso consapevolezza di avere tutte le carte in regola per diventare la persona che sogno di essere, che alla fine rischiare e decidere di abbandonare qualcosa che mi è tanto familiare ma che un po’ ormai mi nausea non è poi un così grande peccato.

Da qualche mese a questa parte mi sono accorta di essere in grado di saper fare piccole e grandi cose che prima neanche mi immaginavo e questo sono riuscita a farlo solo trasgredendo il mio tradizionale modo di pensare, forse fin troppo intransigente. Ogni strappo alla regola che io stessa mi sono inconsciamente imposta mi rende più sicura e più forte: e se la regola è che non posso parlare perché sono timida e introversa, voglio riuscire ad infrangere questa mia imposizione con serenità!

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Il mio bagaglio alle colonne d’Ercole

Buon giorno a tutti. Ho varcato la soglia delle colonne d’Ercole, già con l’idea di tornare con il mio bagaglio da esibire: ho visto Caino, l’ho visto rubare, gridare, deridere, uccidere. L”ho visto cantare, ballare, correre in riva al mare. L’ho visto in volto serio, compiaciuto, stolto. L’ho visto sfinito, perso, mesto. Ho visto un tuono, ho visto l’uomo.

Ieri mattina cosi per caso ho scritto “buon giorno a tutti”. È stato come gettare un masso nello stagno, le onde subito si sono propagate. In questo luogo ci sono esseri viventi, ma solo alcuni hanno risposto, i più solerti e molto attenti. Stanotte non ho dormito, questo è ciò che ho partorito. Ho pensato di ripetere l’esperimento, facendo a tutti un dono, l”aggiunta di un commento.

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