Sliding doors

Anche se non mi è stato possibile partecipare le ultime due volte, ho visto i film delle ultime settimane. Immagino che la discussione sul film di Cucchi sia stata interessante. A me aveva colpito la totale mancanza di fiducia di Stefano nelle autorità, anche in quelle che hanno provato autenticamente a tendergli una mano.

Abbiamo anche visto La terra dell’abbastanza, il film per l’incontro del 6 luglio. Mi sono persa alcune frasi che, a causa della parlata dialettale, non sono riuscita a decifrare. Ad esempio quando banchettano tutti insieme e il boss sceglie i due ragazzi perché loro “non hanno consapevolezza”, poi conclude con una frase che mi è sfuggita.

Alcuni dei film che stiamo vedendo, sia questo che L’Odio, mi lasciano un senso di angoscia; dentro, mi sembra manchi il pezzo dell’alternativa. Se potessimo pensare ad una sorta di “sliding doors”, dove la potremmo collocare nel film? Quando il padre dà il consiglio sbagliato? O prima ancora? Forse lì era già troppo tardi? Quando nasce la “consapevolezza” e di cosa si nutre?

Mirko, il protagonista, mi ha ricordato tante persone che conosco. Un ragazzo, Leonardo, ha fatto l’alberghiero come Mirko e viene da una situazione familiare difficile. Guardando il film, mi sono chiesta cosa avrebbe fatto Leo al posto di Mirko: sarebbe tornato indietro con la macchina dopo avere investito un uomo? Avrebbe poi accettato di seguire il suo amico nel clan?

Chissà quanti ragazzi in qualche momento della loro vita si sono trovati di fronte a un bivio simile a quello in cui si è imbattuto Mirko! Ma alla fine qualcuno va di qua, altri di là. Perché? In fondo, anche Leonardo ha vissuto quotidianamente la notte dei locali e delle discoteche, dell’alcol che scorre a fiumi e delle droghe.

Beh, non lo so perché, ma sta di fatto che Mirko e Leonardo hanno preso strade diverse. Questo per dire che un’alternativa possibile quasi sempre c’è. Penso che a volte abbiamo bisogno di storie che parlino delle alternative, di dove trovarle e come coltivarle.

Tiziana Pozzetti

Il Cineforum

Per quanto voi vi crediate assolti…

“Per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti “
Fabrizio de André

Mi aggancio alla citazione finale di De André nello scritto di Manuela per proporre una riflessione ulteriore sul film “L’insulto” di Ziad Doueiri.

Riparto dalle parole finali del giudice del film che prima di emettere la sentenza assolutoria dice:”Qui ci sono due persone che sostengono di essere vittime e ci chiedono di decidere chi ha più torto”.

In questa premessa ci sono a mio avviso due concetti utili per nutrire la riflessione sulla banalità e complessità del male.

Concetto numero uno: “ La dialettica dei pugni”. Ovvero stabilire chi ha più torto ha senso solo se si suppone che esista una sola ragione.

Nel film vengono presentate ragioni opposte, entrambe valide, che determinano un conflitto insanabile finché le posizioni restano orientate l’una contro l’altra.

Nel caso del film le posizioni conflittuali vengono sintetizzate dai due avvocati difensori e sono le seguenti:

  1. Anche se Yasser fosse l’uomo più oppresso de mondo, nessuno gli dà il diritto di farsi giustizia da solo.
  2. Yasser Salem reagisce a parole che hanno offeso la sua identità e quella del suo popolo. Quando si oltrepassa il limite, ci si deve aspettare una reazione. È normale, inevitabile, umano.

Gli avvocati argomentano dialetticamente a favore dell’una e dell’altra tesi: ciascuno segue una traiettoria riconoscibile, sensata, condivisibile a seconda dell’orientamento personale di chi ascolta. Tuttavia ciascuna posizione corre parallela all’altra: è impossibile che si incontrino e si accordino.

La prima affermazione sta alla base dello Stato di diritto.

La seconda ha a che fare con il conflitto tragico da Antigone in poi: ovvero la legge naturale che esiste ed ha valore anche quando entra in conflitto con la legge stabilita.

Mi vengono in mente le parole di papa Francesco che fecero grande scalpore nel mondo cattolico all’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo in Francia: “Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. È vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasbarri, che è un amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno”.

Nel film è proprio un pugno ad aprire il conflitto e poi è un altro pugno a fargli cambiare rotta.

Il conflitto che per buona parte del film sembra essere insanabile comincia a cambiare direzione quando, dopo una buona dose di dolore e fatica, ciascuna delle parti in causa, Toni e Yasser, riconosce nella propria storia la presenza dei torti subiti dall’altro: solo quando ciò avviene diventa possibile chiedere scusa.

Yasser non era disposto a chiedere scusa a un arrogante che credeva di avere il diritto di insultare lui e il suo popolo: inizia a cambiare idea quando scopre che Toni gli assomiglia. Da parte sua Toni inizia a mostrare che la sua ferita ha qualcosa in comune con quella di Yasser quando decide di aiutarlo a far ripartire la macchina.

Ma non basta questo, Yasser non vuole essere perdonato o compatito.
Prima di chiedere scusa Yasser ha bisogno di sentire la reciprocità: ha bisogno di sapere che Toni è consapevole di non essere né meglio né peggio di lui ma pari, almeno nella sofferenza. Per questa ragione va per la seconda volta alla sua officina, lo provoca e si fa sferrare un pugno. Solo in quel momento, in cui è innegabile il torto di entrambi Yasser chiede scusa.

Personalmente questa scena del film mi ha colpita molto: i due protagonisti si riconoscono nelle spinte problematiche che li hanno reciprocamente portati a sferrare il pugno l’uno contro l’altro è non nelle loro legittime ragioni.

Per quanto prima si sentissero assolti ciascuno dalla propria ragione è a suon di pugni che scoprono di essere coinvolti in un torto comune che provoca dolore.

Concetto numero due: sentirsi vittime

Frequentando il Gruppo della Trasgressione credo di avere imparato che nella mente di chi commette un reato c’è quasi sempre, in qualche forma più o meno chiara, consapevole e sensata, la sensazione di essere vittima di qualcosa o qualcuno.

Questa sensazione di mancanza e/o di sopruso subito e non riconosciuto è una “fame” che autorizza la sedicente vittima a trasformarsi in carnefice che fa altre vittime, le vittime dei reati appunto.

Ma, a reato avvenuto questa “fame” del carnefice/vittima viene disconosciuta da tutti: dal giudice che non è chiamato a giudicarla, dalla vittima che fa i conti solo con il proprio dolore e dal reo stesso che spesso ha bisogno di convincersi di aver agito come ha reagito perché voleva farlo e non perché spinto da una “fame” sulla quale non ha nessun controllo.

Finché il reo non trova le condizioni per fare spazio all’ascolto della propria “fame”, riconoscerla e darle in pasto vissuti differenti, difficilmente riconoscerà la sua e le altre vittime e si muoverà nella direzione del reinserimento nella società.

Mentre il giudice in tribunale può, anzi deve, sulla base della legge decidere chi ha più torto tra le vittime più o meno manifeste, il Gruppo della Trasgressione cerca, in accordo con il dettato costituzionale, di promuovere il riconoscimento di tutte le ferite per permettere di ricucire “lo strappo” avvenuto nel tessuto sociale.

In questo senso, come diceva giustamente Manuela “per quanto noi ci sentiamo assolti siamo per sempre coinvolti”.

Infine, come sintesi dei due concetti di cui sopra, mi viene in mente l’intervento di Paolo in risposta alla domanda di Roberto che si chiedeva come facessero le persone che gli dimostrano stima e simpatia a fare i conti con il terribile passato che lui oggi disapprova ma comunque non rinnega.

Paolo gli ha risposto raccontando di quella volta in cui è arrivato sul punto di uccidere un uomo. Poi ha detto che, per certi versi, il dolore per la consapevolezza che avrebbe potuto uccidere è più pesante del dolore che ha subito per la morte violenta della sorella Emanuela.

È come se Paolo avesse voluto dire a Roberto che oggi loro due possono avere a che fare l’uno con l’altro in modo autentico, non perché Paolo sia disposto a sorvolare sul passato di Roberto o faccia uno sforzo magnanimo nei suoi confronti. Tutt’altro, Paolo può accettare di fare strada con Roberto perché non lascia che il dolore per la perdita di Emanuela gli impedisca di riconoscere le parti più problematiche del proprio sentire. Sono queste infatti che gli permettono di riconoscere Roberto, tutto Roberto, comprese la sua storia passata e la fatica della sua evoluzione.

Sofia Lorefice

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Riconoscersi

Cari tutti, permettetemi di aggiungere qualche riflessione a quelle che sono emerse in questi giorni sulla scia del film L’insulto.

Per la prima volta da quando è stato avviato il cineforum c’è stato una ripresa dei temi sollevati dal film, che ha stimolato diversi contributi, che non avevano trovato spazio in precedenza.

Penso innanzitutto che il gruppo sia importante come crogiuolo in cui vanno a fondersi i diversi punti di vista, ma che al tempo stesso il ruolo principale sia quello di accogliere tutti coloro che su quel palcoscenico mettono in gioco i loro vissuti, con i loro contributi personali, oltre a partecipare all’analisi teorica del film e della trama. Questo è ciò che penso di capire dal richiamo di Juri alla partecipazione di ognuno di noi.

Quanto al film: il ruolo svolto dalle istanze sociali ha dimostrato i suoi limiti, non riuscendo a far progredire, a smuovere oltre la situazione congelata, il cui sblocco può avvenire solo a partire da un cambiamento interiore, dalla rinuncia allo stereotipo, dalla rottura delle convenzioni, degli automatismi, della riproposizione coatta di schemi comportamentali.

Solo nel momento in cui avviene la rinuncia alla reazione attesa, umanamente comprensibile, ma paralizzante e sterile benché immediatamente allettante e gratificante, solo allora si crea il presupposto per un cambiamento fruttuoso, generatore di crescita.

Uscire dagli schemi è tutt’altro che facile perché essi sono molto seduttivi. Costano poca fatica, sono “naturali”, condivisi, riconosciuti, attesi, “umani”. Per giungere al punto di rottura, alla rinuncia, allo “scongelamento” occorre coraggio e la voglia di provare strade nuove, impervie, dove il senso di colpa del “tradimento” della tua carne ti attende dietro ogni curva.

Credo che la scintilla fondamentale stia nel non riuscire più a vivere schiacciati dalle convenzioni, nella solitudine di un dolore che comunque non si placa. Nella coscienza che la formalità retorica non aggiunge nulla alla tua solitudine, non scalda né scioglie il gelo interiore. Da qui nasce il coraggio di percorrere strade nuove. Da un bisogno impellente di provare a cambiare, dalla consapevolezza di non poter reggere oltre il ruolo, dalla necessità di stare meglio, dalla voglia di sfidare la sorte, poiché non hai più null’altro da perdere. E spesso d’istinto.

Riconoscere l’altro al di là degli schemi, riconoscere l’uomo che è in ognuno di noi, tendere una mano a quel coagulo indistinto che intravedi, offrire una possibilità a te stesso prima ancora che all’altro, per uscire dal tuo dolore, per allontanarti dal buio che ti circonda, per cacciare i tuoi fantasmi: è un brivido, qualcosa che rischia di precipitarti di nuovo nella disperazione, ma è l’unica possibilità che ti rimane per crescere, per allontanarti dall’abisso, per salire a rivedere le stelle.

Riconoscere il ruolo, la funzione, la semplice esistenza dell’altro è l’innesco. Scintille capaci di incendiare praterie sconfinate. Faticosamente, passo dopo passo, ti rendi conto che un altro modo di essere e di vivere è possibile, comprendi che altri si muovono specularmente, che può cominciare un dialogo innanzitutto con te stesso, poi col tuo doppio, che il tuo dolore è simile al suo, in quanto frutto di una presa di coscienza, e che la rilettura critica del passato può essere altrettanto dolorosa, figlia di un’ascesa faticosa dal fondo di un baratro e della difficile ricucitura di brandelli di coscienza…

che rispecchiano anni di solitudine, di disperazione e di dolore spesso autoreferenziale, ma che possono aiutare ad innalzarsi fino ad abbracciare l’orizzonte più ampio della comunità violentata e delle vittime.

Paolo Setti Carraro

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Cibo a domicilio…

Cibo a domicilio per famiglie in difficoltà,
i “fattorini” sono detenuti in semilibertà

Il Gruppo della Trasgressione fondato 22 anni fa nelle carceri
ottiene l’incarico e una sede in via Sant’Abbondio

IL GIORNO – Andrea Gianni

Milano, 1 giugno 2020 – Dopo una frenata, c’è una ripartenza. In momenti di crisi, quando tutto sembra immobile, nascono occasioni di crescita. Detenuti delle carceri milanesi in regime di semilibertà o ex detenuti in libertà condizionale hanno ottenuto l’incarico di distribuire cibo a famiglie disagiate a Rozzano e Peschiera Borromeo, riuscendo a garantirsi uno stipendio minimo nei mesi dell’emergenza sanitaria. Un’occasione di incontro tra persone che stanno cercando di ricostruirsi una vita fuori dal carcere e famiglie fragili, che rischiano di finire ai margini.

Un risultato del Gruppo della Trasgressione, iniziativa creata 22 anni fa dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero di detenuti attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità, attiva nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore. Oltre all’aggiudicazione dei bandi per la distribuzione di cibo nei due Comuni dell’hinterland milanese, il Gruppo ha ottenuto una nuova sede a Milano grazie al bando di Palazzo Marino “Valori in gioco“. Si tratta di un appartamento in via Sant’Abbondio, zona Chiesa Rossa, che diventerà una base per le iniziative anti-degrado nel quartiere.

“Dopo decenni di sudore, paradossalmente, in un periodo terribile per tutti, il nostro gruppo raccoglie frutti sui quali avevamo quasi perso le speranze”, spiega Angelo Aparo, fondatore del progetto che all’epoca contò tra i primi partecipanti il manager Sergio Cusani, in cella per la maxi-tangente Enimont, e ha offerto un percorso di recupero anche a persone condannate per omicidi e associazione mafiosa. Percorsi fatti anche di incontri con le vittime di reati e di lavoro in aziende partner e nella cooperativa sociale Trasgressione.net, che vende e distribuisce frutta e verdura.
“Con l’emergenza coronavirus il lavoro della cooperativa si è fermato – spiega Aparo – e per fortuna abbiamo ottenuto gli incarichi a Rozzano e Peschiera che ci permettono di sostenerci anche economicamente. In questo periodo non possiamo più lavorare nelle carceri: abbiamo avviato iniziative alternative online come un cineforum sulla “banalità del male“ che coinvolge detenuti, magistrati, studenti e vittime di reati, in attesa di riprendere i percorsi”.

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La nostra palestra

E’ un divertente paradosso che l’uomo, mentre insegue l’infinito, diventa se stesso nella realtà finita.

A me non è chiaro se punta all’infinito allo scopo di dialogare meglio con la realtà o se, nell’incapacità di rassegnarsi all’irritante esclusione dall’infinito, cerchi di costruire con la realtà una scala che gli permetta di accedervi.

Al momento ho capito solo che, molto facilmente, quando ci si dimentica di una delle due spinte (inseguire l’Infinito e dialogare con la Realtà) cominciano i guai! A smarrire la strada, siamo in tanti; e qualche volta questa dimenticanza porta in carcere.

Visto che a San Vittore ci lavoravo già, 23 anni fa (settembre 1997) mi è venuto in mente di aprire una palestra, tuttora in continua evoluzione. La disciplina che vi si pratica consiste nell’Addomesticare l’Arroganza. Le sedute di allenamento sono effettuate quasi sempre in squadra, i cui componenti sono persone che hanno commesso reati, persone che li hanno subiti, studenti universitari in tirocinio, comuni cittadini e, da qualche tempo, figure istituzionali che si interrogano, insieme con detenuti e vittime, su come si giunge al reato e sugli strumenti per emanciparsene.

In questa palestra, gli attrezzi che vanno per la maggiore sono il confronto, la scrittura, l’invenzione creativa. Uno dei nostri risultati è la rappresentazione teatrale del Mito di Sisifo, un gioco sul palcoscenico, mai uguale alla volta precedente, dove gli attori cercano, ogni volta con parole scelte al momento, le origini, i percorsi e gli esiti dell’arroganza.

Nella stessa direzione vanno la recente iniziativa del cineforum su La banalità e la complessità del male e i nostri giochi musicali, dove alcuni amici musicisti e i componenti del Gruppo della Trasgressione uniscono aspirazioni, riflessioni e competenze nei concerti della Trsg.band.

Obiettivo principale delle iniziative che portiamo avanti con la nostra cooperativa, con l’associazione Trasgressione.net e, in particolare, con la Squadra Anti-Degrado è far sì che chi aveva fatto in passato cattivo uso della propria libertà e contribuito al degrado sociale raggiunga, grazie al costante allenamento e alla varietà delle iniziative,  una consapevolezza di sé e motivazioni tali da poter collaborare efficacemente con comuni cittadini e con le istituzioni nella lotta al degrado, alle dipendenze e al bullismo.

Angelo Aparo

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Note sulle musiche e i testi:

  • File audio n.1: Canzone “San Vittore”, testo di Paolo Donati, musica di Paolo Donati e Alessandro Radici, arrangiamento della Trsg.band, canta Angelo Aparo
  • File audio n.2: Canzone “Malaika” Canzone tradizionale keniota, arrangiamento della Trsg.band, canta Angelo Aparo; all’interno della canzone il testo di “Sogni miei”, di Ernesto Bernardi e del Gruppo della Trasgressione, è letto da Cisky MCK
  • File audio n 3: Canzone “A Cimma”, musica di Mauro Pagani e Fabrizio De André, testo di Angelo Aparo, arrangiamento della Trsg.band, canta Angelo Aparo; il testo introduttivo, “Non era questo il primo sogno” è del Gruppo della Trasgressione, legge Cisky MCK
  • La Trsg.band: Angelo Aparo, Alessandro Radici, Ippolito Donati, Michele Montanaro, Paolo Donati, Silvia Casanova,

Nessuno può crescere da solo

Nessuno può crescere da solo
Manuela Re

Mi aggancio al finale del testo di Tiziana, “Nessuno può crescere da solo”, per tessere le lodi del Gruppo della Trasgressione dove ognuno è guidato ad esercitare la propria FUNZIONE -se ne parlava ieri a proposito di Toni che aggiusta l’auto a Yasser nel film (e, tra parentesi, la mia auto di terza mano è stata più volta riparata da Adriano Sannino senza il quale sarei rimasta N volte in mezzo alla strada e invece ora va come una lippa!)- e anche a diventare una guida per gli altri impegnati a combattere i fantasmi del passato. Penso per esempio al progetto Peer Support con i detenuti del Gruppo che entrano nel carcere di San Vittore per stimolare la riflessione e la crescita degli attuali reclusi, ma penso anche a chi è diventata psicologa come te Tiziana e anche Marta e al vs lavoro quotidiano con bambini/adolescenti l’una e adulti l’altra, incarnando in modo mirabile lo spirito del Gruppo.

Come accennavo ieri, credo che quando il conflitto tra le parti è molto aspro e si porta dietro un dolore atavico -come ne “L’insulto”- sia ancora più difficile uscirne da soli. La riconciliazione è possibile ci dice il film, ma occorre fare un percorso difficile di elaborazione e “scambio simbolico” come hai scritto tu Tiziana. Aggiungo che occorre anche che la società -alias tutti noi- svolga una funzione mediatrice e non si limiti a sperare che le parti avverse trovino da sé la strada per tornare a riconoscersi. Nel film le donne provano a svolgere questa funzione, con scarsi risultati d’accordo, ma fanno la loro parte. Anche il datore di lavoro di Yasser ci prova a modo suo, un po’ per motivi economici e un po’ per spinta compassionevole, ma è difficile con chi “a un certo punto inizia a vedere nemici dappertutto, anche in chi stava solo cercando di aggiustarti un tubo… (peraltro tubo abusivo!) …allora forse quel nemico non è lì sotto al tuo balcone, ma è dentro di te, indissolubilmente legato a ciò che sei diventato….” .

Interviene la legge, anche in questo caso con le proprie imperfezioni (è comunque fatta da uomini), ma mi sembra anche con il merito di aver sostituito la parola all’azione/al farsi giustizia da sé, il pensiero al tumulto di vissuti ed emozioni “non bonificate” (cit. Roberto).  E, in qualche modo, contribuisce a interrompere quel “paradosso della coazione a ripetere”.

Cosa voglio dire? Che non credo che i due protagonisti del film sarebbero arrivati ad una riconciliazione senza l’interesse della società civile -cui fanno parte- e la funzione mediatrice che ha svolto.

Ecco, il Gruppo della Trasgressione svolge egregiamente questa funzione, crede nella Legge e, contemporaneamente, ci ricorda con De André che “… Per quanto voi vi crediate assolti  Siete per sempre coinvolti …”

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L’insulto – male e realtà

L’INSULTO – male e realtà
Tiziana Pozzetti

Siamo a Beirut e due uomini, Toni, Libanese, e Yasser, rifugiato Palestinese, entrano in conflitto per un incidente apparentemente banale: un tubo che si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato. Il diverbio potrebbe risolversi velocemente, ma ad un certo punto arriva l’insulto. Yasser guarda Toni e, puntandogli il dito contro, con disprezzo dice: “Sei un cane”.

Ora, la mia domanda è: siamo sicuri che Yasser stia veramente insultando Toni? E quando Toni denuncia, sta denunciando Yasser?

Con lo scorrere del film diventa sempre più evidente la cecità dei personaggi: Toni e Yasser non vedono l’altro per ciò che egli è veramente, ma per ciò che l’altro rappresenta per loro. La realtà di oggi viene interpretata, quindi, non per quello che è, ma sulla base del male subito nel passato: un insulto ancora vivo, che ha il potere di cambiare il modo in cui i due uomini vedono le cose, di far scivolare progressivamente le loro azioni verso un’orizzonte sempre più ristretto.

Se all’inizio del film si tratta di un banale incidente, che tutto sommato lascia loro la libertà di scegliere quale direzione prendere, alla fine diventa una questione di stato talmente grande che sfugge dalle mani dei protagonisti, i quali non possono nemmeno più scegliere di tirarsi indietro.

A quel punto, infatti, ogni scelta è gravida di conseguenze: porti avanti il processo? Distruggerai una famiglia. Rinunci? Sarai uno sporco traditore della patria.

Ma mentre le piccole scelte che i personaggi compiono ogni giorno li portano piano piano, e quasi senza rendersene conto, attraverso un imbuto sempre più stretto che si incunea progressivamente nell’oscurità del loro rancore, Toni improvvisamente sceglie di fermarsi. Scende dalla propria macchina e aiuta Yasser a rimettere in funzione la sua. Una piccola scelta, apparentemente banale, ma che in qualche modo orienterà il futuro di entrambi.

Il film sembra dirci qualcosa: al timone delle piccole scelte di ogni giorno, ci siamo noi. Dunque possiamo scegliere se usare le nostre competenze da meccanico per manomettere la macchina dell’avversario, oppure per aiutarlo a restare in gioco. Toni sceglie, e si percepisce che in quel momento del film accade qualcosa di diverso, di importante. Quel gesto all’improvviso squarcia l’oscurità che progressivamente stava avvolgendo i personaggi e riporta la luce, permettendo a Toni, forse per la prima volta, di vedere Yasser per ciò che realmente è: un uomo, non un nemico.

Perché è questa la verità: per tutta la parte iniziale del film Toni guardando Yasser vede il persecutore della sua famiglia. E quando Yasser di notte va fuori dalla sua officina e lo provoca fino a farsi dare un pugno, gli sta facendo un importante regalo: la possibilità di chiudere i conti con il passato.

Infatti, a chi ha dato quel pugno Toni? A Yasser veramente? O al nemico che tanti anni prima ha perseguitato la sua famiglia? O ancora a quella parte di sé che oggi rappresenta quel nemico? Perché se ad un certo punto inizi a vedere nemici dappertutto, anche in chi stava solo cercando di aggiustarti un tubo, allora forse quel nemico non è lì sotto al tuo balcone, ma è dentro di te, indissolubilmente legato a ciò che sei diventato, tanto da determinare le tue scelte e azioni.

Se questo è vero, Toni sferrando un pugno a Yasser non colpisce solo un uomo o un palestinese, ma sferra finalmente un pugno al passato che lo perseguita. Un passato che lo ha maltrattato, umiliato, privato dei suoi affetti, cacciandolo dalla propria casa come un “cane”. È quel passato che lo ha insultato, e non gli ha mai chiesto scusa.

Yasser però, dopo aver incassato il pugno, non risponde nello stesso modo in cui il passato di Toni ha sempre risposto. Risponde in un modo nuovo: gli chiede scusa. Chi guarda il film, in questo frangente ha la netta percezione che un conto in sospeso sia stato finalmente regolato. Tra i due personaggi certo ma, ancora più importante, tra ciascun uomo e il proprio passato.

Questo è il paradosso della coazione a ripetere: facciamo di tutto per rivivere esattamente quel passato che ci ha umiliato, eppur tuttavia speriamo che la storia abbia un epilogo differente questa volta. In pratica torniamo al male nella speranza di poterne estrarre il bene. Raramente però le persone a cui abbiamo dato un pugno hanno voglia di invitarci a cena, o di chiederci scusa.

Eppure Yasser nel film lo fa: viene insultato e denunciato ma torna per restituirgli la possibilità di ricevere finalmente quelle scuse che Toni da tanto, e ormai irragionevolmente, pretendeva di diritto. Perché Yasser si comporta così? È tutto merito delle micro-scelte!

Torniamo un attimo alla scena precedente, alla macchina in panne ferma nel parcheggio, con Yasser fermo lì impotente e chino sopra il cofano, non sapendo dove mettere le mani. L’impotenza è qualcosa che da sempre fa parte della sua vita. Scappato dalla propria casa, rifugiato in un paese dove viene declassato ad un ruolo lavorativo inferiore a quello per cui si era formato e che gli spetta, impossibilitato a trovare un lavoro ufficiale e costretto a dipendere dai favori altrui. Lui la frustrazione e l’impotenza le conosce bene, perché per tutta la vita si è sentito dire “ti lascio a casa perché è troppo rischioso assumerti”.

Quindi, all’inizio del film, quando Yasser dà del “cane” a Toni, cosa vede veramente in lui? Un uomo o un nemico che continua a distruggere i tubi che lui costruisce con sudore e fatica? In verità Toni rappresenta per lui un paese che non riconosce il suo valore e la sua identità. Quindi, quando Toni torna indietro per aiutarlo a far ripartire la sua macchina, sembra che stia facendo un piccolo gesto apparentemente banale, ma ha l’effetto potente di far sentir Yasser visto, riconosciuto, accolto da quel paese da cui aspirava da sempre di essere accettato.

Così, alla fine, scopriamo che i personaggi non stavano combattendo l’uno contro l’altro, ma ciascuno lottava contro i proprie demoni e, dietro ai gesti e alle parole, in un luogo più intimo e profondo, stava avvenendo qualcosa di importante per entrambi: uno scambio simbolico, che ha consentito a ciascuno di chiudere i conti con la propria storia e ricominciare a vedere l’altro per ciò che è realmente e non più come il “nemico” del passato, il cui insulto ci ha procurato una ferita talmente traboccante di rancore da avere il potere di tenere in ostaggio il nostro presente e di tenere in un’incubatrice, in sospeso tra la vita e la morte, il nostro futuro.

Ora, cosa c’entra il film con me, te e tutti noi?
Lo “scambio simbolico” ci riguarda tutti perché nessuno può crescere da solo. Per crescere abbiamo bisogno di qualcuno che ci guidi in modo accogliente e progressivo verso le nostre mete.

Facciamo alcuni esempi. Prendiamo un uomo che ha commesso un reato e mettiamolo in una cella. Potrà crescere? Potrà evolvere stando lì alla sola presenza dei muri, delle sbarre e dei propri fantasmi? Facciamo un altro esempio. Prendiamo un bambino e mettiamolo in una stanza piena di giochi, potrà crescere se lasciato da solo? Per quanto quei giochi siano stati creati per potenziare le sue capacità, non serviranno a niente al nostro bambino se nessun adulto si siederà accanto a lui per fargli vedere come si usano quegli strumenti.

Tutti, a tutte le età, siamo quell’adulto e quel bambino.
Abbiamo il compito di riconoscere le spinte problematiche che si agitano dentro di noi e con cui abbiamo bisogno di imparare a comunicare, per diventare a nostra volta adulti e una guida per gli altri. Un po’ come fanno i detenuti quando portano l’elaborazione dei loro vissuti e delle loro esperienze nelle scuole, nell’ottica della prevenzione al bullismo.
Ma non dobbiamo neanche dimenticarci che tutti noi abbiamo dentro un’identità che ha costantemente bisogno di crescere, di nutrirsi, di arricchirsi, di affinare le proprie capacità, di trovare risposta alle nuove sfide, di accettare i nuovi ruoli che ci chiedono ogni giorno di essere diversi, senza però perdere la nostra essenza, di combattere contro i fantasmi del passato che a volte ci mettono i bastoni tra le ruote. Nessuno può fare tutto questo da solo. Nessuno può crescere da solo.

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PS: Ringrazio davvero per tutti gli spunti e i contributi di ieri. Adriano in particolare per il riassunto iniziale e Roberto perché, non solo non si tira mai indietro quando viene provocato, ma ha fatto davvero un discorso profondo senza perdere di vista i temi centrali che stiamo trattando.  Comunque Roberto, tutto il discorso sul doppio lavoro che stai facendo, devi scriverlo!! non può andare perduto…

Uccido dunque sono!

In questi ultimi giorni ho visto diversi film legati in qualche modo al tema del male nelle sue differenti manifestazioni. Sono film molto diversi tra di loro per tanti aspetti, legati anche alle diverse personalità e nazionalità dei registi e non solo. Ma se prescindiamo da ciò ed escludiamo, tra le altre cose, la diversità delle storie raccontate, i differenti contesti ambientali, culturali, politici, c’è un elemento centrale che è presente in tutti e che sottostà al tema del male e delle sue manifestazioni: l’Identità.

I film visti: L’odio, film francese di Mathieu Kassovitz – 1995; L’insulto, film libanese di Ziad Duoueri – 2018; Hannah Arendt, film tedesco di Margarethe von Trotta – 2014; Fa la cosa giusta di Spike Lee -1989, Elephant di Gus Van Sant – 2033, Bowling for Columbine documentario di Michael Moore – 2002, tutti e tre film americani.

In tutti questi film il problema identitario si pone sempre come centrale, è la molla che fa scattare l’odio, la violenza, il male. Anche quando non è esplicitamente evidenziato nel film, l’agire dei protagonisti ha come sottostante la questione identitaria.

Nel film L’odio, la questione identitaria si pone nella continua disperata lotta che i tre ragazzi delle banlieu parigine, portano avanti con chi sta dall’altra parte, poliziotti e Parigi dei benestanti, che li condanna alla marginalità, all’invisibilità, all’indifferenza. Si comportano come fossero dei soldati armati dall’odio, in bilico tra la voglia di rispetto e di riconoscimento e la rassegnazione alla propria condizione. Tutto il film sembra il racconto di una inesorabile caduta, dove l’odio è uno degli impulsi che spinge a precipitare nel vuoto del male, che è il vuoto di ogni cosa annientata di senso in questo precipitare. Proprio come quel tizio che cade dal 50° piano in cui il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. E l’atterraggio finale è drammatico, devastante.

Nel film libanese L’insulto, il forte sentimento identitario di appartenenza ad un popolo, è il motivo di fondo del conflitto tra i due protagonisti che, scatenato da un banale insulto, si estenderà poi come un incendio, alle opposte fazioni appartenenti a due popoli, segnati entrambi da violenze e atrocità, tanto subite, quanto inferte: i palestinesi da una parte, i libanesi dall’altra.

In Hannah Arendt, la questione identitaria si pone in due momenti diversi. Nel conflitto che vede la Arendt stessa accusata di essere una traditrice dell’identità del popolo ebraico, a causa delle sue conclusioni sul processo, pubblicate sulla rivista ‘New Yorker’. Poi nel processo che si svolge all’interno del film, dove la Arendt fa emergere la controversa teoria per cui esseri spesso banali (non persone) si trasformino in autentici agenti del male. Il gerarca nazista Eichmann, si dichiara semplice esecutore di ordini odiosi, non è altro che un ingranaggio della macchina del male nazista, deresponsabilizzato e non colpevole dei crimini a cui ha partecipato. In questa prospettiva egli ci mostra l’aspetto di banalità che può avere il male quando si manifesta nella sconcertante mediocrità dell’agire quotidiano del semplice funzionario. Ma certo è che sul piano della sua piena adesione e identificazione con il nazismo egli è sicuramente colpevole. Eichmann tutto può negare tranne che la sua identità era tutt’uno con il nazismo.

Il problema identitario si pone fortemente anche nel film di Spike Lee Fa la cosa giusta. In una comunità multietnica del quartiere di Brookling convivono afroamericani, italiani, messicani, coreani. Apparentemente sembrano andare d’accordo, in realtà una vera integrazione non c’è, anzi. Ognuno rimane chiuso nel proprio senso di appartenenza identitaria che provoca continui conflitti che esploderanno in una devastante violenza in cui sono tutti colpevoli, anche le forze dell’ordine.

Elephant e Bowling for Columbine, trattano entrambi della strage compiuta il 20 aprile 1999 da due studenti nel liceo di Columbine negli Usa dove la morte per strage di 12 studenti, un insegnante e 24 feriti, si tinge di banale quotidianità.

Questo infatti sembra essere il terreno su cui esplode la violenza del male. La banalità del quotidiano come perdita di significato di ogni cosa. E dove il significato si perde, non c’è sentire. Se l’identità è avere la certezza di sentire di esistere come soggetto che afferma se stesso nel mondo, in un contesto ambientale in cui ogni cosa del mondo appare come indifferentemente fruibile sugli scaffali del supermercato della vita, in cui tutto è appiattito nella vacuità valoriale di ciò che è stato ridotto a nient’altro che prodotto da consumare, la domanda identitaria di questi adolescenti dove mai potrà trovare risposta?

Allora si può forse concepire che al bisogno di qualcosa nel cui significato (non importa quale) possa trovare risposta la domanda identitaria, questa risposta, alla fine, può anche essere il far saltare tutto in aria. Se poi, in un contesto già così nientificante, la forma identitaria socialmente promossa risponde all’imperativo “se non sei qualcuno, non sei niente, non esisti”, se è questo l’unico modo per essere riconosciuti e sentire di esistere, allora, non importa come, la risposta per orribile che sia, può ben tradursi in un atto umanamente inammissibile. Basta prendere dallo scaffale del market, piuttosto che da internet ciò che è lì, disponibile come qualsiasi altra cosa, e trasformare la banale e piatta quotidianità dell’esistere in un divertente gioco al bersaglio.

“Ma soprattutto ci dobbiamo divertire”, è una delle frasi che nel film i due ragazzi dicono prima della strage. Si divertiranno ad uccidere, come in un videogioco. Uccidere per divertimento è il loro modo di sentire? Sentire di essere vivi? Parafrasando crudamente una nota formula filosofica che esprime la certezza indubitabile che l’uomo ha di se stesso come esistente, si potrebbe forse dire: “uccido dunque sono”.

I due ragazzi si dissero di essere sicuri che dall’attentato sarebbe stato tratto un film. Due giorni prima della strage girarono un ultimo video nel quale si scusavano con le famiglie e si vantavano di come sarebbero stati ricordati con infamia dopo la loro impresa. “Sarà un giorno che sarà ricordato per sempre”.

In conclusione
Il bisogno identitario sembra essere la radice di un conflitto profondo che può trovare nel male, nelle sue differenti manifestazioni, una risposta, una funzione identitaria. Questo conflitto sembra esistere in partenza, sin dal momento in cui l’individuo, qualsiasi individuo, si pone l’imperativo di essere qualcosa, di riconoscersi, di affermare una propria identità.

Il bisogno di affermazione dell’identità è un atto conflittuale e divisivo di per sé? L’identità come sentimento di appartenenza a qualcosa, ad un clan, ad un gruppo sociale, alla famiglia, ad un popolo, nazione, idea, religione; ma anche alle proprie ferite, paure, desideri, è un atto di separazione da ciò che è altro da me?

Io appartengo alle banlieu, sono un soldato armato d’odio per chi sta dall’altra parte, e questo fa parte di quello che sono; io sono nazista, tu ebreo e ti uccido perché questa è la legge in cui mi riconosco; io appartengo a questo popolo e tu ad un altro, siamo in conflitto, siamo nemici. L’appartenenza è tutt’uno con l’avere un nemico da cui sentirsi separato, diverso, anche da quella parte di sé che non è ciò che dovrebbe o vorrebbe essere. E se poi la domanda non trova risposta dentro i confini socialmente accettati, la risposta può diventare devastante e trovare nel male la funzione che assolve a questo bisogno identitario, anche nelle forme più orribili.

Banalità e complessità del male, probabilmente questi due attributi sono indivisibili. Il male si presenta sempre sotto queste due forme. Ma non è il male ad essere banale o complesso. Il male di per sé è un concetto astratto. La banalità non è del male, il male che si fa non può essere mai banale. La banalità o mediocrità del male si innesta nel terreno della nostra quotidianità, quella che può essere vissuta e sentita come banale, mediocre, insignificante o semplicemente abitudinaria. Lo stesso vale per la complessità, che non appartiene al male in sé, ma a noi stessi, alle ragioni sottostanti le scelte che possono spingere a precipitare nel vuoto adrenalinico di un colpo di pistola.

Adriano Avanzini

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Commenti alla prima giornata

Commenti alla giornata del 27/04/2020

Conosco il gruppo della Trasgressione da quando è nato, anzi da prima, dal giorno in cui è stato concepito direi, un tempo in cui si potevano fare le gite a Bologna (…e si potevano mangiare anche le fragole!), ma non avevo mai partecipato, se non ad alcuni dei convegni aperti al pubblico.

Il Corona Virus e la mia conseguente disoccupazione mi hanno regalato il tempo di farlo, voi mi avete concesso il piacere di esserci. Grazie è la prima cosa che vorrei dirvi.

La seconda è che ho apprezzato l’attenzione e l’impegno di tutti i partecipanti per più di 2 ore, anche quelli che non abbiamo parlato ma che eravamo presenti “per davvero” (il virgolettato è una citazione della Livia dei vecchi tempi); sarà che nel mio lavoro di moderatrice di focus group con “gente comune” sono abituata a faticare per ottenerli, ma constatare come nel giro di pochi minuti si instauri un clima idoneo nel vs gruppo mi ha fatto sentire in una gran bella compagnia 😊.  Lo strumento web che avete testato funziona alla grande secondo me (e, tra l’altro, apre a nuovi utenti che non possono venire in carcere, per non dire che ho potuto fumare una sigaretta senza danneggiare gli altri!).

Credo inoltre che, nonostante la precisa introduzione di Sofia sul concetto “Banalità del Male” della Arendt, ci siano stati dei fraintendimenti sul tema/titolo del dibattito, il che è più che comprensibile dal mio punto di vista poiché si tratta di un pensiero difficile e palesemente ostico: accostare le parole BANALITÀ e MALE è già di per sé disturbante, suscita reazioni emotive forti da cui viene spontaneo prendere le distanze prima ancora di cercare di capire… è un pensiero difficile da pensare e questo forse dobbiamo dircelo!

Con questa premessa di difficoltà in mente (che Eleonora ha esplicitato nel suo intervento -che tra l’altro mi è piaciuto molto anche per le altre cose che ha detto, in particolare quando ha parlato del “Male come ricerca di libertà di non scegliere”, un’intuizione che da sola ripaga dell’intera partecipazione all’evento per quanto mi riguarda!), possiamo forse provare ad addomesticare un po’ il concetto di Banalità del Male utilizzando un sinonimo di banalità, e cioè MEDIOCRITÀ.   Per la verità, ho trovato la spiegazione di Juri su cosa si intende per “banalità” molto chiara ed esaustiva (ordinario come opposto a straordinario, scontato come opposto a eccezionale, parcellizzazione delle responsabilità -che non vuol dire che non ci siano responsabilità o che il fenomeno diventi meno grave!), ma forse ricordare che “banale” vuole anche dire MEDIOCRE ci aiuta ad accettare/avvicinarci al concetto di “banalità del male” che si vuole lavorare anche nei futuri incontri.

E aggiungo che il titolo del vs webinar è “banalità E complessità del male”, E congiunzione che collega le due parole, non O congiunzione disgiuntiva che introduce un’alternativa tra i due concetti, tipo che uno esclude l’altro… almeno a me sembra così. Quindi potremmo rinunciare allo sforzo di decidere se il Male sia banale ocomplesso per provare piuttosto ad accettare che possa essere entrambe le cose e indagare se nella ns esperienza ci sono tracce di tutto questo. Personalmente, ho senz’altro esperienza di vivere in una “realtà conflittuale e multifattoriale” (cito l’intervento di Juri questa volta), ma non ho la più pallida idea di come (e se) io agisco il Male con la M maiuscola, e non certo perché io sia buona, non saprei cosa dire nemmeno su come (e se) io agisco il Bene! Chissà, forse non ne ho sufficiente esperienza diretta e anche per questo sono molto interessata alle testimonianze di chi sente di aver toccato “il Male” in passato, prima di essere rinchiuso in carcere. E qui mi interrogo solo sul Male (e non sul Bene) perché questo è il titolo degli incontri e non mi piace andare fuori tema. Sono pedante, lo so! Magari della Banalità e Complessità del Bene ne parliamo in un altro convegno, ma in questo a me piacerebbe ci focalizzassimo tutti sul tema che avete deciso.

Ho notato che le “vecchie guardie” del gruppo (Delia, Marta, Sofia, Roberto, etc.), diventate ormai illustri avvocate, psicologhe, prof di filosofia, spacciatori di Frutta&Cultura, etc., sono bravissime/i a stare sul pezzo, cogliere gli input di Juri e provare a rispondere alle sue domande da 100milioni di dollari come le chiamo io (“Esiste una funzione del male per la persona che la compie?” alla faccia! Perché non chiederci direttamente Chi siamo, Da dove veniamo e soprattutto dove andiamo?!)

Sarò felice di conoscere meglio anche le “nuove guardie” del gruppo dal fronte studenti, dal fronte detenuti, dal fronte cittadini liberi.
“Liberi” si fa per dire.

E chissà se proprio il concetto di libertà di ognuno di noi -lo spazio che ci concediamo per recepire gli stimoli che provengono dal ns mondo interno e dall’ambiente esterno- centri qualcosa con la banalità/mediocrità con cui organizziamo le nostre risposte a questi stessi stimoli…

Mi sembra che, molto spesso, noi banalmente REAGIAMO agli stimoli anziché RISPONDERE agli stimoli; per poter rispondere occorre prima accoglierli, accettarli, lavorarli, pensarli, insomma fare tutta quella faticaccia da uomini! Gli animali sono avvantaggiati. In questo periodo sto diventando quasi amica di un merlo che ha fatto il nido sul ns terrazzo (ne ho parlato con cari amici come Adriano e Vittorina, e anche l’Adriano nostro della coop a cui ho mandato anche le foto!) …beh, più lo osservo mangiare le briciole che gli lascio ogni pomeriggio e più lo invidio, anzi invidio soprattutto i suoi piccoli per i quali ha costruito un nido duro e protettivo all’esterno e morbido all’interno. Impulsi regressivi a manetta in questo periodo di quarantena. Voglia di volare in questo periodo di quarantena. Ma a noi tocca crescere, @azz@!  D’altro canto, o cresciamo o siamo infelici, quindi siano benedetti i pensieri difficili e le domande ostiche dei filosofi!

Concludo dicendo che mi spiace che Roberto fosse visibilmente arrabbiato alla fine del gruppo, non so con chi ce l’avesse (forse qualcuno lo ha criticato in separata sede per il suo primo intervento? Ma se era così sul pezzo! Soprattutto quando ha parlato della mediocrità e della eccellenza degli uomini, io seguivo bene il suo discorso… boh!), ma credo e spero che gli sia già passata oggi. Credo anche che nel vs gruppo sia lecito esprimere le proprie emozioni, anzi addirittura incoraggiato come stile, ma mi sembra comunque utile rifarsi al principio del rispetto reciproco e, ancora una volta, all’aspirazione a rispondere anziché reagire agli stimoli. Per essere più esplicita, caro Roberto, non mi piace che qualcuno usi un momento comune per inviare messaggi in codice a qualcuno, ma forse non ho capito niente… e non sarebbe la prima volta! 😊

Fine del mio commento non richiesto al primo webinar gratuito del Gruppo della Trasgressione.

Saluti e baci a tutti,
Manuela Re

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Jojo Rabbit

Lo sguardo di un bambino di fronte alla tragedia del Nazismo.

Di fronte al disconoscimento programmatico dell’altro, privo della presenza del padre e col bisogno di appoggiarsi a qualcosa che gli dia il senso della solidità, Joio cerca nell’ideologia nazista una traccia per non perdersi .

Si fa aiutare da un amico immaginario, un Hitler in versione buffa che dovrebbe aiutarlo a orientarsi in una realtà troppo difficile da comprendere e troppo in contrasto con i sentimenti che egli vive.

E la storia va avanti… fin quando qualcuno gli suscita dentro sentimenti così forti da non essere compatibili con l’oscurantismo che il Nazismo richiede.

Angelo Aparo

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