Impressioni di maggio e violini del mare

Resoconto degli incontri
al Monumentale, alla Fabbrica del Vapore e al carcere di Opera

Il bel maggio si fa piovoso. E’ buffo, ogni volta che ci si incammina con i detenuti e gli studenti tra le sepolture del Monumentale il cielo è addensato di nuvole. E’ successo quando abbiamo girato le riprese finali di un percorso costruito in sette anni di collaborazione tra Liceo Artistico di Brera e Carcere di Opera, si è ripetuto nei due incontri di restituzione cittadina al Cimitero Monumentale e alla Fabbrica del Vapore di Milano. “Sposa bagnata sposa fortunata” verrebbe da dire e il matrimonio tra due mondi differenti come quello degli studenti e dei detenuti è stato felice per  significato e relazioni tessute.

Il percorso autobiografico sul mito al Cimitero Monumentale con Antonio Tango (che ha appena finito di scontare una lunga pena) è stato accolto con vivo interesse dalle molte persone di differenti fasce d’età in tutti e due gli appuntamenti. Mentre arrancavamo tra le sepolture infangate dalla pioggia, nel tempo stretto che ci doveva poi portare alla Fabbrica del Vapore,  seguendo Antonio veniva da cercare un senso al chi siamo e cosa ci facciamo al mondo. Con la poca scuola ritagliata in carcere, le cose apprese di straforo dalle guide ufficiali con curiosità insaziabile, ci ha condotto in un itinerario simbolico in cui ha illustrato i monumenti che hanno lasciato un segno in lui quando ha svolto servizio al Monumentale, scegliendo tra le sculture legate al mito i dettagli che gli hanno parlato: la Medusa, la spirale, il tradimento, Narciso, Amleto, la clessidra e il tempo fermo.

Antonio ha ricomposto i pezzi di una vita in cui è passato da un rapporto predatorio e rapace con la città d’adozione ad una dimensione estetica prima impensabile, dove può fermarsi a guardare e scoprire che la bellezza esiste: “Se oggi mi accorgo di una statua, lo faccio perché non sono pietrificato; ritenevo tutti responsabili del dolore che provavo. Solo comprendendolo, masticandolo, il dolore, sono riuscito ad elaborarlo. Oggi il dolore non mi pietrifica. Sotto la crosta, il rosmarino ha germogliato dentro di me, i dolori sono riemersi dalla pietrificazione del male e mi hanno permesso di riprendere a crescere perché la rabbia pietrifica anche la crescita, la voglia di curiosità. L’arte è anche quello che ci vede chi la guarda. La testa di Medusa la amo e la odio. Guardo quel grido che mi ha pietrificato la crescita. In alcune statue del Monumentale ho visto un Narciso con la mano sul mento che s’interroga sull’infinito, un ragazzo giovane che si specchia nell’acqua e entra nella sua morte. Cosa trovo io nella mia vita, in questa opera, in questo momento?”

La pietra e il soffio è il titolo del percorso al Monumentale. Un itinerario fatto di dettagli indicati dallo guardo di Antonio: una clessidra rovesciata, la sacchetta dei trenta denari sotto il tavolo dell’ultima cena, il viso di Medusa nel Monumento Fabé. Quest’opera mostra il peso del bronzo e l’immobilità della pietra in antitesi alla leggerezza e al brillio della ceramica smaltata in tenue azzurro dell’angelo di Fontana che, come la Nike di Samotracia, sopraelevata rispetto alla tomba, sembra liberarsi dal peso della materia per riprendere il volo, il respiro, il soffio di nuova vita.

Il lavoro di scavo intrapreso da Antonio e dagli altri detenuti del Gruppo della Trasgressione fa bene, prima però fa male: passare da quando non avverti il dolore dell’altro che annienti a quello in cui prendi coscienza di questo dolore, può indurti a disperazione. Il prezzo è alto, il vantaggio possibile.

Dopo il percorso al Monumentale eccoci arrivati alla Fabbrica del Vapore per la proiezione dei due filmati Eravamo cattivi, appunti sul gruppo della trasgressione, del regista Sandro Baldoni e Il teorema di Pitagora, esercizi su carcere e cittadinanza, docufilm che ripercorre tutta l’esperienza didattica. Il racconto dei due cortometraggi accosta universi distanti: un centro fatto di adolescenti liceali e una periferia al bordo dell’abitato che è città e non è più città: Opera, il carcere.

Sandro Baldoni, regista nastro d’argento che ha lavorato con noi in una lunga attività di volontariato, racconta dei due cortometraggi con la grazia di chi non si mette in mostra ma fa parlare le immagini, in stile sobrio con sprazzi di ironia. Ha il dono della sintesi e la pazienza dell’ascolto, anche se il treno non lo aspetta. Sandro è anche uno dei familiari delle vittime di una violenza cieca che priva delle persone amate.

Segue l’intervento di Paolo Setti Carraro, chirurgo nei paesi in guerra, vittima di mafia nell’attentato dove sua sorella Manuela ha perso la vita accanto a Carlo Alberto Dalla Chiesa. Le sue parole hanno la compostezza e la dignità che lo caratterizzano. Attualmente partecipa ad incontri settimanali in carcere nei percorsi di giustizia riparativa in cui familiari di vittime e rei tornano a parlarsi; uscire dai ruoli incomunicabili vittime e carnefici scollando l’aridità dell’anima è un modo per tornare a respirare e non incistarsi nel peso dell’odio e della vendetta.

Nella parte finale il suo intervento ha una nota nuova, un’incrinatura della voce quando riporta il racconto di Pasquale Trubia, che sconta delitti di mafia: uscito dal carcere dopo decenni per un frammento di tempo che gli consentisse di dare la sua testimonianza agli studenti, dal Palazzo di Giustizia (dove veniva richiesto il permesso di entrare a scuola) gli sono apparse all’improvviso le guglie del Duomo: come una rivelazione, una vertigine di luce dopo un secolo di assenza da se stesso. Ha tremato di emozione alla scoperta della bellezza, ha tremato di timidezza e responsabilità all’idea di parlare a ragazzi.

Questo sentimento è condiviso da Antonio, Rocco, Adriano, Roberto… non è più l’adrenalina di depredare la città ma la commozione per la sua luce, non è la durezza del non mostrare emozioni ma la pratica inedita della propria fragilità, violentemente espulsa dalla vita e da un carcere sovraffollato che può diventare scuola di altra devianza. A noi è toccato il privilegio di muoverci in esperienze pilota che cercano di attuare il dettato costituzionale dell’articolo 27 sulla funzione educativa della pena.

Seguendo il metodo Aparo chiamo le studentesse che con più intensa motivazione hanno partecipato al gemellaggio scuola-carcere a dire cosa resta loro delle cose fatte insieme. Le ragazze hanno nomi d’intonazione paradisiaca che fanno da ossimoro con quelli dei detenuti che vengono dalle periferie del Sud e che si chiamano Rocco, Antonio, Pasquale, Nuccio… Eccole, intimidite dal microfono: sono Chiara, Beatrice, Angelica, un’altra Angelica, e meno male che Celeste aveva un esame e non può esserci, che altrimenti ci piovevano addosso cascate di manna dal cielo e polvere di stelle! Qualcuna di loro è ancora in quarta liceo e aveva cominciato il percorso poco più che bambina, a quattordici anni, altre adesso sono studentesse universitarie. Niente di più distante da ergastolani e allora com’è che adesso Angelica abbraccia Nuccio e Pasquale stringe le mani a Chiara?

E’ che forse non sono più quel Pasquale assassino e quel Nuccio che la figlia non vuole vedere, è il Nuccio che ha letto una poesia in Siciliano dedicata proprio a quella figlia che lui andava a guardare di nascosto durante un permesso premio, mentre lei lavorava alla cassa del supermercato; è il Pasquale che ha cercato di morire quando è giunto alla coscienza del male fatto. Nell’autolesionismo pieno di tagli del detenuto si è rispecchiata Angelica che si tagliava a sua volta durante la pandemia. Eccole le ragazze dal profilo dritto e dagli occhi accesi mentre s’immaginano il Duomo attraverso gli occhi di Pasquale che lo sta raccontando dal vivo così come lo ha scoperto all’improvviso dal palazzo di Giustizia. Chiara sa la storia dell’arte e ci sarebbe venuta a piedi per essere presente a questo incontro, dalla sua Sicilia. Ed è venuta. Ha parole bellissime, le sentiamo in noi per la sua sensibilità. Come nel Gigante e la bambina di Ron, una delle due Angeliche ha ritrovato la parola accanto ad Antonio, è riemersa da una forma di mutismo a questo suo parlare di adesso, che vince una paralizzante timidezza.

Li ascolto mentre interagiscono, così diversi e così vicini, vengono in mente le note di uno spartito. Se Antonio Tango è stato protagonista di parte dei nostri filmati e della visita al Monumentale, i nostri incontri in realtà si chiamano Rocco, Pasquale, Roberto, Adriano, Pino, Angelica, Beatrice… si chiamano come tutti gli altri che abbiamo conosciuto e con cui ci siamo detti cose che contano. Insieme fanno una partitura corale, un concerto.

E non a caso con la musica terminano i nostri due incontri al Monumentale e alla Fabbrica del Vapore, con le parole poetiche di Fabrizio de André e i suoi canti degli ultimi, con il pescatore che non chiede il conto all’assassino, ma gli versa il vino e spezza il pane.

Proprio con questi testi, sempre nel filo della musica si apre, un mese dopo i nostri due appuntamenti al Monumentale e alla Fabbrica, la meritevole iniziativa I violini del mare contro l’indifferenza. L’interpretazione di Juri Aparo, calda e graffiante, risuona nel carcere di Opera, accompagnata dal violoncello del virtuoso violoncellista Issei Watanabe nel suo giovane viso ispirato. Li guardiamo, hanno entrambi gli occhi chiusi nella diversità delle loro caratteristiche, li ascoltiamo, viene anche a noi da chiudere gli occhi e da immaginare un mondo diverso, dove le cose possano cambiare come è stato per i reclusi che ci siedono vicini; possano cambiare le cose come crede don Luigi Ciotti, prete che costruisce ponti tra i diseredati. Quando parla, le sue parole sono pietre. C’è la sposa amata da Fabrizio, anch’essa una voce: Dori Ghezzi, che sarà testimonial in un tour per dire no all’esclusione e che ha apprezzato interpretazione e arrangiamenti della Trsg.band.

Nella liuteria del carcere di Opera il maestro liutaio Enrico Allorto fa realizzare ai detenuti i violini del mare, recuperando i legni dei naufragi, degli ammazzati dall’indifferenza dei privilegiati. Nel cimitero del Mediterraneo un papa venuto dalla fine del mondo ci ha ricordato cosa è pietas, cosa è ospitalità; di questa i greci fecero reciproca assicurazione sulla vita. Pegno di civiltà. Contava.

Ora c’è chi chiede agli scampati: ma lo sapevate che era pericoloso partire? Chi pensa al fastidio che dà trovare morti in mare, disturbano. Si è spezzata una corda. Non è così che ce lo immaginavamo, quando ci pareva ad un passo dal cambiarlo, quel mondo. Si è spezzata una corda; i liutai cercano di riannodarla. Siamo creature fragilissime, che si possono rompere da un momento all’altro. Non ce lo ricordiamo. Solo l’amore resta, nessun potere, nessuna ricchezza sopravvivono.

Ora, poiché arrivi nella nostra città e nel nostro paese,
non ti mancherà una veste o cos’altro
è giusto ottenere arrivando da supplice sventurato. […]

Ma costui è un infelice, qui arrivato profugo,
che ora ha bisogno di cure: mendicanti e stranieri
sono mandati da Zeus. Il dono sia piccolo e caro.

(Odissea, VI, XI).

Giovanna Stanganello

Incontri con gli studenti

Progetto Brera in Opera

Il teorema di Pitagora
Esercizi su carcere e cittadinanza, Milano, 2018-21, min. 35

Gruppo della Trasgressione delle carceri milanesi
Progetto Brera in Opera del Liceo Artistico di Brera

 I visi intenti all’ascolto, serio, attento: gli studenti del Liceo Artistico di Brera e i detenuti del carcere di Opera sono gli uni di fronte agli altri e parlano con linguaggi diversi di temi vissuti a nervi scoperti nell’adrenalina dell’adolescenza o negli eccessi della devianza: la sfida, la rabbia, il tempo, la paura e il coraggio… li guida uno psicologo fuori dagli schemi attraverso il processo di scavo esigente, radicale che ha nome gruppo della trasgressione.

E poi ci sono i ragazzi più piccoli, del biennio, che lavorano sulla poesia e che s’incontrano su vissuti esistenziali: la ferita e la cura. Le scene riprendono gli interlocutori nel tempo che precede e che attraversa la pandemia nella doppia reclusione del non ricevere visite in carcere e nell’isolamento di ragazzi che nelle sensibilità più accese hanno riportato ferite dell’anima.

È quella condizione che viene raccontata da due universi apparentemente antitetici: un centro fatto di adolescenti liceali e una periferia al bordo dell’abitato che è città e non è più città: Opera, il carcere.

Il linguaggio si è fatto pratica concreta di inclusione: non c’è campo e controcampo, ma passaggio continuo dal primo (e primissimo piano della narrazione) al campo totale della coralità.

Incontri e prevenzione nelle scuole

Giovanna Stanganello

Il teorema di Pitagora

Brera in Opera diventa docufilm
Studenti e detenuti a confronto

“Il Teorema di Pitagora – Esercizi su carcere e cittadinanza“
il progetto che ha già coinvolto 750 liceali. Insieme ai reclusi firmano anche una trilogia su errori, redenzione e perdono, tra poesie e arte.

di Simona Ballatore,
Da Il Giorno 10/05/2023

Storie di errori e violenza. Storie di redenzione e perdono. Studenti e detenuti si raccontano e guardano negli occhi al liceo artistico di Brera. Il progetto “Brera in Opera” è nato nel 2016: ogni anno coinvolge cinque classi, più di cento studenti, dai 15 ai 19 anni, insieme ai docenti e ai ragazzi dell’istituto Benini, che ha una sezione carceraria, all’istituto penitenziario di Opera e al Gruppo della Trasgressione, con al timone lo psicologo Juri Angelo Aparo.

Un progetto che si trasforma ora in un docufilm “Il Teorema di Pitagora – Esercizi su carcere e cittadinanza” e in tre libri, che verranno pubblicati entro la fine dell’anno. Il video è realizzato con immagini girate in gran parte dagli studenti e montate da Sheila Baldoni, ex alunna, con la supervisione dei prof Marco Capovilla e Giovanna Stanganello e il coordinamento del regista Sandro Baldoni. “Qui c’è chi si è sentito libero non quando era ’fuori’ e poteva fare tutto, ma quando ha trovato nel confronto con voi il senso della sua esistenza”: ha detto ai ragazzi il direttore del carcere di Opera, Silvio Di Gregorio, durante la presentazione. “Sia gli studenti che i detenuti hanno raccontato le loro esperienze, anche a livello grafico, hanno scritto brani e poesie – spiega la preside del liceo Brera, Emilia Ametrano –. Hanno raccolto le esperienze di chi, dopo un percorso psicoterapeutico, è riuscito a superare il lutto e il torto subìto. E di chi dopo trent’anni di carcere ha cambiato vita, sta creando una famiglia, ma non dimentica”.

Il progetto di scambio non si è fermato neppure in epoca Covid. “È stato organizzato anche un Cineforum online – ricorda Ametrano – detenuti e studenti si connettevano e partecipavano a un momento di critica sui film”. Da Rocco e i suoi fratelli a Ladri di biciclette. Per gli studenti sono state ore preziose: “Hanno affrontato un percorso sulla banalità del male, sul dare sempre la colpa agli altri, sull’idea di farsi giustizia e sul bullismo – continua la preside -, hanno riflettuto sul salto di qualità dell’adolescente attraverso la consapevolezza delle proprie azioni e le assunzioni di responsabilità: è educazione alla cittadinanza”. Ieri l’aula era stracolma, non si vedeva un cellulare tra le mani. “Mi ha colpito il religioso silenzio”, confessa la preside, mentre Adriano, ex camorrista, racconta che è entrato in carcere a 25 anni, è uscito a 51, una manciata di giorni fa: “Ora sto costruendo una famiglia, sono un papà, non vedo l’ora di cambiare pannolini, di ricevere la carezza di mia mamma, anche a 50 anni. Non pensavo esistessero certe emozioni. Il carcere può cambiare anche se non dimentico di essere stato un assassino”.

Incontri e prevenzione nelle scuole

Andare a rapinare era normale

«Per me andare a rapinare era normale, l’ho fatto per 30 anni», la storia di un detenuto raccontata agli studenti

di Giovanna Maria Fagnani – Dal Corriere della Sera 10/05/2023

Per sette anni, gli studenti del liceo Brera e gli alunni-detenuti del carcere di Opera hanno lavorato insieme al progetto «Brera in Opera»: «Confrontarmi con ragazzi delle superiori mi ha fatto crescere, non mi sento più escluso»

Il 41 bis, il «carcere duro» voluto da Falcone contro i mafiosi: come è cambiato e quali sono le limitazioni

Il carcere di Opera

«Per me andare a rapinare era normale. Io dicevo “vado a lavorare”, l’ho fatto per 30 anni. Una volta ho stretto forte il collo a una ragazza. E mi dicevo: sono diventato così perché a 8 anni ho subito un atto di bullismo. Mi hanno buttato giù dalle scale e ho passato tre mesi ospedale. La verità è che a un certo punto io ho messo da parte chi mi doveva aiutare a crescere, e ho dato potere alla mia rabbia. E quello che mi fa più male non è il fatto che mi hanno sparato e accoltellato. Non sono i 27 anni di galera, ma il fatto che in quella vita fin da piccolo ho perso la voglia di crescere. E ho perso 10 dei compleanni di mio figlio. Oggi sto vivendo un periodo tanto bello che mi sembra di sognare e ho paura di svegliarmi. Confrontarmi con studenti delle superiori mi ha fatto crescere, oggi non mi sento più escluso, oggi mi sento parte di questo mondo».

Il crimine e la devianza, la sfida, le ferite, la trasgressione, l’adolescenza. Il doloroso cammino che porta alla coscienza di sé e la giustizia riparativa. Per sette anni, gli studenti del liceo Brera e gli alunni-detenuti del carcere di Opera hanno lavorato insieme su questi e altri temi, grazie al progetto «Brera in Opera». Ne sono nate poesie e contributi, condensati in tre libri, nonché opere artistiche e nel docufilm «Il Teorema di Pitagora- Esercizi su carcere e cittadinanza», diretto dal regista Sandro Baldoni, presentato martedì nella sede del liceo in via Papa San Gregorio XIV. I ragazzi di seconda hanno partecipato, in particolare, a un progetto di espressione poetica. I maturandi hanno lavorato coi detenuti nell’ambito del Gruppo «Trasgressione.it», presieduto dallo psicologo Juri Angelo Aparo.

Un programma durato sette anni e che ha coinvolto quasi 700 studenti. A raccontare le tante emozioni condivise, martedì mattina, sono stati studenti, insegnanti, operatori e alcuni ex detenuti, come Antonio, ex rapinatore e Adriano, ex camorrista, libero da 20 giorni. «Sono entrato in carcere a 25 anni e sono uscito a 51. Ma, come ho detto ai ragazzi non è il carcere che ti chiude, è la mente. Oggi sono libero mentalmente, ho una famiglia, vado a casa e cambio il pannolino della mia bimba e voglio farlo io. E mi godo il fatto che mia madre, mi fa una carezza, ancora oggi, a 51 anni. Non pensavo esistessero certe emozioni. Fra tanto marciume che c’era in me, il dottor Aparo ha cercato cose positive e le ha fatte uscire».

Tanti gli ospiti, tra cui il direttore del Carcere di Opera Silvio Di Gregorio e Paolo Setti Carraro e poi il regista Sandro Baldoni, lo psicologo Juri Angelo Aparo. Il carcere di Opera permette ai detenuti di frequentare l’istituto tecnico commerciale o l’istituto professionale. «Spesso il fenomeno malavitoso è conseguenza di quell’idea dell’onnipotenza in cui è facile credere se non si ha una conoscenza completa della realtà, che invece una formazione culturale può offrire – ha sottolineato Claudio A. D’Antoni, dirigente dell’Iis Benini di Melegnano, a cui fanno capo le sezioni scolastiche di Opera -. Questo percorso insieme ai detenuti per gli studenti del liceo può essere non dico un deterrente, ma almeno una presa di visione realistica, che deve motivare ulteriormente al rispetto delle regole». «C’è una tenenza a banalizzare, a minimizzare il male, anche i primi accenni di comportamenti che vanno verso la delinquenza – aggiunge la preside di Brera, Emilia Ametrano -. Un giorno un genitore di uno studente mi disse: “non è mio figlio che spaccia, sono gli altri che glielo chiedono”. Ci vuole uno scatto di responsabilità da parte di tutti. Questo progetto, che sicuramente continuerà, ha avuto efficacia nel far incontrare mondi diversi, come scuola e carcere».

Incontri e prevenzione nelle scuole

Gli studenti e i carcerati a Opera il dialogo oltre i muri

di Sara Bernacchia,
da Repubblica 10/05/2023

«Siamo un gruppo che invita a trasgredire per costruire spazi più ampi in cui sentirsi a casa. Facciamo in modo che gli studenti crescano, che i detenuti diventino cittadini e che le vittime elaborino il loro dolore». Angelo Aparo, psicologo che da anni opera nelle carceri milanesi descrive così il Gruppo della Trasgressione (composto da detenuti, universitari e parenti delle vittime), che idealmente si allarga a una quarta componente: gli allievi del liceo artistico di Brera. Lo “sconfinamento” avviene grazie al progetto Brera in Opera, che dal 2015 ha visto circa 750 ragazzi dell’istituto confrontarsi con i detenuti del Gruppo e con gli studenti della sezione carceraria dell’istituto Benini a Opera.

Un progetto nato dall’idea di Pierluigi Cassinari, ormai ex docente del Brera, e della moglie Antonella De Luca, all’epoca responsabile del corso carcerario. L’obiettivo? «Dare attuazione concreta agli articoli 34 e 27 della Costituzione, ovvero ai principi di scuola aperta a tutti e di rieducazione dei condannati, con la consapevolezza dell’importanza del mettersi nei panni degli altri».

I benefici sono evidenti, per tutti. «Sono entrata in contatto con un mondo completamente diverso dal mio, credo sia utile farlo presto – racconta Beatrice Ajani, 17 anni, allieva di quarta -. È stimolante vedere persone che lavorano su se stesse e che riescono a maturare consapevolezza degli errori commessi». E Antonio Tango, che ha trascorso in carcere 27 anni, lo sa benissimo. «Ero un rapinatore e facevo uso di droga perché mi mancava qualcosa, sentivo un malessere che non sapevo definire». Poi, con il lavoro fatto in carcere, ha capito: «Mi mancava uno scopo. L’ho trovato anche stando con loro, sentendomi utile e sviluppando senso di responsabilità».

Il progetto è raccontato in tre libri e in un corto, realizzato con il regista Sandro Baldoni: “Il teorema di Pitagora”. Il titolo deriva dalla sfida di Tango (vinta, oggi è libero): quando si è avvicinato al Gruppo Aparo gli chiedeva di fermarsi a ragionare sulle cose di cui non comprendeva l’importanza, come il teorema, perché il passo decisivo è sforzarsi per apprendere e rispettare le regole.

I1 senso del progetto lo sottolineano la preside Emilia Ametrano e il direttore del carcere di Opera, Silvio di Gregorio: «La convivenza pacifica si fonda sul rispetto delle regole. Voi ragazzi sarete la classe dirigente. Dalla vostra attenzione a questi temi dipenderà il benessere del Paese di domani».

Brera in Opera prevede due filoni: il laboratorio di poesia e quello con il Gruppo Trasgressione. «Gli studenti del liceo e i detenuti hanno lavorato in parallelo su temi come la ferita e la cura, la sfida e la rabbia per poi confrontarsi in due incontri, uno a scuola e uno in carcere», spiega Giovanna Stanganello, che ha coordinato il progetto fino a settembre e ricorda con emozione gli incontri in Dad durante il lockdown: «Era come se vivessero una doppia esclusione: non potevano uscire, i detenuti non avevano visite e i ragazzi hanno visto emergere problematiche importanti».

È proprio durante un incontro sul tema “la ferita e la cura” che Angelica Maffi, 18 anni, ha voluto parlare di sé. «Per la prima volta ho parlato del mio problema con l’autolesionismo, che combatto ancora – racconta la ragazza, che appare anche nel corto -. Mi sono sentita incoraggiata e capita. Tanti mi hanno scritto dicendo che le mie parole li hanno aiutati». La chiave è sempre il confronto. Lo ribadisce anche Paolo Setti Carraro, fratello di Emanuela, uccisa con il marito, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «In carcere la libertà si conquista uscendo dagli schemi che ti hanno portato a delinquere. È questo il passaggio determinante e per compierlo la contaminazione tra chi è dentro e chi è fuori è fondamentale». Lo testimonia l’esperienza di Adriano Sannino, libero da due settimane dopo 30 anni di reclusione per omicidio. «Moralmente non potrò mai pagare per quello che ho fatto – esordisce -. Confrontandomi con voi, però, ho potuto configurare i miei disvalori. Oggi sono libero fisicamente, mentalmente lo sono da quando ho conosciuto Aparo».

Incontri e prevenzione nelle scuole

Due poesie a confronto

Per chi scrivo: due poesie a confronto
con la cronaca di un auto-apprendimento

di Giovanna Stanganello

 Gli incontri tra studenti e detenuti sono pratiche di cittadinanza e spazio di conoscenza; costituiscono occasione che fa della pena strumento educativo per il recupero alla società di chi ha commesso gravi crimini; sono momento di riflessione sui nostri destini e possibilità di scampare ad essi, scartando da una storia che sembrava scritta, senza scampo.

Non è tutto scritto, si può cambiare.

La forma promossa dal gruppo della trasgressione diventa comunicazione intima, radicale che ci interroga in quanto esseri umani, non c’è discorso obliquo né giustificazione, c’è recupero di un senso dopo l’annegamento, un possibile risveglio dal sonno della coscienza.

Cosa abbiamo tratto dagli ultimi incontri del nostro pluriennale rapporto con il Gruppo della Trasgressione? Quello che il presidente del gruppo chiama viaggio di andata e ritorno: dalla terra al pianeta in cui, marziani della loro esistenza, si sono persi a truffare e assassinare: pianeta ricco di potere, denaro, macchine, donne da possedere, pianeta arido da cui raramente si torna.

E quelli che tornano? Erano lì, con i ragazzi del liceo di Brera che li hanno conosciuti in due incontri a scuola, dopo tanta distanza e reclusione nella reclusione della pandemia. Erano lì, senza fronzoli, il dott. Aparo non dà scampo, non lascia scantonare di lato, se sei tornato dal pianeta del male parli in modo diretto, non ti racconti la realtà parallela delle giustificazioni o del diritto di calpestare diritti altrui. Sei lì, inerme davanti ad una verità ripescata a fatica uscendo dall’azzeramento del non sentire l’altro. L’animo è nudo.

Mi ha colpito particolarmente una parte del lavoro che nel gruppo della trasgressione viene sviluppato: la relazione tra genitori e figli. Figli trascurati, ricoperti di denaro e diseducazione, figli male  adorati che nutrono un rapporto amore-odio verso genitori “sbagliati”. I destini sono diversi: qualcuno con il sudore ha recuperato la relazione, qualcun altro è stato rifiutato nonostante sia oggi una persone differente da quella che i figli piccoli hanno conosciuto.

Tante emozioni. Ne riporto alcune:

Adriano ha una compagna che si è innamorata di lui, marziano ritornato ad essere uomo. C’è una ragione in questo amore: quello che ha davanti è una persona che si alza alle 4,30 per lavorare in una cooperativa di ortofrutta, che assiste durante la pandemia gli anziani che non possono uscire e li rifornisce di quanto hanno bisogno; è un uomo quello che gioca con i suoi bambini, delicato di una delicatezza inedita.

Pino ha una figlia, è lì: qual è il momento in cui è iniziato il viaggio di ritorno? Quello in cui, a casa in permesso, chiede alla sua ragazza adolescente: “dove vai?” e lei. “T’interessa dove vado? Ma tu non lo hai mai saputo, cosa t’importa adesso?”. Quando rievoca questo momento davanti a lei, gli si spezza la voce. Un dettaglio apparentemente secondario è stato la leva per tornare ad essere uomo. Potrai mai dimenticare? No, ma capire, nel tempo, questo sì.

Nuccio: infanzia arrabbiata nelle pieghe della Sicilia infiltrata dalla mafia. I più svegli e vivaci vengono notati dai signori della criminalità organizzata e “allevati”da essa, dunque sono “spediti” su  Marte. Ed ora, scontata una lunghissima pena, i figli sono inarrivabili. Una malattia si è portata via il suo ragazzo con cui aveva ripreso ad avere una relazione significativa e che gli aveva detto un giorno in cui Nuccio, mortificatissimo, era arrivato in ritardo: “non m’importa se è tardi, m’importa che tu ci sei”. Ricordando quel momento si commuove, fa silenzio. La figlia non vuole vederlo, lui tenta e ritenta, resta a guardarla da lontano, dove lei lavora, dall’esterno dell’Esselunga.

Roberto ci ha messo tanto tempo per tornare ad essere credibile, le figlie sono diverse e diversamente si relazionano. Racconta così quello che chiama: “il mio slittamento verso la devianza”:

il mio paesaggio ha subito una desertificazione,
la mia anima ha albergato in una pozzanghera
”.

Nuccio, Rosario, Mario, Adriano, Roberto, Sergio, Mohamed, Antonio…

scorrono le storie davanti allo sguardo dei ragazzi: attentissimi. Che cosa ne hanno ricavato lo diranno gli studenti stessi nei testi che invieranno.

Io ho fatto della letteratura una ragione, non solo perché la insegno, ma perché credo che l’arte abbia il potere di svelare e questo potere lo ritrovo negli incontri così intensi tra gli studenti e i detenuti. Quando il cosa si dice e il come lo si dice si corrispondono, scatta la scintilla dell’arte, che sta nella capacità che hanno gli umani di incantarsi a vicenda con le storie narrate quando queste parlano davvero di noi. Se accade quella scintilla possiamo dire che la letteratura si fa vita. Due volte ho conosciuto questo potere: tra i marziani tornati dal pianeta della devianza e nel Brasile degli ultimi.

Riporto il primo esempio a riguardo:

Nuccio legge le poesie che mai avrebbe pensato di comporre nella sua vita precedente, le legge  con intensità struggente; i suoi testi sono inscindibili dal modo in cui li interpreta, nella lingua madre siciliana, senza recitare, con la commozione che li spezza.

Se a vita fussi scrittu ‘nda fogghiu i catta
unni pi cangiari i cosi
bastassi na gomma
lassassi sulu tanticchia
da me vita
Quali?
Quannu era picciriddu
u restu u scancillassi […]

Mi ha fatto venire in mente Tolstoj in Morte di Ivan Il’ic. Il protagonista è perso nelle apparenze borghesi, nella vacuità di una non esistenza priva di senso profondo, senza quel nocciolo che ha avvertito  unicamente  nell’infanzia e nella prima giovinezza. In fondo anche lui ha abitato il pianeta del vuoto e torna alla vita vera paradossalmente quando, per una grave malattia, la sta perdendo e ne ricostruisce il senso in estremo:

Tutto ciò di cui vivesti e vivi non è che menzogna,
inganno che ti nasconde la vita e la morte.

E Nuccio non sta parlando, forse, di questo significato profondo tornato in superficie, quando dice: l’adrenalina, l’eccitazione mi venivano solo dal potere e dalla sopraffazione, ma oggi, quando tremo e sento gli studenti emozionarsi perché ho letto una mia poesia, mi dico che ero cieco, che cosa conta il resto al confronto di questo gusto di oggi, nuovo, di questo sentire pieno?

Il secondo esempio di letteratura come vita viene dal Brasile, lo riporto in comparazione con un’altra poesia di Nuccio: il cui titolo è assai simile a quello scelto da Denise, menina de rua; ciascuno di essi si chiede, in fondo: Per chi scrivo? e ciascuno muove dalla sua esperienza per dare un senso al proprio atto di comunicazione: Nuccio lo fa per riconquistare il cuore di sua figlia. Denise (a cui vengono attribuiti i diritti d’autore per le sue poesie e che, tornata sulla strada, vi scompare) scrive per i ragazzi della strada, per i mendicanti, gli accattoni e i drogati,  che mai arriveranno a leggerla e che faranno del suo libro un appoggio per la loro testa durante il sonno.

I due testi sono attraversati da una grande potenza per la loro verità e per uno stile diretto, efficace e toccante. Non so perché, ma mi hanno riportato alla mente una bella storia con cui voglio terminare: è la cronaca di un autoapprendimento. Eccola: un povero del Brasile, non alfabetizzato, che non rivela la sua deprivazione culturale per vergogna ed orgoglio, matura caparbiamente una tecnica di associazione delle lettere a partire dal suo nome sulla carta d’identità, dai cartelloni che vede per strada, dai nomi delle vie e da stralci di giornale… in cui riconosce i segni delle parole che ricorrono. Dopo mesi e mesi di sforzi per tentativi ed errori, la scrittura gli si palesa, come una specie di rivelazione: “e alla fine fu come un soprassalto: stavo leggendo tutto, tutto!” Un ‘intelligenza acuta volta a un’intenzione al cambiamento.

Le energie più vivaci possono essere sfruttate per le ragioni più abiette dalla criminalità organizzata, uscirne è impresa ma se, con uno scarto individuale o con un gruppo di appoggio ti dai una possibilità, allora “nel fermarti la mente riprende a respirare, allora ti  vengono i pensieri e riesci a farti delle domande”: così conclude Antonio Tango (detenuto e omonimo del protagonista brasiliano di questa  cronaca di un autoapprendimento) parlando del teorema di Pitagora che si è messo a studiare. Da questa riflessione sull’importanza dell’interrogarsi sulle cose prendendosi il tempo per farlo è nato il film Il teorema di Pitagora realizzato nella collaborazione tra il liceo e il  laboratorio della trasgressione.

 

Picchì scrivu puisii?

Picchì scrivu puisii?
Fossi picchì no nti sappi
teneri nde razza?

O fossi,
picchì no gnucai
mai cu tia?

O picchì
no ndi sappi rari
u megghiu ri mia?

Macari ka c’era,
Era iù ka no vireva.
Passai troppu anni o scuru,

Era accussì scuru
ka no mireva
Mangu chiddi chiù vicinu.

Picchì vogghiu
addivindari pueta?
Fossi picchì sulu l’animu

di mpueta è degnu
di riqunguistari
u to cori.

Perché scrivo poesie?

Perché scrivo poesie?
forse perché non ti ho saputo
tenere in braccio

O forse
perché non ho giocato
mai con te

O perché
non ti ho saputo dare
il meglio di me

Anche se c’era,
ero io che non ti vedevo
ho passato troppi anni al buio

Era così buio
che non vedevo
neanche quelli più vicini

Perché voglio
diventare poeta?
forse perché solo l’animo

di un poeta è degno
di riconquistare
il tuo cuore

Nuccio di Mauro, Opera, 26 ottobre 2016

 

Para quem escrevo

Hoje perguntara-me
para quem esu escrevo.
Tentaram-me interrogar com a questão:
para quem escrevo os meus pensamentos.
Com um olhar distante e um jeito um tanto tímido
respondi…
escrevo para os que nunca chegarão a ler;
escrevo para os que nunca frequentarão uma escola,
escrevo para não tem um tostão
nem ao menos para comprar um pão
ou um livro de poemas,
escrevo para os mendigos, pedintes,
drogados ou viciados
que um dia encontrerão em meu livro
um apoio para suas cabeças durante o sono.
Escrevo para os que come eu
são ou já foram meninos de rua,
escrevo para você, e para você,
para que o mundo conheça nossas alegrias
e sofrimentos.

Per chi scrivo

Oggi mi hanno chiesto
per chi scrivo.
Mi hanno interrogato con la domanda:
per chi scrivo i miei pensieri.
Con uno sguardo distante e un fare un po’ timido
ho risposto…
scrivo per quelli che non arriveranno mai a leggermi;
scrivo per quelli che non frequenteranno mai una scuola,
scrivo per chi non ha un soldo
nemmeno per comprare un pane
o un libro di poesie,
scrivo per i mendicanti, gli accattoni,
i drogati o i viziati
che un giorno troveranno nel mio libro
un appoggio per le loro teste durante il sonno.
Scrivo per quelli che come me
sono o già furono ragazzi di strada,
scrivo per te, e per te,
perché il mondo conosca le nostre allegrie
e sofferenze.

Denise Christine Fernandes, S. Paulo, 16 giugno 1994

                               Marte, andata e ritorno

Bene e male, cibo per pensare

Il testo che segue mi è caro per la modalità in cui è nato. Ero rimasta colpita dall’interesse che Angelica Alessio, mia studentessa di 5FHA, aveva dimostrato, restando molte volte oltre l’orario stabilito e partecipando anche a un’iniziativa extra al cineforum su Banalità e complessità del male con una parte curricolare legata a neorealismo “e dintorni”.

Purtroppo, ci sono momenti in cui Angelica non riconosce le sue eccellenti potenzialità e si blocca nelle consegne mettendo a rischio il successo scolastico. La fase covid non aiuta. In uno di questi momenti in cui aspettavo il suo articolo per Voci dal Ponte che non arrivava, ho avuto l’idea di telefonarle, dicendole semplicemente che avrei trascritto in diretta le sue parole.

Quello che segue è il testo che ne è nato. Angelica non ci crede, non ha fiducia nella sua espressione e cestina tutto, ma le sue parole brillano e sono un contributo di grande utilità civile. Mi ha emozionato anche il messaggio di Juri Aparo, il nostro irriverente psicologo : <<Dedicarsi così a un’allieva è cosa rara. L’hai incoraggiata a far suonare le sue corde, che hanno un suono dolcissimo. Al prossimo concerto spero di poterla invitare a dire qualcosa di questo scritto, così prezioso e nutriente da non potere essere tenuto sotto chiave>>.

Anch’io lo spero e non vedo l’ora. Colgo l’occasione per ringraziare il sostituto procuratore Francesco Cajani per aver definito innovativa la mia antichità, non si tratta che di una ricetta semplice: ascoltare.

Ricordo che sono stati di notevole pregio sia gli interventi dei compagni di classe di Angelica che i contributi creativi di 5BHA già pubblicati, insieme a quelli di studenti delle altre due classi del Liceo di Brera partecipanti al cineforum.

Giovanna Stanganello

 

Complessità e banalità del male

In un anno difficile, l’esperienza con il gruppo della trasgressione è stata emozionante. In ciascuno dei 5 incontri a cui ho partecipato mi sono sentita accolta; di certe cose non puoi parlare facilmente con le persone, non avevo mai preso parte a un cineforum con partecipanti così differenti. Il tema “banalità e complessità del male” e il modo di trattarlo aiutano a capire le persone e le società in un modo diverso da come sei abituato. Ci vorrebbero più momenti di dialogo, di confronto, nella scuola e fuori.

E’ il mio punto di vista, mi piace quando si parla di cose profonde, anche studiare, andare a scuola deve essere sostanziato da altro, altrimenti sembra tutto banale. In particolare sul film “Una giornata particolare” ho colto cos’è educazione civica, ho capito ad esempio cosa è stato il fascismo attraverso il vissuto delle persone, ho sentito anche una nuova idea di fare storia. Non è solo studiare delle pagine, con un film ben fatto riesci a capire meglio, entri nei modi di vedere delle persone.

Lo studio astratto e mnemonico che ho fatto nella scuola media era solo un ricordare, ma alcune cose non riuscivo a capirle, non riuscivo ad entrare nella mentalità, molti temi durante il percorso scolastico mi lasciavano perplessa, Volevo capire alcune ragioni, entrare nello sguardo di chi aveva vissuto la storia. Durante gli incontri di un cineforum di questo genere si possono sentire, capire opinioni diverse. Non è solo argomento di studio, per avere un voto, ma è discussione, è il nocciolo, il sodo, per comprendere meccanismi che hanno portato a fare alcune cose nel tempo.

Davo gli eventi storici per scontati: ci sono persone cattive e buone. Banalizzavo. Adesso il bene e il male mi appaiono in altra luce. Le cose mi incuriosiscono, hanno spessore, ci sono altri meccanismi, cose più profonde da poter capire. Le persone non si possono dividere semplicemente in buone e cattive. Faccio un esempio: la tv crea gruppi, etichette, cose che fanno comodo, io stessa, sentendo parlare, alimentavo in me fazioni contrapposte.

Capire la psicologia umana è invece molto difficile, richiede sforzo da parte di ognuno. Se si creano etichette, si mettono persone in gruppo a parlare a casaccio, ti crei solo un luogo comune. Attribuire cattiveria fa comodo, ti fa sfogare la rabbia, io stessa mi sono accorta di appoggiarmi sulla cosa semplice, per sfogarmi. Credo che a scuola ci dovrebbero essere più momenti in cui si parla della psicologia delle persone, mettere in dubbio cose, mettere persone diverse di qualsiasi età ed esperienze a confrontarsi.

C’è molta disinformazione, si tende non per cattiveria ma per facilitare le cose a vedere le altre persone in modo stereotipato, a creare gruppi contrastanti e basta… e non riflettere ti porta alla “banalità del male”. Questo è un problema che non si vuole affrontare. E’ successo sempre, fin dall’inizio della storia. Nella superficialità non si troverà mai una riflessione per sistemare le idee, si va di fretta dalla mattina alla sera, si corre, diventa quasi un bisogno fisiologico semplificare, creare luoghi comuni. Se si andasse con calma le persone potrebbero elaborare in modo individuale un proprio modo di vedere, potrebbero coltivarlo.

Riallacciandomi a “Una giornata particolare”, il film di Ettore Scola, il personaggio di Antonietta era fascista, raccoglieva le immagini del duce, ma non era una donna cattiva, aveva una sua personalità. Le viene imposto un ruolo ma lei non vuole questo realmente, lei ha il suo carattere. Quando Gabriele comincia a parlarle si vede che Antonietta ha i suoi personali desideri, che vanno oltre la catalogazione della casalinga fascista. In un altro film su cui abbiamo lavorato, “I cento passi”, ci siamo accorti di come il male riproposto nei singoli atti diventa banale e se si banalizza tutto, allora non si avrà mai la propria capacità di poter pensare e di accorgersi di fare del male alle persone. Non è che ci si sveglia una mattina e si fa del male, ma è un sentimento diventato più forte, iniziato da qualcosa di piccolo, che non è mai stato risolto e ha portato ad azioni efferate.

Spesso nella società non c’è aiuto per trovare un modo profondo di vedere le cose, per costruire una propria personalità. Nel gruppo ci si adatta, anche se ci sono cose che non ci piacciono. Se qualcuno dice a noi “a noi tutti piace il colore rosso”, anche se a te non piace, hai paura di dirlo perché temi che ti caccino. E lo dici anche se non pensi sia così. Ognuno, stando in un gruppo, doverebbe avere amore per le persone in generale. Ognuno dovrebbe avere le proprie libertà e un gruppo che ti costringe o ti pressa a fare qualcosa non ti rende libero di esprimere la tua personalità. Se ognuno avesse la sua libertà e cercasse di aiutare le persone, penso che la gente non avrebbe così voglia di trattarsi male.

Mi sono resa conto di alcune cose proprio partecipando al gruppo della trasgressione, sono sempre stata interessata agli argomenti di educazione civica, ma mi sentivo banale ad esprimermi, per la prima volta sono riuscita a farlo davanti a tante persone. Ne avevo bisogno. Nel gruppo c’erano anche detenuti che erano stati ex mafiosi e tu potevi metterti nei panni di una persona con un’esperienza così negativa, cosa impensabile. A volte avevo sentito i criminali come se fossero degli animali, mi dicevo: se incontrassi questa brutta persona non so cosa le farei, ma bisogna individuare la sofferenza dell’altro e comprendere la sua psicologia.

Ho sentito che la coscienza è l’obiettivo del lavoro con il gruppo della trasgressione. Il male non bisogna mai giustificarlo ma creare sentimenti di odio non è né accettabile né utile. La punizione in sé non aiuterà, non saranno le punizioni o addirittura la pena di morte a cambiare la società in meglio, ma dare opportunità di aiuto psicologico e sociale è la strada. Seguendo il cineforum mi sono resa conto che accanto alla prigione è urgente uno sforzo, un percorso psicologico. Bisogna tornare a ragionarci, non come si fa nei social, creando un odio inutile. Aumentare l’odio è terribile. Ci vuole un grandissimo sforzo per ricostruire una persona, per ricostruirsi. La pena di morte è un paradosso, a volte possono essere in carcere anche degli innocenti. Non si ricaverà mai niente con la semplice prigione ma solo con un processo psicologico lento e difficile.

I social creano un sacco di cose immotivate, ci si fa una brutta idea delle persone. La sensibilità che senti per il genere umano è ciò che salva. Ci servono più persone che facciano da intermediarie. Ci si può arrabbiare ma si deve ascoltare ciò che l’altro pensa. Non si può catalogare e basta, le persone non sono delle cose, sono esseri viventi. E’ necessario almeno non veicolare messaggi di odio. Gli stessi giornalisti a volte non si rendono conto di non fare un buon servizio.

Il bene e il male devono essere regolati, ci vuole una mediazione, non si può alimentare il senso di frustrazione perché questo porterà la persona inesorabilmente a fare cose brutte. I tg mandano in onda cose terribili, sono sempre pronti a filmare determinate azioni e in questo modo stai già creando azioni negative. Partecipando al cineforum mi sono chiarita su tutto questo, mi sono resa conto di molte cose che davo per scontate. E’ stato utile, tantissimo.

Oltre al laboratorio della trasgressione mi è piaciuto partecipare agli incontri dell’Istituto di storia contemporanea sui movimenti dagli anni ’50 al ’70. Finalmente i ragazzi hanno cominciato a parlare, sono attività molto sentite. Ho capito che le persone vogliono che qualcuno le aiuti, che capisca i loro problemi. Alla fine siamo umani, è questo che dovrebbe essere più importante: maschi e femmine siamo umani. Se si lasciasse alle persone lo spazio per confrontarsi, per mettere insieme le proprie idee, per elaborare qualcosa, credo che molte cose brutte non accadrebbero e non ci sarebbero episodi di odio, di male. Oggi non siamo più in un’epoca violenta come nel ventennio fascista ma alcuni risentimenti, rabbie ci sono ancora e questo scatena malessere.

Angelica Alessio

Il male complesso e banale

Pratica di cittadinanza

Lunghe fasi dominate dal distanziamento sociale, a cavallo tra due anni scolastici, nell’impossibilità di toccarsi, mesi a dannarsi per imparare nuove piattaforme, con ansie vissute in solitaria. Perdere per strada ragazzi più fragili o demotivati, smarriti nei labirinti dei supporti digitali inadeguati o mancanti, delle connessioni che saltano. Scoprirsi una timidezza nel guardarsi in uno specchio, nell’usare un microfono davanti ad una platea spesso invisibile e impiegare mesi a preparare materiali didattici adatti alla nuova situazione.

Insegno lettere nel liceo artistico di Brera, ho faticato a padroneggiare la didattica a distanza e, nella mia antichità, mi sono posta quest’obiettivo: usare ogni strumento per realizzare il “non uno di meno”. La domanda è stata: come trasformare il problema in una risorsa? La risposta possibile: scegliere tra le pratiche didattiche quelle che sono risultate, nel tempo, più coinvolgenti.  Gli studenti avvertono se quello che fai è per passione o per forza. La condivisione del piacere che nasce dalla curiosità per gli altri, dalla conoscenza è il privilegio del mestiere di insegnante, è una delle rare scintille che si accendono nei ragazzi quando qualcosa ha funzionato oltre l’apprendimento della nozione.

Ho sentito così che in questo periodo di pandemia in cui la reclusione è divenuta, nelle differenze, condizione comune, aveva senso portare avanti il gemellaggio Brera in Opera che conduciamo da anni tra il nostro liceo e il carcere nelle due attività del Laboratorio della trasgressione per il triennio e del Laboratorio di poesia per il biennio. Sapevo che il dottor Aparo (generoso psicologo fuori dagli schemi, con lunghissima esperienza nelle carceri milanesi e coordinatore del gruppo della trasgressione), nell’impossibilità di continuare le attività in carcere, aveva dato inizio nel lockdown ad un cineforum che promuovesse una riflessione su banalità e complessità del male. Sua ambizione era estendere ad una dimensione geografica più allargata il gruppo, costituito da studenti del liceo, detenuti ed ex reclusi, studenti universitari, vittime di reati comuni o di mafia, operatori culturali e sociali, insegnanti. Il tema richiama il testo di Hannah Arendt, che s’intende declinare in chiave di attualità e nei vissuti di ciascuno.

Ci siamo inseriti come progetto Brera in Opera con la proposta di un pacchetto orario sullo stesso tema ma calibrato su un percorso curricolare e interdisciplinare di italiano, storia, filosofia, educazione civica. Abbiamo proposto una rosa di film su neorealismo e “dintorni” in cui il male banale e complesso assumeva una dimensione storica, sociale, individuale nelle declinazioni delle sopraffazioni o della riduzione consumistica degli uomini ad oggetti. E così, anche se non è stato possibile avere nel nostro liceo il gruppo dei detenuti di Opera, né andare nel carcere dove sono cessate durante la pandemia le visite degli esterni, come quelle dei familiari (reclusione nella reclusione) abbiamo scoperto che lavorare con il gruppo della trasgressione poteva riservare sorprese anche nella didattica a distanza.

L’obiettivo ambizioso di far comunicare mondi diversi ha funzionato ancora una volta. Ci si è parlati, ci si è preparati vedendo film, leggendone recensioni, ragionando insieme. Cosa rende così importante il contatto tra i detenuti e i ragazzi? L’intensità dell’esperienza con cui il mondo degli adolescenti ha colto la differenza tra il delinquente di un tempo e l’uomo di adesso che ha fatto una scelta di campo: passare dentro il lancinante percorso di coscienza del male compiuto, che non era percepito come tale, quando il processo di empatia era inibito, il dolore della vittima non avvertito.

Questo hanno testimoniato i ragazzi nel raccontare l’esperienza. Il laboratorio della trasgressione, nei lunghi percorsi psicologici condotti nelle carceri milanesi dal dottor Aparo, libera l’umano sepolto nel carnefice anestetizzato al dolore dell’altro. Non è un percorso facile, si diventa infami agli occhi dei detenuti irriducibili, che etichettano con questo termine chi entra nei percorsi di recupero e sceglie di dare un senso all’educazione come uscita dal lager dell’assenza della propria anima, della propria umanità. Qualcuno può iniziare per tornaconto, per abbreviare la pena o avere permessi, ma il calcolo è sbagliato, il conto non torna: guardarsi dentro, andare al centro del male prodotto ad altri fa male al nuovo sé stesso, quello che sente com-passione.

Salvarsi vuol dire perdere il sé stesso di prima, è il lutto di chi ha prodotto lutto. È una lingua nuova appresa oltre l’odio che albergava tra vittima e carnefice ferendoli entrambi. In questa lingua parlano oggi Roberto, Adriano, che attraverso la cooperativa di frutta e verdura in cui lavorano durante i permessi dal carcere, prestano soccorso in questo tempo di nuove povertà da covid, distribuendo gratuitamente a chi non ha. E’ una pratica nuova il gratuito, è il senso dell’umano ritrovato.

La presenza negli incontri di persone molto diverse ha portato valore aggiunto, una ricchezza inestimabile a detta degli studenti, che raccontano la loro. Ed ecco il bilancio: ragazzi che non intervengono in classe hanno parlato davanti a una platea virtuale di 70 persone. Lo stesso è accaduto nel laboratorio di poesia per il biennio (con il poeta Vittorio Mantovani, ex recluso di Opera e la regista teatrale Roberta Secchi) sul tema “la ferita e la cura”: una ragazza ha rivelato che si taglia, cosa che nessuno sapeva; lo studente con sordità ha parlato di questa sua ferita. A me e alla mia collega veniva da piangere. E ancora un paio di miracolose situazioni, inattese. Come se il silenzio intorno consentisse una concentrazione diversa, come se un’esposizione paradossalmente meno diretta producesse qualcosa di inconsueto. Insomma, non ho una teoria rigida sulla didattica a distanza, dipende da che tipo di scuola si fa.

Credo che vadano considerate alcune varianti che ci sfuggono, situazioni nuove. Indubbiamente un liceo ha uno spaccato familiare privilegiato rispetto ad altre scuole e la didattica in presenza è insostituibile perché fuori dalle aule cresce il divario sociale. In dad i più piccoli non accendono la videocamera, continuano a sfuggire, ragazzi fragili e in condizioni di svantaggio si perdono. Siccome sono una stalker, uno di loro, introvabile in altro modo, vado a cercarlo su instagram nella disapprovazione di mia figlia a cui chiedo aiuto per usare il mezzo: “Claudia, secondo te mi risponderà? E lei di rimando:” Secondo te? Ma ti pare che rispondono alla professoressa su Instagram?” Infatti aveva ragione lei: non mi ha risposto. Però è venuto all’incontro di poesia e mi ha mandato sue composizioni. Insomma, mi sembra utile osservare tutto e valutare con sguardo sgombro.

Ora che nella scuola l’educazione civica è divenuta oggetto di valutazione, sta a noi riempire di significato non nozionistico questa “disciplina” trasversale, evitando di creare un controsenso. Cosa è educazione civica se non pratica di cittadinanza attiva?

Cosa vuol dire apprendere la Costituzione? Non fare recita arida di articoli scritti con il sangue di chi ha pagato per consegnarcene l’eredità, ma attuare i suoi articoli. Per noi fare cosa viva della Costituzione significa praticare l’articolo 27 che fa dell’educazione dei detenuti riscatto e ricostruzione di sé, che rende lo scambio di conoscenze, attraverso una comunicazione sensibile, il valore più fecondo.

Giovanna Stanganello

I contributi del Liceo Brera al cineforum