Siamo tutti un po’ Karamazov

Ogni giovedì ci sediamo tutti in cerchio nel teatro di Bollate, illuminati dai fasci di luce dei faretti che ti permettono di vedere tutti i volti di tutti i presenti e pronti per incontrare una nuova persona. Ogni settimana, infatti, abbiamo fatto la conoscenza di uno dei quattro fratelli Karamazov, sviscerando, analizzando e interrogandoci sui loro comportamenti, sul loro essere e sul loro animo all’interno del romanzo.

La prima settimana abbiamo parlato di Dimitrij e del suo credito verso il padre, la seconda settimana di Alesa e della sua spiritualità, lui orfano che ha trovato un nuovo padre nella figura dello starec Zosima e di Dio, la terza settimana di Ivan, della libertà e del diritto al rancore e, infine, la quarta settimana di Smerdjakov e dell’omicidio che ha commesso.

Durante gli incontri nella mia testa un’idea si è fatta strada, cioè che forse tutti noi siamo un po’ i fratelli Karamazov: ognuno di noi ha crediti verso qualcuno, alcuni vivono la spiritualità e si affidano a Dio, molti serbano rancore verso altri, alcuni sono impulsivi come Dimitrij, altri riflessivi come Alesa, altri ancora si tormentano come Ivan. Ma poi siamo arrivati a Smerdjakov, colui che ha ucciso il proprio padre. E lì tutto è cambiato.

E allora questa idea diventa una domanda: ma allora siamo tutti un po’ Karamazov? Forse no. Io non ho mai vissuto senza una madre e con un padre assente, niente di tutto quello che hanno passato i fratelli Karamazov ha che fare con me e con il mio vissuto, però con quello di qualcun altro sì. E quindi chi sono i Karamazov oggi?

In questo percorso i quattro fratelli sono stati impersonificati da quattro detenuti: Fabio, Salvatore, Giuseppe e Beqar. Tutti loro hanno raccontato la loro storia, il loro vissuto, che per molti versi è simile a quello dei quattro personaggi del romanzo. Poter dare loro un volto di una persona reale, che esiste, a cui posso sedermi di fianco e con cui posso parlare, mi ha aiutato a poter dare una rilettura del romanzo nella mia realtà e in ciò che mi circonda. Oltre a loro anche altri detenuti hanno raccontato della propria infanzia, di condizioni di disagio, di tossicodipendenza e di rapporti difficili soprattutto con la figura paterna, e quindi forse loro sì possono capire fino in fondo i quattro fratelli.

Con questo non vorrei che passasse il messaggio che solo chi è dentro un carcere possa immedesimarsi in loro, perché sicuramente anche tra i miei colleghi universitari, tra i famigliari delle vittime, tra i pubblici ministeri e gli psicologi ci sono dei Karamazov. Ma allora ritorniamo alla domanda: per me cosa vuol dire essere un Karamazov oggi?

È difficile rispondere, ma mi sono rimaste impresse le parole del dott. Aparo che, parlando riguardo al grado di consapevolezza di chi compie un reato, diceva che, secondo lui, il grado di libertà (e quindi di consapevolezza) aumenta in proporzione all’amore che si è ricevuto. Allora forse per me un Karamazov è qualcuno a cui è mancata una qualche forma di amore e che però comunque ha diritto a vivere una vita, ha diritto a ricercare l’amore negli altri, ha diritto di affidarsi a Dio, ha diritto a essere arrabbiato e a serbare rancore per questo, ma allora in nome di ciò ha anche diritto a commettere reati, ad uccidere? No, e in questo a mio parere ne sono esempi e testimonianze preziose Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro.

Ma allora come biasimare chi agisce come Smerdjakov, chi commette un reato, sapendo quello che ha vissuto? Non lo so, ma proprio questo è l’impegno che mi porto a casa: a scuola e in famiglia mi è stato insegnato come comportarsi, cosa si può fare e cosa no, in questi cinque anni di giurisprudenza ho studiato cos’è un reato, come viene punito, quali sono le conseguenze e le implicazioni, tutta questa conoscenza è essenziale ed importante ma ciò che ho capito è che tutto questo dovrebbe essere accompagnato da una ricerca: una ricerca di chi sono i condannati, del loro vissuto, una ricerca per prevenire, dove è possibile, la commissione dei reati e, se già avvenuti, una ricerca per trovare dei modi di riparare a questi.

Marta Miotto

I Conflitti della famiglia Karamazov

Schiettezza e ambiguità

Alla richiesta di parlare di Smerdjakov subito mi si affaccia alla mente un paragone con Alesa: emblema della schiettezza l’uno, emblema dell’ambiguità l’altro.

Se cerco di spiegare l’ambiguità di S. devo chiamare in causa Ivan. E’ nella relazione con Ivan che l’ambiguità di S. si dipana in tutta la sua potenza nefasta. I tre colloqui con Ivan ne danno conto e ne forniscono la chiave interpretativa. Nel loro primo colloquio, si annida l’incipit della tragedia. E’ un colloquio all’insegna del non detto, dell’allusione a “una complicità convenuta e segreta”, implicita e dunque foriera di implicazioni ingovernabili, non chiara, mai espressa compiutamente.

Ma come ci si arriva?

Ivan sta male. Un’inquietudine sottile lo pervade, un’irrequietezza senza ragione, che gradualmente si trasforma in angoscia e poi in nausea. Improvvisamente Ivan è in grado di collegare tale nausea a “un elemento casuale, esterno”: Smerdjakov e la repulsione che prova nei suoi confronti. Non era così all’inizio. All’inizio lo aveva trovato originale, intelligente, curioso. Poi man mano aveva visto crescere in lui “un amor proprio senza limiti e permaloso”. Poi di fronte ai contrasti domestici gli era stato impossibile capire che cosa S. pensasse davvero sulle questioni. Poi il suo modo di parlare e di condurre la conversazione: domande tortuose che improvvisamente cessavano, silenzi improvvisi, subitanei cambi di argomento. Poi quella “speciale e irritante familiarità” con cui S. gli si rivolgeva che non presupponeva mancanza di cortesia o di rispetto ma che alludeva a una forma di “complicità convenuta e segreta”. Complicità implicita, come ben si capirà nell’ultimo colloquio, subito prima che S. si impicchi, e foriera di tragedia perché il non detto, basato sul presupposto che i pensieri e i sentimenti fossero chiari anche se non verbalizzati, porterà alla sciagura.

S. è un maestro della comunicazione ambigua. Con ciò che dice o non dice o dice allusivamente tesse una ragnatela mortale. Nel secondo colloquio e poi in quello finale riesce a controllare tutto ciò che dice. Nel rispondere a un Ivan, che in qualche modo intuisce la sua trappola, passa dall’adulazione (“per l’amicizia che ho verso di voi e per la sincera devozione…”), alla ribellione (“come potevo parlare più chiaro? Vi sareste arrabbiato”) all’allusione (“potevate indovinarlo”) (“potevate intuirlo”). Ma è soprattutto nella ripresa della frase pronunciata nel primo colloquio e che così tanto aveva dato da pensare a Ivan (con un uomo intelligente è sempre interessante parlare) che comprendiamo la potenza della ragnatela tessuta da S., di cui lui stesso finisce vittima, perché lui stesso non aveva compreso che Ivan ignorava l’effettivo andamento dei fatti.

Sicuramente S. è il figlio che vanta il credito maggiore dal padre: illegittimo, non riconosciuto, epilettico, mantenuto ma non amato, costretto nella posizione di servo, di sottomesso. Intelligente, usa la cultura e gli argomenti di Ivan per volgerli ai suoi scopi poco onorevoli. Se non si fosse incontrato con lui forse non sarebbe riuscito a dispiegare tutta la sua potenza distruttrice. Presuntuoso e ribelle “Ben altro che questo avrei potuto far io, sapere io”. Suona la chitarra e canta. Disprezza la madre, i russi, l’esercito. Avrebbe voluto che Napoleone riuscisse a conquistare la Russia, così questa si sarebbe potuta incamminare sulla strada del progresso.

Tornando al paragone con Alesa credo sarebbe interessante (anche se magari non è la sede adatta) approfondire la questione dell’indole, dei comportamenti innati. La schiettezza di Alesa è innata. E’ una schiettezza discreta, ma se sollecitata, non esita a esprimersi in modo chiaro fino alla crudezza. Ma la schiettezza di per sé non è un disvalore, anzi è spesso una virtù.  Il caso di S. è più complicato. L’ambiguità può essere innata? Nel caso di S. io direi che è stata anche coltivata con sapienza. Come muoversi nei confronti di pulsioni, emozioni, sentimenti, comportamenti che appartengono a una certa indole?

Trovo anche interessante che per avvicinarmi alla comprensione di S. io sia passata attraverso altri due personaggi.

I Conflitti della famiglia Karamazov

Smerdjakov, l’ombra

Disprezzato da tutti e isolato, Smerdjakov, viceversa, ha differenti legami e conosce a sufficienza le persone che lo circondano.
Smerdjakov mi fa una certa simpatia.
Non perché ha ammazzato il padre o perché da piccolo impiccava gatti crudelmente. Questo meriterebbe una riflessione a parte.
No, lo immagino, come in un teatro, dietro le quinte, che conosce a menadito, diciamo così, le parti dei vari attori in scena.

Del padre, Fedor, che pure lo disprezza e lo umilia in continuazione, conosce praticamente tutto: la sua lascivia e voracità e le sue inclinazioni nascoste. Smerdjakov è l’unico a cui è permesso di entrare nella sua stanza. Fedor chiede addirittura la sua complicità su come avvertirlo segretamente quando la desiderata Grusenka si fosse fatta viva, cosa che aspetta con ansia e passione.

Con Alioscia, il seminarista devoto e guidato dal santo starec, Smerdjakov usa l’arma dell’ironia e del sarcasmo.
Il dissoluto, irascibile e passionale Dimitri, invece, gli fa paura e lo tiene a bada.
Solo Ivan ha la sua ammirazione: ha belle idee, le espone in modo razionalmente appropriato e lo ascolta incantato e questo basta a renderglielo accettabile, anche quando ne riceve maltrattamenti aggressivi.

Insomma, Smerdjakov conosce bene…i suoi polli, ma ne riceve oltraggio e rifiuto. Anzi, direi proprio che egli possa plasticamente rappresentare il rifiuto, il negativo, in fin dei conti l’ombra.
L’ombra.

Ora, non c’è dubbio, tutti, più o meno consapevolmente, hanno quel lato umbratile che non vorrebbero, che rimuovono bellamente o che proiettano sugli altri, ma di cui non è possibile liberarsi impunemente.
A meno che, con faticoso lavoro, non ci si abbassi a fare i conti con lei e non se ne veda la reale e inevitabile portata.
Non ci resta, allora, che guardare a Smerdjakov-ombra con occhi diversi e venirne a patti. Sperabilmente, per una maggiore propria completezza.

Piero Invidia

I Conflitti della famiglia Karamazov

Conversando con i fratelli Karamazov

Giovedì 7 marzo avremo nel carcere di Bollate l’ultimo dei 5 incontri sul Romanzo di Dostoevskij. Stanno partecipando all’iniziativa ex criminali, studenti, persone ferite dalla criminalità organizzata, avvocati, magistrati e un sacerdote

Nella giornata conclusiva di domani, Francesco Cajani e io porremo a noi stessi e a tutte le persone che hanno contribuito all’iniziativa le seguenti domande:

  • Quali erano gli obiettivi dell’iniziativa?
  • Cosa abbiamo messo in tasca in queste 5 giornate?
  • Che uso personale possiamo farne?
  • Se si ritiene che ne valga la pena, in quali ambiti e con quali modalità rilanciare il lavoro su I Fratelli Karamazov

Nel cammino della scienza, è buona norma dichiarare con quali domande si va dentro un laboratorio ed è ancora più importante rendere pubblici i risultati e le risposte che, a seguito della ricerca, si pensa di avere ottenuto.

Credo che lo studio della devianza e gli interventi per prevenirla e curarla debbano essere trattati come una scienza. Se considero la portata dei danni economici e affettivi che la criminalità causa nella nostra società, trovo più che ragionevole assumere nei confronti della materia l’atteggiamento che qualsiasi ricercatore ha nei confronti di ciò di cui si occupa: Materiali, Variabili, Procedure di una ricerca devono essere resi pubblici per permettere a chi non c’era di verificare, criticare, ottimizzare, proporre alternative; in sintesi, contribuire alla evoluzione della conoscenza del problema e dei mezzi per trattarlo.

Pertanto, cari studenti di giurisprudenza e psicologia, cari componenti del gruppo della trasgressione e cari tutti, a conclusione della nostra visita ai Fratelli Karamazov, ai loro diversi modi di riscuotere ciascuno il proprio credito e alle tante domande che i loro conflitti ci hanno suggerito, visto che siamo entrati tutti nel laboratorio, per favore, facciamo ciascuno il resoconto della nostra esperienza, come si addice alle persone che frequentano i laboratori.

I Conflitti della famiglia KaramazovDettagli del Programma

Sentirsi in credito

Il primo giovedì di febbraio 2024, tra le 14:30 e le 17:30, fra le mura della Casa di reclusione di Bollate, durante il primo incontro del progetto “Essere oggi Ivan, Aleksej, Dmitrij e Smerdjakov. I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate”, sotto lo sguardo artistico di Andrea Spinelli (primo illustratore giudiziario italiano), muovendo dalla descrizione di Dmitrij Fёdorovic e del suo rapporto col padre, alcuni detenuti, Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro (famigliari di vittime inno- centi della criminalità organizzata, rispettivamente, madre di Marcella di Levrano e fratello di Emanuela Setti Carraro), una sessantina di miei colleghi studenti universitari, altri membri della società civile ed io, guidati da Angelo Aparo (psicoterapeuta, fondatore del Gruppo della Trasgressione) e Francesco Cajani (Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano), abbiamo dato vita ad una discussione sul “sentirsi in credito”.

Le ore trascorse all’interno dell’istituto penitenziario sono state “animate” prevalentemente dalle narrazioni dei detenuti Fabio, Salvatore, Giuseppe e Stefano, che hanno condiviso col resto del gruppo verso chi e per quale motivo si sono “sentiti in credito” nel corso delle loro vite.

Il primo a prendere la parola è stato Fabio, che ha affermato di “essersi sentito in credito” verso la sua famiglia, in particolare verso il padre. Infatti, a partire da quando aveva all’incirca quattro anni, Fabio iniziò a sentirsi «accantonato» dai suoi genitori, poiché questi, dopo aver scoperto che il loro secondo figlio era affetto da Talassemia, iniziarono a riservare sempre meno attenzioni nei confronti di Fabio; dunque, questi iniziò a ricercare altrove qualcuno che fosse in grado di dargli il riconoscimento che pretendeva. Quel qualcuno Fabio lo ritrovò nel suo gruppo di amici, che, purtroppo, era formato da persone poco raccomandabili. Questo, unito al fatto che era «casinista dalla nascita», che voleva «fare un dispetto» al padre e desiderava affermarsi nell’ambito della sua nuova “famiglia”, composta da «idoli, perché rispettati e potenti», portò Fabio a commettere i primi crimini.

Successivamente è stato il turno di Salvatore, che, in breve, ha detto di aver iniziato a “sentirsi in credito” verso il padre dopo che quest’ultimo aveva deciso di abbandonare la famiglia, nonché di aver inflitto alle sue vittime il dolore che avrebbe voluto far patire al padre. Giuseppe, a sua volta, ha sostenuto di “essersi sentito in credito” per via della sua infanzia difficile, durante la quale la sua “famiglia naturale”, non in grado di soddisfare i suoi bisogni e desideri materiali, è stata surrogata da quella composta dai suoi amici criminali; il che lo ha portato a delinquere per prendersi ciò che non ha potuto avere da bambino.

Infine, Stefano, dubbioso tra “essersi sentito in credito” ed “essersi sentito in debito” nei confronti della vita, fra le altre cose, ha raccontato che il padre, gran lavoratore ma pessimo genitore in quanto assente e violento, gli mise la prima pistola in mano.

Dalle parole dei detenuti sembra emergere che, tra le possibili cause che hanno indotto gli stessi a perpetrare condotte criminose, vi siano la legittimazione derivante dal “sentirsi in credito” (in termini di assistenza sia morale che materiale) nei confronti dei propri genitori e la frequentazione di ambienti devianti.

Ora, come si può evitare che un soggetto arrivi a “sentirsi in credito”? Qualora non si raggiunga questo prima obiettivo, quali correttivi posson essere messi in campo?

Un ruolo fondamentale in dette questioni dovrebbe essere giocato dalle istituzioni, in particolare, da scuola e carcere, e, quindi, rispettivamente, da educazione e rieducazione, che, ahimè, non risultano essere temi di particolare tendenza. La stessa Costituzione, rispettivamente, al secondo comma dell’articolo 31 e al secondo comma dell’articolo 27, afferma che «[la Repubblica] protegge […] la gioventù» e «le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato». Quindi, lo Stato dovrebbe guidare ogni consociato, libero o condannato in via definitiva, in quello che Angelo Aparo, durante l’esperienza “Essere Raskol’nikov oggi. Delitto e castigo al carcere di Opera”, ha definito “viaggio alla ricerca della coscienza”, offrendo sempre delle valide alternative alla devianza. In particolare, gli istituti scolastici e penitenziari, ossia i luoghi dove, rispettivamente, giovani e detenuti trascorrono gran parte del loro tempo, dovrebbero, per mezzo di collaboratori credibili e realtà come il Gruppo della Trasgressione, ricordare quotidianamente ai menzionati soggetti che la strada della criminalità, oltre ad essere un vicolo cieco, non è la sola percorribile.

Inoltre, è vero che (il richiamo va al primo comma dell’articolo 27 della Costituzione, il quale afferma che «la responsabilità penale è personale» e alle finalità della sanzione penale) la commissione di un reato deve far sorgere in capo a colui che lo commette l’obbligo, corrispondente al c.d. “debito con la giustizia”, di ripagare il torto subito dalla collettività, dalla persona offesa e dai famigliari di quest’ultima (senza dimenticare che anche le famiglie dei condannati possono patire sofferenze non indifferenti); ma è altrettanto vero che, in virtù di quanto sin qui detto, si possa concludere che la società, in quanto largamente disinteressata all’educazione e, soprattutto, alla rieducazione (elemento che mette in luce come il nostro paese sembri sostanzialmente ignorare il fatto che, ad un certo punto, i detenuti smettono di essere tali), oltreché verso quest’ultimi, è sicuramente debitrice verso sé stessa.

Credo che ognuno di noi dovrebbe pretendere qualcosa di meglio rispetto ad uno stato che, per dirlo con le parole di Fabrizio de André, «si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità».

G. R.

I Conflitti della famiglia Karamazov

Smerdjakov – week 4

Con quell’appellativo – asina di Balaam – egli si riferiva al lacchè Smerdjakov. Questi era un giovanotto sui ventiquattro anni, non di più, straordinariamente misantropo e taciturno. Non che fosse timido o si vergognasse di qualcosa; no, al contrario, era altero di carattere e sembrava che disprezzasse tutti. Ma ecco che, arrivati a questo punto non possiamo fare a meno di dire anche solo due paroline sul suo conto. Era stato allevato da Marfa Ignat’evna e Grigorij Vasil’evič, eppure il ragazzo era cresciuto “senza la minima riconoscenza” come diceva di lui Grigorij, era selvatico e guardava il mondo in tralice. Da piccolo gli piaceva moltissimo impiccare i gatti, per poi seppellirli con tanto di cerimonia funebre. In quelle occasioni indossava un lenzuolo, che fungeva da pianeta, cantava e agitava qualcosa sul cadavere del gatto come fosse un turibolo. Faceva questo zitto zitto, con la massima segretezza. Grigorij lo pizzicò una volta mentre era intento a questa pratica e lo picchiò di santa ragione con la verga. Il ragazzo si rintanò in un angolo e tenne il broncio per una settimana. “Questo qui, a me e a te, non ci vuole bene, questo mostro”, diceva Grigorij a Marfa Ignat’evna, “e non vuole bene a nessuno”. “Tu non sei un essere umano”, diceva a Smerdjakov dritto in faccia, “non sei un essere umano, tu sei venuto fuori dal fradicio di un bagno, ecco che cosa sei tu…”.
✏️ Fëdor Dostoevskij, gennaio 1879 - novembre 1880

🎨 Luca Lischetti, gennaio 2024


["Quali sono le dinamiche che alimentano le fantasie di uccidere un padre?" I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate - week 4]

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