Pasquale Trubia
Comincio proprio con questa affermazione, non è mai troppo tardi per riappropriarsi della propria vita, della propria dignità di padre, di marito. Non è mai troppo tardi per quella mia rivoluzione umana che mi consente di godere della mia vera identità. Non è mai troppo tardi per sfatare quel luogo comune che vuole che il figlio necessariamente debba emulare il padre.
Questa giornata avrei voluto viverla con la presenza anche di mio figlio, per sentire insieme con lui parte di quelle emozioni che purtroppo, a causa di una mia condotta morale votata al male e al delirio d’onnipotenza, sono mancate per troppo tempo. La mia esistenza, fin da quando ero poco più che un ragazzo, è stata costellata di violenza e turbamenti, provocando dolore immane a tante persone e a tutta la mia famiglia e, in particolare, al mio unico figlio, privandolo fin dalla nascita di suo padre.
Conoscendo l’ambiente dove sono nato, ho cercato in tutti i modi di farlo allontanare da quel contesto che inquina le menti e distrugge i sogni dei giovani, rendendoli prigionieri dell’ignoranza. Ho cercato in tutti i modi (compatibilmente alle condizioni economiche familiari) di farlo allontanare da Gela il mio giovane e unico figlio, ma nonostante gli innumerevoli sforzi attraverso le lettere, considerata la lontananza delle varie carceri dove mi trovavo recluso, non sono riuscito ad esercitare minimamente la funzione paterna, e ora si trova poco più che ventenne in carcere.
Ricordo che mancavano pochi mesi affinché conseguisse la qualifica di metalmeccanico, quando lo convinsi di trasferirsi nella città di Parma. In quel periodo mi trovavo recluso nel carcere di Parma. Avevo conosciuto un volontario che si era adoperato per inserirlo come apprendista (ancora diciassettenne) in un’azienda. Alloggiava in una residenza gestita dalle suore salesiane. Ha lavorato lì per circa un anno, poi purtroppo la crisi economica che attraversa tutto il paese da diversi anni ha compromesso anche la sua assunzione a tempo indeterminato. Sicché, non potendo far fronte alle spese per l’alloggio e il vitto (se pur economico) è stato costretto a rientrare a Gela.
Come un segno di un destino avverso, mi ritrovo mio figlio in carcere, accusato di associazione mafiosa perché prestava la sua macchina allo zio (sorvegliato speciale) o perché lo accompagnava in qualche posto, essendo lo zio privo della patente di guida. Nonostante io abbia ormai la consapevolezza che si perde la libertà a causa delle proprie debolezze, non posso fare a meno di pensare che le sue responsabilità non sono tali da giustificare l’estrema ratio della custodia cautelare per un giovane ventenne, catapultandolo nel mare più profondo, in balia delle seduzioni e delle tentazioni. Forse era sufficiente un ammonimento o forse ancora un procedimento a piede libero.
Il mio rammarico più grande è quello di non essere stato nelle condizioni di trasmettere a mio figlio questa mia sorta di “rinascita”, questa sorta di rivoluzione che sto vivendo nell’acquisire valori morali nuovi, finora del tutto sconosciuti, che mi consentono di vivere il presente aspirando al domani per me, mio figlio e mia moglie, nonostante il mio fine pena mai.
Mi dispiace che oggi non ci sia anche lui ad ascoltare suo padre, a vederlo nella sua vera identità, e non per quella che, scelleratamente, si era costruito fin da giovanissimo, per arrivare poi al nulla. Concludo ringraziando tutti e, se oggi sono qui con voi tutti del Gruppo della Trasgressione, qualcosa mi dice che non è mai troppo tardi.