Fëdor Michajlovič Dostoevskij

Ti ho cercato subito, giovedì appena uscito dal carcere di Bollate alle sei del pomeriggio.

Avevo qualcosa di nuovo da chiederti.

[continua qui]

I Conflitti della famiglia Karamazov

Materiali per I fratelli Karamazov

Abbiamo trovato 63 studenti/esse (di giurisprudenza, psicologia ed altre facoltà) per dare forma – dentro le mura del carcere di Bollate – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, dialogando insieme a chi ne ha già commessi parecchi e chi ne ha subiti alcuni.

Dopo la nostra lettera di invito, sono giunte ben 81 candidature anche grazie ad un articolo di Luigi Ferrarella pubblicato sul Corriere della Sera.

Siamo, allo stesso tempo, ugualmente soddisfatti per avere ricevuto il dono di alcune copie de I fratelli Karamazov necessarie al progetto e destinate alle persone detenute.

Giovedì 1 febbraio abbiamo iniziato …. ecco i materiali per seguire la nostra ricerca anche fuori dal carcere:

I ritratti dei quattro fratelli Karamazov sono stati realizzati, appositamente per questa nostra ricerca, da Luca Lischetti.

Grazie anche ad Andrea Spinelli, illustratore giudiziario in Tribunale e visual soul painter per i nostri progetti in carcere, per aver accettato di aiutarci nella realizzazione della serata di restituzione pubblica del 9 marzo.

Qui la intervista a RAI Radio2 Caterpillar (puntata del 25.2.2024 – grazie a Sara Zambotti, Massimo Cirri e a tutta la redazione):

Chi sono io? Esercizio di Martina Intano

 

Let it be, Karamazov! (by cescofrancobolli)

La serata di restituzione pubblica del 9 marzo 2024, al teatro del carcere di Bollate, è stata interamente ripresa da Radio Radicale ed è visibile qui

A coronamento del progetto di ricerca, RAI Radio2 Caterpillar vi ha dedicato l’intera puntata del 19 marzo 2024 con una diretta nazionale “un po’ dentro, un po’ fuori” visibile, anche in visual radio, qui

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Caro figlio mio

Caro figlio mio, o figlio mio caro: spesso noi due scherziamo – ripassando la grammatica anche in questo faticoso inizio di prima media – su come il mio professore di italiano al liceo diceva che la diversa posizione di una virgola nella stessa frase può cambiarne radicalmente il senso.

Ma anche la diversa disposizione delle parole conta…. e così nel “figlio mio caro” l’accento non cade più sull’amore ma sui costi della faticosa sopportazione da parte del genitore, in questa tua preadolescenza sempre più inquieta.

Capita spesso che fin da bambino qualsiasi esperienza ci venga proposta sempre suddivisa in due categorie: bianco o nero, buono o cattivo. E forse per questo cresciamo nel dissidio interiore di dover dare ascolto solamente ad una voce: e, preferibilmente nelle intenzioni di mamma e papà, quella dell’angioletto piuttosto che quella del diavoletto.

Se mi volto a guardare indietro, il ricordo ancora nitido è quello di me diciassettenne nell’anno di Noviziato con gli scout di Sesto San Giovanni: oggi sempre di più posso dire che è stato proprio quello il tempo in cui ho imparato a mettere ordine dentro me stesso. Fino a quel momento mi guardavo intorno e, forse per superare la banalità della gran parte delle cose che mi circondavano, avevo iniziato a trascrivere a mano su dei quaderni rossi i testi delle canzoni (soprattutto quelle in lingua inglese) che più mi facevano sentire vivo. Perché, al di là dello scoutismo e dei legami forti generatisi all’interno dell’ambiente scolastico nel quale i miei genitori mi avevano sapientemente inserito, per me “era sempre difficile rimettersi in marcia e, ogni volta che ritornavo a casa, era tutto e solamente un aspettare la successiva uscita. La città da una parte, così indecifrabile e indigeribile;  il bosco dall’altra, così desiderabile e terapeutico”.

E così arrivai alla fine della route di quella mitica estate 1988 e i miei compagni di Noviziato mi affidarono in dono, come totem e pertanto segno caratteristico del mio essere, quello di Tigre Gioiosa. Dove, al di là della tigre che ancora oggi connota il mio carattere spigoloso, l’aggettivo gioiosa mi fu assegnato in termini “migliorativi”, come cioè un invito a collocarmi di più verso sfumature di colori sentimentalmente più caldi.

Già, le sfumature. Perché con il tempo mi arrivò in premio un’altra folgorazione, dopo il senso di quell’anno straordinario del Noviziato e dopo tutte quelle parole vitali delle quali mi nutrivo ricopiandole su quei quaderni rossi, come fossero un breviario laico per l’anima.

Fu ad un campo scout di “formazione capi” quando, durante una sessione serale e nel fiume in piena dei miei 22 anni, sentii pronunciare dagli educatori che avevano cura di noi l’elogio dell’equilibrista: colui che per rimanere in piedi sul filo, e non cadere nel baratro o nel vuoto che sia, deve continuamente sbilanciarsi da una parte e dall’altra. In quell’immagine, così semplice ma per me straordinariamente efficace, trovai la soluzione a tutti i miei residui mali. 

E iniziai a non tormentarmi più nella vana ricerca di un equilibrio stabile, perché solamente una sana instabilità poteva farmi andare avanti, un passo alla volta. Perché in ogni singolo passo c’è inevitabilmente il segno plastico di tutto questo: sbilanciarsi in avanti per non rimanere fermi.

Capirai allora perché quando, all’inizio del nostro cammino all’interno del Reparto La Chiamata, ho sentito il nostro comune amico Juri parlare dell’altalena, ho avvertito il cuore nuovamente battere forte come in quella sera di 30 anni fa. E ho realizzato che in questo ultimo viaggio nel sottosuolo del carcere di San Vittore sei sempre stato tu il protagonista dei miei pensieri. E proprio per questo ho deciso di vedere quali pagine dei miei quaderni rossi, giovedì dopo giovedì, tale nuova esperienza di comunità educante sarebbe riuscita a fare riemergere dopo tutti questi anni.

Perché la musica, ormai e per fortuna, fa parte anche della tua giovane vita. Non potrò mai dimenticare uno dei miei primi timidi approcci con te sul tema… quella sera quando, sdraiati sul lettone di casa e dopo averti fatto ascoltare l’assolo di Gilmour a Pompei, mi avevi confidato: “Non male papà, ma lo sai che anche Rovazzi sa suonare la chitarra?”.

Sicuramente l’Hotel California nel quale un tempo cercavo rifugio, trasportato dalle note della mia chitarra bianca, può avere lo stesso significato della Swishland del cantante che oggi preferisci: un luogo di evasione.

Ma io ti auguro di trovare qualcuno che sappia poi dare voce al tuo dáimōn, affinché quella naturale ed innata voglia di evadere non ti porti all’autodistruzione ma sia capace di farti realizzare il disegno che la vita ha in serbo per te. Non sarò geloso nei suoi confronti, ma infinitamente grato: del resto il nonno e la nonna, che tu ben conosci, hanno avuto la capacità di coltivare il terreno, prepararmi la strada indicandomi una direzione di senso (nonostante la naturale timidezza del primo e qualche milligrammo di ansia – ugualmente naturale – della seconda) con l’esempio e senza tanti giri di parole. Ma sono stati poi altri, diversi dai mei genitori, a raccoglierne il testimone e a fare con me e su di me “il lavoro sporco”: una maestra elementare e a seguire una manciata di altri bravi insegnanti, un prete e una suora, alcuni capi scout, un amico di famiglia.

Quando, ancora oggi, devo affrontare qualche momento di difficoltà e sconforto, mi fermo ad ascoltare le loro voci che ancora tutte risuonano dentro di me. O rileggo le parole messe in poesia che mio papà ha pubblicato prendendo spunto dalle lettere che ci scambiavamo quando ancora non sapevamo come parlare alle nostre reciproche anime. O ripenso a qualche bigliettino che, ancora oggi, mia mamma non si stanca di lasciarmi infilato in qualche sacchetto.

Perché anche tu scoprirai, con il tempo, che essere te stesso non significa tanto ritrovare dentro di te il tuo vero io quanto sapere fare sintesi della molteplicità di voci che necessariamente abitano in te. E, come un direttore di orchestra, saper far suonare insieme tutti gli strumenti. Certo, avendo il coraggio di ascoltarli tutti, nessuno escluso, e di accordarli nel modo migliore affinché il suono così generato sia quello più utile e proficuo per l’occasione richiesta.

Confesso anche che credevo, nel mio strampalato senso giovanile di onnipotenza, di poter trarre da tutte le parole che con cura trascrivevo su quei quaderni non solo nutrimento interiore ma anche ispirazione per una canzone che avrei voluto scrivere io, e che sarebbe per ciò solo passata alla storia. Da anni sorrido di tutto questo anche perché ormai mi è chiaro che, se rinasco, non voglio più essere un cantautore ma un sentimental dj, sempre pronto a trovare – in ogni occasione della vita – quel disco capace di far star meglio una persona attraverso l’invito a curarsi, facendo risuonare dentro di sé parole di altri. E, proprio grazie a quella cura, saper ritrovare le proprie parole e riuscire finalmente a pronunciarle, come atto creatore capace di dare il vero nome alle cose.

Ma, a pensarci bene, è questo anche l’impegno che voglio prendere oggi – in questa festa del papà cosi particolare e quantomai sentita – con te e con tutti i giovani adulti del Reparto la Chiamata.

Per amore del mio popolo non tacerò”, e per aver invitato altri a non tacere più qualcuno ha anche perso la vita: il suo nome è don Peppe Diana, ucciso un 19 marzo di tanti anni fa (era il 1994) nella sua Chiesa, a soli 36 anni e nel giorno del suo onomastico, da un killer del clan dei casalesi. E ancora oggi sono molti a rimpiangerlo, perché in lui erano riusciti a trovare un padre.  Ma, come era solito dire ai suoi parrocchiani, “non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di aver paura, il coraggio di fare delle scelte”.

Caro figlio mio, “la vita è un bivio”: così ci ha ricordato – in maniera tanto semplice quanto efficace – Mattia durante uno dei nostri primi incontri a San Vittore. Quando anche tu ti sentirai prigioniero, ricordati quel pezzo di via Francigena che abbiamo voluto fare insieme – io e te soli – la scorsa estate: dopo 9 ore di cammino e portando anche il tuo zaino di fronte all’ultima fatica, imprecavo al cielo come un pazzo invitando il Sindaco di Monteriggioni a costruire un tapis roulant al posto di quella impervia salita che conduce all’ingresso delle mura medioevali.

 

Non abbiamo mai riso così tanto, perché anche tu sapevi che stavo scherzando: lo scoutismo infatti ci insegna che la strada più larga ed in piano difficilmente è quella che porta più lontano.

A differenza di Mattia e di tanti altri giovani adulti che non riescono più a trovare la via di casa, le scelte della tua vita tu le hai ancora tutte davanti. Buona strada allora: insieme a tua mamma e a tua sorella, sai che facciamo il tifo per te.

E io faccio il tifo anche per i giovani adulti del Reparto la Chiamata, perché ti auguro anche di scoprire sulla tua pelle che quando poi diventi padre le persone a cui vuoi bene le guardi e le ascolti come se fossero tutti figli tuoi.

Casa circondariale di Milano San Vittore, 12 gennaio 2023 – 16/19 marzo 2023

Reparto LA CHIAMATA        Genitori e figli

Il timone della mia adolescenza

Ricordo ancora il numero telefonico di casa dei miei nonni paterni, dove sono nato e dove ho trascorso infanzia e adolescenza. Tutti i giorni, in orari che mi dettavano i miei stati d’animo, aspettavo che squillasse il telefono (la chiamata di mio padre). Attese deluse, accompagnate sistematicamente dalle stesse mazzate.

Riuscivo a sentire la voce di mio padre grazie ai rimproveri di mia nonna che, almeno una volta a settimana, lo chiamava per ricordargli della mia esistenza e della sua irresponsabile assenza.

La solitudine che paralizzava le mie curiosità e la necessità di sentirmi accudito, cercavo di colmarle con i sorrisi e qualche carezza delle persone anziane del vicinato. Ma più tempo passava e più l’infame necessità di quel riconoscimento prendeva possesso del mio timone.

Iniziai così a farmi “guidare”, come una prostituta accetta la seduzione più proficua, dal miglior offerente: “Robertino, ma tu sei molto intelligente“, ”Aiutami a scaricare queste casse di sigarette che poi ti do 2 mila lire”, ”Bravo Roberto! Stai diventando un vero uomo e più tardi ti porto con me a vedere le corse clandestine dei cavalli “…

E così, pian piano, iniziarono per me le prime chiamate, fin quando arrivò, dopo tanti ”trofei ” conquistati, la vera, illusoria e definitiva chiamata di Lucifero.

Da quel giorno, pur tra improvvisi turbamenti e il delirio che li imbavagliava subito dopo, cominciai a sentirmi protagonista e compartecipe di un progetto chiamato distruzione e che oggi identifico con il mio fallimento.

La complessità del male aveva spianato la strada alla sua indegna banalità, fino a farmi abortire il dolore per la mancanza dell’unica, vera chiamata che, se ci fosse stata, mi avrebbe probabilmente impedito di consegnare il timone della mia adolescenza e della mia responsabilità al primo e più astuto offerente.

Lo 095/317006 non squillò mai e, quando lo fece, purtroppo per lui e me, si interruppe per sempre la linea.

Roberto Cannavò

Percorsi della DevianzaLa Chiamata

Il padre

I Greci antichi avevano capito molte cose. Tra le loro opere l’Odissea può ancora oggi trasmetterci messaggi preziosi che, tra l’altro, aiutano anche a chiarire alcuni concetti su cui anche noi del Gruppo stiamo riflettendo, accettando alcune interpretazioni o dubitandone.

Nell’isola di Itaca spadroneggiano i Proci, figure proterve che circondano con la loro tracotanza Penelope, regina dell’isola, rimasta sola a governare perché il marito Ulisse è partito per la guerra e, dopo anni, ancora non fa ritorno. La insidiano, si sono installati nella reggia dove passano il tempo tra gozzoviglie e alterchi. Insidiano la sua virtù di donna chiedendola in moglie e pretendendo che lei scelga uno di loro e insidiano nel contempo il suo potere, perché bramano il regno.

Penelope si difende come può, procrastinando la scelta fino al momento in cui avrà finito la tela che la vede impegnata ogni giorno. Ogni giorno diligentemente tesse e la tela si allunga ma poi la notte con altrettanta diligenza la disfa, accorciandola.

Telemaco, il principe figlio di Ulisse e Penelope, cresciuto senza padre e divenuto adolescente non sopporta più la situazione. È arrabbiato col padre perché è cresciuto senza di lui, gli sono mancati attenzione, affetto, insegnamenti, sicurezza che la presenza di un padre dovrebbe garantire. È arrabbiato, poco gli importa che suo padre sia un guerriero valoroso, un eroe di cui la società ha bisogno.

È molto arrabbiato ma capisce che senza il padre la situazione sua, familiare, dell’isola, sarebbe precipitata fino a un punto di non ritorno. E allora prende la sua prima decisione da uomo: va a cercarlo. Arma una nave, si procura l’equipaggio e lui, giovane che non si è mai allontanato da casa, inesperto di mare e digiuno di arte della navigazione, va a cercare il padre.

Reparto LA CHIAMATAGenitori e Figli

Nuccia Pessina

“Non devi trattenere il dolore per trattenere la memoria”

“You don’t have to hold onto the pain to hold onto the memory”
[Janet Jackson, Memory]

 

Il cammino con Marcella e Marisa, passato nel 2016 attraverso l’incontro con il Gruppo della Trasgressione al carcere di Opera, ci porterà il 21 Novembre 2022 a Pavia (ore 18, Collegio Santa Caterina da Siena).

Ci vediamo là! [qui la locandina completa]

Mia madre, un’imbrogliona

Penso ingannasse anche mia sorella. Con me ha cominciato a farlo che ero ancora piccolissimo. Non mi piacevano le uova o mi sembrava non mi piacessero. Lei ogni mattina metteva un tuorlo d’uovo nel latte, miscelava il tutto per bene e me lo dava da bere. Di fronte alle mie perplessità sul nuovo colore del latte, mi diceva che, apposta per me, il lattaio aveva portato il latte della vacca giovane. A quel punto io riconoscevo che era proprio buono e mi sentivo un privilegiato.

Ma l’inganno più perfido e praticato per anni è partito quando, all’età di otto anni e arrabbiatissimo, volevo picchiare mia sorella Lina, che all’epoca ne aveva due. In quella occasione, mia madre, senza scomporsi, mi ha detto che avrei potuto farlo, ma che avrei dovuto aspettare che Lina avesse almeno una decina d’anni. E tutte le volte che io chiedevo se potevo picchiarla lei rispondeva “aspetta, a piccirida è ancora truoppu nica”.

E così siamo andati avanti fino a che io mi sono trovato a guardare “a piccirida” come facevano lei, mio padre, i nonni e le zie e, a quel punto, ho perso per sempre la possibilità di picchiarla.

Tra l’altro, sarebbe anche difficile, visto chi la difenderebbe.

Genitori e figli

La morte di mia madre

Sono stato preparato a questo evento dalla lunga vita di mia madre e dagli ultimi suoi anni di progressiva perdita di autonomia.

Questa mattina ho visto un piccolo rattoppo sul pigiama e, inevitabilmente, mi sono ricordato delle numerose volte in cui le portavamo abiti da rammendare o da aggiustare, un po’ per darle da lavorare, un po’ per sentire addosso gli effetti del suo intervento.

Lei era decisamente brava a cucire e a riparare strappi che avresti detto insanabili. Ma negli ultimi due anni la capacità di cucinare, rammendare, stirare si era ridotta di molto, mentre cresceva la frustrazione di non potere svolgere le azioni che erano la sua identità.

Ma mia madre ha vissuto e ha seminato dentro di me e di mia sorella quello che noi oggi siamo, il modo in cui ci sentiamo l’un l’altro e che uso fare dell’ago e del filo. Gli occhiali con cui guardiamo il mondo sono stati forgiati quando non eravamo noi a decidere cosa e come guardare e toccare.

E in quell’officina lavoravano mia madre, mio padre, i miei nonni, le mie zie. Adesso sono tutti morti; ci rimangono gli occhiali che nel frattempo sono diventati i nostri occhi.

Genitori e figli

Marte – Andata e ritorno

L’incontro di oggi, 30 Marzo 2022, presso il Liceo Artistico Statale “di Brera” è stato davvero molto emozionante e diverso rispetto ai precedenti incontri con gli studenti, ai quali avevo partecipato i mesi scorsi.

Il viaggio di andata
Il “discorso di presentazione”, chiamiamolo così, del Prof Aparo mi ha piacevolmente stimolato e stupito. Ha usato una metafora semplice ed efficace: il percorso di un detenuto può essere paragonato un po’ ad un viaggio nello spazio, che comincia sulla Terra ma ha come destinazione il pianeta rosso, Marte. Durante questo viaggio avviene un cambiamento, ossia il singolo inizia ad allontanarsi sempre di più, a causa delle sue scelte/azioni, dalla collettività, fino a diventare irriconoscibile agli occhi dei suoi simili, quasi come un extra-terrestre.

In buona sostanza, una persona nasce e cresce in un certo contesto, dove si presentano, ogni volta in percentuali diverse, opportunità per fare le proprie scelte. Qualcuno, a causa di tutta una serie di condizioni e vissuti, intraprende la strada verso la criminalità. Da lì, inizia il vero e proprio distacco: da adolescente insicuro, incerto, senza una propria identità si passa ad un adulto la cui identità si plasma nell’inseguimento di illusioni e di fantasticherie di potere.

 

Il viaggio di ritorno
Nonostante ciò, arrivati su Marte, avendo goduto per anni di quel famoso delirio di onnipotenza di cui tanto si parla, al quale è inevitabilmente seguito il carcere, ad un certo punto ci si rende conto che forse su quel pianeta rosso come il fuoco e come il potere non si sta poi così tanto bene e che forse è il caso di rientrare sul pianeta Terra.

Ma per tornare a convivere con gli altri bisogna crescere, imparare e fare proprie le conoscenze necessarie affinché si possa costruire qualcosa di buono insieme. Insomma, bisogna tornare riconoscibili come esseri umani, attraverso un impegno personale ma anche e soprattutto della società. Questo perché bisogna necessariamente prevenire che adolescenti di 14, 15 o 16 anni si

rovinino allo stesso modo, il che, a mio parere, rappresenta un onore e un dovere verso la collettività.

 

Le testimonianze
Oggi abbiamo potuto ascoltare le testimonianze di diversi detenuti ed ex detenuti e io, personalmente, mi sono commossa nel vedere delle persone così consapevoli di sé stesse, delle proprie azioni ma soprattutto degli obiettivi futuri. E mi sono spesso guardata intorno per vedere se gli studenti avessero avuto la stessa reazione. Con mia grande, anzi grandissima sorpresa i ragazzi erano tutti attenti ad ascoltare Roberto, Nuccio, Mario, Salvatore, Adriano e tutti gli altri presenti. Non avevano telefoni in mano, non parlavano tra di loro, non alzavano gli occhi al cielo. Erano li, fisicamente e mentalmente. E penso che questo sia il più grande dei traguardi, cioè riuscire a coinvolgere, attraverso la propria storia e la propria esperienza, i più giovani e catturarne l’attenzione e lo sguardo.

Tra qualche mese, spero, diventerò psicologa a tutti gli effetti e mi rendo conto di avere un’emotività che va immensamente oltre la mia professione, sono consapevole che prima o poi dovrò imparare a dosarla. Ma oggi, davanti a uomini, padri che si emozionavano al punto da avere la voce strozzata parlando del rapporto con i propri figli, non ce l’ho fatta e qualche lacrima di commozione mi è scesa. Sono storie toccanti, è straordinario sentire certi racconti uscire dalla bocca di persone che hanno vissuto quel tipo di vita.

Ed è altrettanto straordinario vedere nei loro occhi la consapevolezza, l’accettazione di sé e delle proprie azioni, che non rinnegano, ma sanno di non doversi rinchiudere all’interno delle scelte sbagliate del passato. Sono consapevoli di aver fatto un percorso che ha permesso loro di arrivare oggi ad essere fieri e orgogliosi delle persone che sono diventate e tutto ciò ha permesso anche ai loro familiari, amici, conoscenti di essere altrettanto fieri dei loro traguardi come esseri umani.

 

Come racconteresti la tua storia ai tuoi figli?
Con questa domanda si è concluso l’incontro. Alcuni hanno cercato di rispondere nella maniera più esaustiva possibile, altri, invece, non ci sono riusciti perché non hanno figli.

Penso che questa sia una domanda molto difficile, alla quale solo un genitore possa rispondere. Per questo motivo, ho pensato di girare questa domanda a mia mamma, chiedendole come avrebbe risposto lei se si fosse ritrovata in una situazione analoga, per esempio come è successo alla compagna di Adriano.

La sua risposta, come tutte quelle che mi ha sempre dato nella mia vita, mi è sembrata molto centrata: i bambini, gli adolescenti o più in generale i ragazzi compiono degli errori, ai quali seguono sgridate o punizioni, con annesse spiegazioni del perché l’azione X viene considerata errore; allo stesso modo, anche i grandi di qualunque età possono commetterne. La cosa importante è riconoscere i propri errori e soprattutto essere consapevoli che questi hanno delle conseguenze, perché ogni nostro gesto, che può anche essere fatto con ottime intenzioni, può causare effetti dolorosi per sé stessi e per gli altri.

E il carcere dovrebbe avere questo ruolo, ossia far capire che ciò che si è commesso è stato un errore, ma dovrebbe anche aiutare, dando la possibilità di riabilitare e reinserire i detenuti all’interno di una società, di formarli, di permettere loro di studiare, per poter tornare ad affrontare la vita quotidiana e le responsabilità che ne seguono in maniera più forte e consapevole rispetto a prima.

Micol Sini                                    Marte, andata e ritorno

Storie in divenire

L’incontro di mercoledì con i ragazzi del Liceo Artistico di Brera è stato  emozionante e coinvolgente. Non ho mai partecipato prima a un incontro simile, con ragazzi così giovani in una scuola, ma devo ammettere che col senno di poi avrei pagato oro per fare un’esperienza del genere nei miei anni di liceo.

La mattinata è partita con l’introduzione dal Prof. Aparo, che ha preparato i ragazzi con una metafora sul percorso di una persona a partire da quando è entrata nel mondo della criminalità – e successivamente nel carcere – e quando invece ne è uscita. Ha paragonato questo percorso a un viaggio di andata verso il pianeta Marte, che rappresenta l’ascesa nel mondo della criminalità e successivamente l’ingresso in carcere, e un viaggio di ritorno sul pianeta Terra, che rappresenta invece il percorso personale di un detenuto per essere pronto alla vita del cittadino fuori dal carcere.

La parte interessante è stata sentire i vissuti dei nostri amici, che hanno raccontato i loro viaggi di andata e di ritorno con un’emozione che ogni volta mi disarma. Quello che è emerso per quanto riguarda il viaggio di andata, di cosa e di chi li ha portati a prendere quella determinata strada, è che purtroppo a volte capita di nascere e crescere in situazioni di violenza, di devianza, di gara al potere e a chi è più forte, di rabbia e di sopravvivenza. Tutto questo ha portato ad abbracciare la dimensione criminale, travolgendo e stravolgendo ragazzini di soli 13, 14 anni che si son ritrovati a doversi conformare a questa vita per sopravvivere, ma anche per trarne vantaggio, perché insomma, agli occhi di questi ragazzini così giovani, inesperti, insicuri, spaventati e deviati, tutto quello che questo tipo di vita promette è decisamente allettante.

Poi ad un certo punto, però, tutto questo finisce: arriva il carcere, l’astronave atterra su Marte e niente è e sarà più come prima. Si entra in un mondo nel quale si fanno i conti con la persona che si è stati fino a quel punto, con ciò che si è commesso e con i mille pensieri che distruggono e che straziano l’anima. In quel momento però una scelta la puoi prendere: rimanere la persona che sei stato fino a quel giorno, rimanere nel buio, rimanere su Marte, oppure far rinascere quel bambino che è rimasto dentro di te, che hai voluto o hai dovuto bloccare lì dentro, rinascere nella luce e prendere quel biglietto di ritorno per la Terra.

Mercoledì, come in realtà tutte le volte che partecipo agli incontri del gruppo, ho visto davanti a me persone con una forza d’animo che mai penso di aver incontrato prima, persone con una conoscenza e coscienza di se stessi che disarma sempre; persone che hanno sofferto tantissimo per aver fatto soffrire, ma che, lavorando giorno dopo giorno per anni, oggi riescono a guardarsi allo specchio e ad essere fieri delle persone che sono oggi, persone che con enorme fatica ma con altrettanta volontà d’animo sono riuscite ad accedere alla vita della legalità, della luce, della bellezza.

L’ultima parte dell’incontro è stata credo la più difficile. Il Prof ha posto una domanda a dir poco complicata: “come racconteresti la tua storia, quello che hai fatto e come sei diventato oggi ai tuoi figli?” E qui ho ceduto.

Ho ceduto davanti a Pino, che per la prima volta ha parlato di tutto questo davanti agli occhi della figlia. Ho ceduto davanti a Roberto, con il racconto di suo nipote. Ho ceduto davanti ad Adriano e Francesca, con la storia di questa nuova meravigliosa famiglia. E ho ceduto davanti alle magiche e strazianti parole di Nuccio, mirabile poeta.

Ho ceduto davanti alla commozione, alle lacrime e all’umanità di queste persone, che come sempre mi lasciano nel cuore una bellezza indescrivibile. Grazie a tutti per quello che ogni giorno mi regalate.

Camilla Bruno

Marte, andata e ritorno