C’è un posto

C’è un posto, tra dentro e fuori,
dove lo spazio non si vende e non si regala.
Lì si allena ogni giorno la creatività e
cresce la libertà
di chi dà voce alle proprie idee e
si spende per verificare se, come e per quanto tempo
potranno convivere e fecondarsi con quelle degli altri.
Lì abita il Gruppo della Trasgressione

Juri Aparo

Officina CreativaPrima e oltre il confineLa Chiamata

Il mio idolo senza coscienza

Quando da adolescente approdai nel mio quartiere idealizzai la criminalità. Desideravo fortemente conquistare un posto per affermarmi e così cominciai a mettermi in mostra per farmi notare.

Per fare il criminale (se non lo sei destinato per eredità familiare), hai bisogno di farti notare dai talent scout, sempre alla ricerca di nuovi soggetti vulnerabili da formare.

Cominciai ad assumere comportamenti fuori legge e arroganti e non ci volle molto ad essere convocato per un “provino”.. il primo piccolo incarico portato a termine ed è fatta!

Benvenuto nell’accademia della criminalità, quella che ti forgia ad essere arrogante, senza pietà e assolutamente egoista, quella che prende la mia coscienza e la congela con lo scopo di non tirarla più fuori da lì!

Esame dopo esame mi sentivo sempre più fiero e orgoglioso di me, mi sentivo Uomo e affermato, mi sentivo un Dio sulla Terra, imbattibile e realizzato nel suo progetto criminale.

Quello che per la legge era una punizione per me era un jackpot, e se mi sbattevano in una cella d’isolamento la mia risposta era: “non mi avete fatto niente”!

Rabbia che fungeva da carburante in questo viaggio del male!

L’accademia l’ho terminata, ho raggiunto la laurea con 30 e lode, peccato che trenta sta per gli anni della mia vita da trascorrere in galera!

Matteo Manna

Arroganza e Coscienza

L’arroganza del maschio

Siamo nel XII secolo a.C. circa, sulle coste dell’odierna Turchia.

Ilio è in fiamme, i Troiani dopo dieci anni d’assedio sono sconfitti. Le donne, ammassate negli accampamenti dei vincitori Achei, non riescono a respirare e non solo perché  l’aria è densa di fumo acre, a causa degli incendi,  ma perché pensano al loro futuro.

Regine o ancelle che siano, finiranno serve nelle case achee, concubine nei talami achei, odiate da mogli che si sentiranno messe da parte, costrette a subire la loro presenza e a condividere con loro il corpo dei propri uomini.

Saranno violate nel corpo e nello spirito e nessuno avrà pietà di loro. Non sanno ancora chi sarà il loro padrone, l’unica certezza è che nessuno avrà considerazione per la loro sorte.

Andromaca non riesce a respirare. Non sa che cosa sarà di lei, non sa in che terra andrà, non sa di chi sarà la schiava, ma soprattutto non sa che cosa sarà di Astianatte, il suo figlioletto.

Poi arriva Taltibio e glielo comunica: “Tuo figlio sarà precipitato dalle torri troiane…… Non stringerlo tra le braccia; sopporta coraggiosamente questi mali e non pensare di opporti, giacché non hai aiuto da nessuna parte…… Ti esorto a non resistere, a non fare alcunché di sconveniente, a non scagliare imprecazioni contro gli Achei. Se infatti dirai qualcosa per cui l’esercito abbia a sdegnarsi, questo tuo figlio non avrà né sepoltura né compianto…”

Andromaca: “O figlio tanto amato, morrai per mano dei nostri nemici….Ti ucciderà il valore stesso di tuo padre…. O figlio tu piangi! Comprendi la tua sventura ? Perché mi afferri con le tue mani e ti serri al mio peplo, come un uccellino che si ricoveri sotto le mie ali? Non verrà Ettore, dall’oltretomba, a portarti salvezza…. O tenero figlio! O soave profumo del tuo corpo! Invano questo seno ti nutrì in fasce! Serra le braccia intorno alle mie spalle e accosta la tua bocca alla mia!

O Elleni, che avete escogitato un supplizio degno di barbari, perché uccidete questo bambino che di nulla è colpevole?”

Ecuba, regina di Troia e moglie di Priamo, dopo aver creduto che sua figlia Polissena fosse stata posta a cura del sepolcro di Achille, scopre la cruda verità: è stata sgozzata sulla tomba di Achille, votata a un cadavere senza vita.

 

Siamo nel XX secolo

Sul finire della seconda guerra mondiale, i Russi che entrano in Germania e arrivano a Berlino, man mano che procedono, violentano e depredano.

In Giappone alla fine della seconda guerra mondiale andavano di moda le comfort women. Provenienti principalmente da Corea, Taiwan e Cina. Le stime variano tra le 20.000 e le 300.000 donne; in base alle testimonianze raccolte si reputa attendibile il numero di 200.000

Per rendere l’idea dell’entità del fenomeno e delle brutalità di cui soffrirono le donne, benché la logica sottesa a queste violazioni sia assai più grave delle dimensioni, si può provare a dare una misura approssimativa di quanto accadde nel sud-est asiatico durante la Seconda Guerra Mondiale. La maggior parte delle superstiti ha testimoniato (WCCWI, Inc. 2005) di aver subito da 5 a 20 rapporti sessuali al giorno (in alcuni casi fino a 30 violenze giornaliere), per un minimo di 5 giorni alla settimana per una media di 3-5 anni di detenzione. Calcolando le cifre minime di 5 stupri per 5 giorni, otteniamo l’agghiacciante risultato di 1.800 violenze carnali subite annualmente da una singola donna, che, contando i tre anni minimi di detenzione, diventano 5400 in totale.

La mancata assunzione di responsabilità politica e la discriminazione sociale determinarono che, nonostante la gravità degli eventi, si dovettero aspettare circa quarant’anni prima che queste donne uscissero dal loro silenzio e incoraggiassero le indagini sugli abusi subiti. Ciò accadde innanzitutto perché i governi coinvolti non considerarono di alcuna rilevanza politica il problema, e in secondo luogo perché le pesanti discriminazioni subite dalle sopravvissute alla fine del conflitto trasformarono la loro memoria da denuncia a confessione.

Senza continuare un elenco che forse non finirebbe mai, si può affermare che ovunque c’è una guerra lo stupro è a tutti gli effetti considerato uno strumento di belligeranza, dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri.

Per fortuna da tempo le donne indiane non vengono più immolate sulla pira del marito quando egli muore. Per fortuna da tempo in Cina non si bendano più i piedi alle donne fino a impedire la crescita ossea e a renderle storpie.

Ma nel mondo musulmano si muore ancora per una ciocca di capelli sfuggita al foulard e, in molti paesi, la testa coperta e delle vesti che infagottano non sono ritenute sufficienti a salvaguardare la purezza delle donne. Si pretende che nascondano anche il viso e parzialmente anche gli occhi: è come se si volesse negare loro un’identità e le si volesse relegare alla condizione di ombre.

In Afganistan le donne non possono più andare a scuola.

 

Siamo nel XXI secolo

In un luogo di lavoro dove la parità di genere non è garantita e a mansioni uguali corrispondono retribuzioni diverse si assiste spesso alla vergognosa promozione che vede favorito un uomo non perché sia il migliore ma semplicemente perché è l’uomo. Una donna per vincere il confronto con un uomo deve essere più preparata, più disposta a lavorare di più di quanto il contratto preveda, più creativa, più disponibile.

Perché la qualità non può semplicemente essere riconosciuta indipendentemente dal genere che la esprime?

Nell’occidente sviluppato, una cucina moderna e dotata di ogni comfort alle otto di sera è ancora deserta e inutilizzata.

Nel salotto una coppia guarda il telegiornale. Lui è tranquillo e attento alle ultime notizie, lei apparentemente pure. In realtà è leggermente inquieta: si sente in colpa, perché ancora non si decide al alzarsi e andare a preparare la cena.

Che cosa fa ritenere l’uomo autorizzato ad aspettarsi che a preparare la cena sia lei?

Perché l’uomo non si sente in colpa?

Perché persino il papa si è sentito autorizzato a usare l’espressione “chiacchiericcio da donne”?

Nuccia Pessina

Uomini e donne

La mensola

23/04/2024

In attesa di un nuovo scritto sull’arroganza, il suo divenire e nuovi esempi letterari che ben spieghino il concetto, scrivo questo testo più “personale”, anche perché gli ultimi incontri che ho frequentato col gruppo mi hanno dato molto da pensare.

Ormai sono circa 2 mesi che frequento il gruppo della Trasgressione, poco meno che entro in carcere di Opera e stesso tempo che ascolto storie di vita e opinioni personali dei detenuti e questo non può che farmi riflettere sulla mia stessa vita.

Non è la prima volta che entro in carcere e ho a che fare con detenuti, questo perché faccio parte di un’associazione che mi ha permesso di diventare volontaria della CC di Biella e prestare il mio servizio in vari modi all’interno dell’istituto; sempre con la stessa associazione prestiamo attenzione alle persone scartate dalla società. Inoltre, per tradizione familiare sono sempre stata attenta alle questioni sociali. Sicuramente però tutte queste esperienze non possono essere alla pari di quella col Gruppo della Trasgressione perché non mi sono mai posta in una relazione “intima” con queste persone.

Ad ogni modo… mi chiedo spesso cosa ci faccio io qui, per quale motivo entro in carcere e perché comunque provo un senso di empatia verso queste persone, che… se sono dentro gli istituti, un motivo ben ci sarà!

La risposta che mi sono data per ora è che io lo faccio per un equilibrio personale: i miei genitori fin da piccola mi hanno sempre fatto notare quanto io fossi privilegiata, tipo dirmelo esplicitamente tante volte (abitudine opinabile, onestamente!), quindi già mi rendevo conto di quanto sia importante avere una famiglia dietro, vivere in una certa condizione economica, vivere in un certo quartiere (in realtà poi, io abito in periferia a Biella, davanti alle case popolari, quindi di episodi ne ho visti d’ogni), eccetera.

Ecco questo sapere di essere privilegiata mi fa sentire tremendamente in colpa, io perennemente vivo coi sensi di colpa quindi il poter entrare in carcere, entrare in contatto con i detenuti, constatare che, chi più chi meno, hanno tutti vissuto storie di vita allucinanti, mi riporta in un equilibrio di dare-avere. Questo mio pensiero lo trovo molto simile, seppur in forma diversa, a un pensiero che ha riportato il detenuto Matteo Manna nell’incontro alla fondazione Clerici il 19/04 quando lui stesso ha detto “io sono in debito con la società, ma il venire qui a fare questi incontri con voi e a raccontarvi la mia storia in realtà mi fa stare bene. E quindi lo faccio anche per un ritorno egoistico”.

Subito dopo questa frase il professore ha chiesto a me di provare a spiegare come è possibile che Matteo senta di pagare il proprio debito mentre ottiene anche un guadagno personale. Sul momento ho detto che ci dovevo riflettere, ecco secondo me lui si sente in debito con la società perché sa bene ciò che ha fatto in passato e quindi ci soffre, ma per mantenere una sorta di equilibrio interno positivo vuole fare del bene con gli incontri e tutte cose, quindi diventa un tornaconto personale. Probabilmente se non lo facesse, si ammazzerebbe, ma agendo oggi nel modo in cui agisce riesce a non rimanere schiacciato dai suoi sensi di colpa.

Ecco io penso di “funzionare” in modo simile: mi sento in debito per la mia situazione di privilegio e questo mi fa stare male e mi dà da pensare molto, ma agendo nel sociale e facendo anche questo tirocinio torno a un equilibrio di dare-avere, che mi fa stare quanto meno tranquilla. E questa è la prima cosa.

Se penso a quanto sono fortunata, una parte di me alle volte pensa l’esatto opposto. Dopo l’incontro di Cesano Maderno del 23/04 ho scritto sul mio quadernetto “ma allora io sono arrogante” e adesso spiego perché…

Dopo quell’incontro mi sono arrovellata la testa a pensare a moltissime cose e non mi do pace (ho grande potere di metacognizione e pensare è la cosa che meglio mi riesce). Io sono secondogenita di una famiglia composta da mamma professoressa e papà contabile, niente di ché, con un fratello più grande di me di 3 anni. Ho solo 24 anni e posso dire che tutta la mia vita è filata liscia fino ad oggi: la scuola sempre tutto bene, io sempre brava a studiare, sempre senza dare problemi di alcun genere, solo una salute un po’ cagionevole, ma comunque tutto bene. Come ha detto una ragazzina di Cesano, anche io avevo e ho tutt’ora un futuro da portare avanti, e forse mi sono presa fin troppo questo incarico.

Bene, questa è la mia vita, non ha niente a che vedere con le storie di vita che sento raccontare dai detenuti del gruppo (e qualcuna anche la trascrivo); ma comunque in tutto questo benestare non sono mancate le rotture di coglioni e gli sbattimenti che ho avuto, che fossero anche solo dei genitori sergenti che mi dicevano di avere la ghigna e non essere riconoscente nei loro confronti. Eppure io non ho mai preso e fatto il crimine, anzi manco mai li ho mandati a cagare. E’ qui che mi sento arrogante, è per questo che dico che io sono arrogante perché alle volte io stessa penso: “minchia, ma pure io ho avuto i miei problemi, va bene che non erano gravi quanto i vostri, ma nella mia bolla e nel mio quantificare la realtà sono stati gravi e poi… che dobbiamo giocare a fare chi sta peggio? No. Fanculo a voi, io non ho preso un coltello e non l’ho piantato nel fianco a mia madre anche se mi rompeva di brutto e non l’ho fatto con mio padre, ma anzi mi sono sempre comportata bene e ho sempre fatto ciò che mi veniva richiesto, infatti vedi un po’ che mi sto laureando e nel frattempo sto facendo altre mille cose e questo perché mi è stato trasmesso questo maledetto senso del dovere“.

Inoltre, io ho anche il problema di pensare di non essere interessante e non dire cose interessanti e/o giuste, motivo per il quale sto tendenzialmente sempre in silenzio a meno che non venga richiesta la mia opinione… che comunque poi, dopo averla espressa, la considero di poco valore (questo mio stare sempre in silenzio potrebbe sembrare dall’esterno un fatto di sentirsi superiore e saccente, ma basta poco per capire che non è assolutamente così).

Ecco vedere che Matteo Manna con la sua storia al termine dell’incontro di Cesano cattura l’attenzione di 100 e passa persone e le fa commuovere, ma in realtà me compresa, mi fa montare una rabbia allucinante perché penso: “minchia, ma io cosa ci faccio qua, pur avendo studiato per praticamente tutti gli anni della mia vita, essere una persona curiosa che legge, vede cose, viaggia e si interessa non potrò mai arrivare a quello che ha detto lui e dirlo nello stesso modo, e questo è un delinquente che ha fatto le peggio cose e spacciato a strafottere, e io che mi ammazzo di studio quando mi viene chiesto qualcosa mi esprimo male, non vengo ascoltata e dico cose di poco conto“.

Chiaramente pensare a queste cose mi fa incazzare, cioè io mi detesto quando penso a quanto appena detto sopra perché so benissimo che ognuno di noi è diverso e che, zio pera, è assurdo pensare che quest’uomo che prima era uno spacciatore adesso ha fatto questo salto di qualità e dice queste cose e io non posso che rimanere abbagliata da questa crescita. Quindi, poi in me prevale il mio pensare più “corretto” e “etico” se così si può dire, e mi ridimensiono e soppeso nelle giuste quantità e penso che, in fin dei conti, anche io sto facendo del bene e sto dando il mio contributo al gruppo, seppur in minima parte (forse manco quella), e torno al mio equilibrio di serenità in pace con me, equilibrio di dare-avere di cui all’inizio.

Bene, questi sono i pensieri che mi passano per la testa praticamente da che ho iniziato questo tirocinio. Non sono certa si sia capito molto in questo flusso al limite dello psicotico, ma forse mostra proprio il sentimento dell’uomo più basico. Non saprei, sicuramente non voglio che questo scritto venga pubblicato sul sito di Trasgressione, nemmeno se modificato dal prof.

 

29/05/2024

Il mio tirocinio sta volgendo al termine, formalmente per lo meno, e così scrivo questa relazione finale più personale e meno formale rispetto a quella fatta per l’università.

Beh, cosa dire? Questo tirocinio effettivamente mi ha cambiato; non posso paragonare 5 anni di studi all’università con ciò che ho imparato in questi 4 mesi fatti di incontri, riflessioni e pensieri. A proposito, se si potessero contare le ore di pensiero, io le mie 200 le avrei finite tutte nel giro di 1 mese probabilmente. Ad ogni modo…

Sono partita non capendo bene in cosa consisteva il Gruppo della Trasgressione e il suo operato, io semplicemente sono volontaria nel carcere di Biella, il direttore Siciliano mi aveva parlato del gruppo e quindi, bom, faccio il tirocinio con il gruppo senza farmi tante domande. All’inizio ero spaventata dai modi del professore e onestamente pensavo di poter e dover “apprendere” solo da ciò che veniva detto da lui e poi, per come sono fatta io, mi sono messa in una posizione di tirocinante che ascolta e apprende ma comunque sta in disparte.

Io di nozioni sul tema della devianza non ne avevo, e tutt’ora non ne ho, perciò dovevo imparare dal professore, coi suoi modi di entrare in relazione coi detenuti e vedere il percorso di questi nella loro presa di coscienza e riflessione. Io semplicemente dovevo ascoltare ed essere in una posizione di studentessa. Tant’è vero che se qualche altro componente, non detenuto intendo, faceva commenti o esponeva la propria idea, io quasi mi arrabbiavo e pensavo “ma siamo qui per loro, cosa possiamo portare noi al tavolo che di questa vita non ne sappiamo nulla e non c’è nulla di più lontano dalla vita che conduciamo noi?”.

Ho sempre e solo detto la mia opinione se esplicitamente richiesta, penso di non essere intervenuta di mia spontanea volontà mai, e quando mi veniva chiesto di fare un commento io tendenzialmente dicevo “bello, bravo, dici le cose bene e mi stupisce come prendi coscienza delle tue azioni del passato”, ma poi tornavo a casa e pensavo alle mie parole e mi incazzavo con me stessa perché mi dicevo: “ma insomma mica sei la maestra che deve dare i voti, esponiti e dì ciò che hai provato“, ma l’esposizione dei miei sentimenti non è cosa mia, perciò mi sono sempre trattenuta.

Poi, man mano, vedendo i detenuti di Opera in particolar modo e frequentando il gruppo praticamente a ogni evento e incontro che si teneva, mi sono “integrata” e ho iniziato a stringere dei legami con le persone componenti e ho iniziato a capire che qui davvero si è tutti alla pari e non ci sono posizioni di chi apprende e chi insegna, chi ascolta e chi parla, chi espone e chi sta in silenzio, ma si è davvero tutti allo stesso livello.

Allora inizio a pormi delle domande ovviamente, sulla mia posizione nel gruppo e sul mio operato fino a quel momento, anche rispetto alle altre persone tirocinanti come me e mi sono resa conto che io effettivamente dall’esterno potevo dare l’impressione di una persona che non parla perché non pensa o comunque non interviene perché non ascolta, così circa a fine aprile ho scritto una cosa per dimostrare che di pensieri ne ho e la mia partecipazione seppur silenziosa, era attiva. Sempre nel mio stile di persona timida riservata che non vuole disturbare e non si vuole esporre eccessivamente, ho scritto un testo personale per dimostrare appunto che anche io rifletto come ogni componente del gruppo e mi interrogo sui miei sentimenti, quindi sono al livello di ogni altra persona.

Dopo alcuni scambi con il professore e con altri componenti del gruppo, detenuti e non, praticamente ho iniziato a vedere il gruppo con occhi diversi, ho capito che anche io sono componente del gruppo, non sono studentessa tirocinante che deve studiare il detenuto, prendere appunti e valutare la storia di vita degli altri, ma io stessa posso e devo esporre il mio pensiero (che comunque è valido), posso e devo esporre le mie emozioni, posso e devo esporre proprio me stessa, il mio essere me e la mia identità di persona che studia, è fuori sede, ha delle passioni e degli interessi ed è pure in parte nevrotica.

Ogni volta che torno a casa dopo un incontro col gruppo mi fermo a pensare a tutte le cose che sono state dette e gli interventi che sono stati fatti. Dentro di me in realtà si crea un conflitto di pensiero: da un lato penso, in modo anche presuntuoso, di essere diversa dai detenuti e dalle loro storie di vita perché io non ho mai spacciato, ucciso o tenuto in mano una pistola e quindi quasi li detesto perché vivono la loro vita, sì chiusi in carcere, ma alcuni di loro hanno un’apertura mentale che io bramo e di cui sono amaramente invidiosa; dall’altro lato in realtà penso di essere proprio come loro, che in fin dei conti siamo tutti uguali e che il dolore che ognuno porta sempre dolore è, non si deve mettere a confronto e che ognuno agisce secondo le risorse e le capacità che ha, e quindi, se io di fronte alle rotture di cazzi dei miei genitori non ho fatto il panico e non sono andata a spacciare in giro, altre persone hanno reagito diversamente con le loro potenzialità e i loro “filtri” di funzionamento.

Con questo tirocinio ho compreso che in fin dei conti ciò che ognuno di noi desidera e necessita, ma tipo ogni persona essere umano, è essere amato ed essere riconosciuto per la persona che è. I detenuti nel loro percorso col gruppo prendono coscienza di ciò che hanno fatto e diventano se stessi (cioè non cittadini civili, o meglio anche, ma come effetto secondario), perché vengono riconosciuti e si riconoscono come loro stessi, ritrovano o forse trovano per la prima volta la loro identità che avevano nascosto sotto tanti strati quando erano delinquenti e commettevano i reati.

Voglio pensare che tutto questo tirocinio a me ha fatto del gran bene, ma anche un po’ male perché comunque spendo una quantità di energie cognitive a pensare alle cose che si dicono che proprio mi stanco, per la semplice ragione che anche io sono stata riconosciuta e “validata” per il mio essere me.

Mi sono spaccata la stessa a pretendere di non aver bisogno di tale riconoscimento, perché rispetto ai detenuti, comunque, i miei genitori sono state figure di riferimento credibili e non mi hanno mai fatto mancare l’amore, la vicinanza e tutte le cose belle, e volevo anche pretendere che potesse bastare essere presente alle cose, ma mi son resa conto che non basta: è necessario fare qualcosa, produrre, esporre il proprio pensiero, mostrare i propri sentimenti e le proprie debolezze perché tutte cose valide e utili da essere condivise.

Il mio fare qualcosa rimane comunque nella mia zona di comfort, quindi scrivere questi testi e espormi un cicinin in più, ma questo è! E ho compreso piacevolmente che è ciò che andava fatto fin da subito, ed è proprio l’idea che sta alla base del gruppo: ogni componente è sollecitato a riflettere su di sé e a crescere, ed è un laboratorio dove ognuno è alla pari.

“Io sono una mensola” è ciò che ho scritto il giorno mercoledì 8 maggio quando si parlava di stanze e del Gruppo della Trasgressione con alcuni componenti del Rotary perché è così che mi sentivo, un mobile della stanza silenzioso. Ora posso dire che se le persone del gruppo nella stanza si parlano e ne fanno parte, anche io sono con loro e contribuisco con piacere a ciò che ci si scambia.

Custodisco anche le parole del professore che mi ha detto che io ho la tendenza a stare sempre un passo indietro agli altri perché così funziono e per la mia storia di vita. Probabilmente mi è stato insegnato e/o io ho appreso a fare così, ma se prima stavo indietro di 10 metri ora magari sto dienro solo di un metro, sicuramente però ci sono.

Concludo con le parole del libro “La valle dell’Eden” di John Steinbeck, che è a me molto caro e che, secondo la mia opinione, sono in linea con ciò di cui si parla al gruppo e con ciò che mi porto a casa da questa esperienza di tirocinio, oltre a tutto ciò di cui sopra, e dicono “sotto gli strati superficiali della loro fragilità gli uomini desiderano essere buoni e vogliono essere amati. In effetti, molti dei loro vizi non sono che tentativi d’infilare scorciatoie per arrivare all’amore. Non importa quali fossero i suoi meriti, l’influenza e l’ingegno, se uno muore non amato la vita sarà per lui un fallimento e la morte un gelido orrore. A liberarli dalla loro colpa, nonché il perdono, è il sapere che è possibile essere liberi di scegliere. Liberi di sperare. (…) Il talismano che apre la nuova via è la parola ebraica timshel(“tu puoi”), con essa si spezzano metaforicamente le catene di quel determinismo, o servo arbitrio, che nelle creature si manifesta come senso di colpa”.

Benedetta Comoglio

Tirocini

Il male va denunciato

Il “Gruppo della Trasgressione” alle Melzi di Legnano: “Il male va sempre denunciato”

Angelo Aparo referente del “Gruppo della Trasgressione” ha parlato ai cinquanta studenti delle medie dell’Istituto Melzi di Legnano. Con lui anche Marisa Fiorani madre di Marcella Di Levrano, Marcos e Antonio, entrambi ex detenuti

Di Gea Somazzi – Legnano News

Il gruppo Trasgressioni all’Istituto Barbara Melzi di Legnano «L’essere umano non può trovare alleanze nel male, perchè porterà sempre ad un esito negativo. Il male va denunciato». Così lo psicologo Angelo Aparo referente del “Gruppo della Trasgressione” ha parlato ai cinquanta studenti delle medie dell’Istituto Melzi di Legnano. Una giovane platea attenta e silenziosa che oggi, martedì 7 maggio, ha ascoltato anche l’intensa testimonianza di Marisa Fiorani madre di Marcella Di Levrano, assassinata nel 1990 per aver reso una testimonianza chiave per il Maxiprocesso di Lecce. Oltre che la storia di Marcos e di Antonio ex carcerato che ha lasciato la vita da malvivente ed «iniziato a star bene con me stesso e di conseguenza con chi mi sta accanto. Perchè quando si percorrono certe strade si fa male prima di tutto a se stessi e nel contempo a chi vogliamo bene. Mi rendo conto solo oggi che io mi sono privato da solo della possibilità di vivere un’adolescenza felice come la vostra».

Questo evento fa parte di un articolato percorso di educazione civica che ha già visto due incontri con il maggiore Laghezza alla guida della Compagnia Carabinieri di Legnano. Un progetto di educazione civica, realizzato in collaborazione con l’associazione Libera contro le Mafie. «È stato un percorso ricco ed intenso. C’è chi potrebbe pensare che questo genere d’incontri siano troppo complessi per studenti così giovani – afferma il prof Flavio Merlo dirigente scolastico dell’Istituto Melzi -. Ma non è così, la prevenzione passa anche da questi momenti di riflessione. Nessun ragazzo è immune ed in questi incontri si possono affrontare temi importanti».

Il gruppo Trasgressioni all’Istituto Barbara Melzi di Legnano

 

La speciale lezione

L’importanza del riconoscimento, la rabbia, l’abuso nel soffocare la propria identità, il senso di inadeguatezza, onnipotenza e rivalsa. Sono solo alcuni degli stati d’animo spiegati durante la speciale lezione iniziata alle 10. Sentimenti controversi provati da chi si avvicina al mondo dell’illegalità. Persone con fragilità profonde che trovano forza nel gruppo e nel compiere azioni violente. Ed è facile perdere la strada «Quando ero piccolo ero bullizzato – ha raccontato Antonio -. Sono stato spinto giù dalle scale. Ciò che mi ha fatto più male sono state le risate di tutti i compagni presenti. Le sento ancora oggi. Ridere del male altrui fa più male di un pugno. Così da allora sono diventato io il bullo, poi in un attimo mi sono trovato sulla strada della malavita. Grazie ad un complice che ha spifferato tutto alle Forze dell’Ordine sono stato obbligato a fermarmi: 16 anni di pena. È stata la mia salvezza. Usate la vostra testa non dovete esser schiavi della rabbia».

Antonio ha passato una buona parte della sua vita a commettere reati, ed ora si è riscattato. Mentre Marisa la madre di una giovane che dopo esser caduta nella tossicodipendenza ha avuto il coraggio di denunciare il male. Un scelta che ha pagato con la vita, ma la sua storia continua ad essere d’esempio. Marcella, fu uccisa all’età di 26 anni dalla Sacra corona unita. Fu massacrata a colpi di pietra, in un bosco. «Un’esecuzione in piena regola – afferma la madre – perchè fu ritenuta un’infame, aveva parlato… li aveva denunciati». Soltanto nel 2022 la giovane vittima è stata dichiarata vittima innocente della mafia. «Ricordo ancora che quando andai a denunciare la sua scomparsa, non mi presero sul serio. Mi dissero: ‘I drogati fanno così, poi tornano’. Sui giornali scrissero che si trattava di una prostituta, ma io sapevo che non era vero,  Non mi costituii parte civile nel procedimento penale, non avevo più fiducia nella giustizia. Oggi posso dire che mi sbagliai non tutti sono corrotti. Mi sono rivolta all’associazione Libera, che mi ha sostenuta in questa lotta. Dopo 30 anni ho scoperto la verità. Ho 84 anni, ma oggi so che Marcella, dopo esser diventata madre, decise di cambiare strada e raccontare tutto alle istituzioni. Fece uno “sgarbo” alla malavita salentina. La sua scelta era giusta: bisogna sempre denunciare il male».

Il gruppo Trasgressioni all’Istituto Barbara Melzi di Legnano

 

Il Gruppo della Trasgressione

Questa realtà, in 26 anni di storia, è stata capace di includere detenuti, studenti universitari, cittadini comuni ed anche vittime della criminalità organizzata. L’obiettivo principale del gruppo, composto da un’associazione e da una cooperativa e fondato dal dottor Angelo Aparo, è individuare e spiegare le motivazioni che spingono i giovani ad assumere comportamenti aggressivi e violenti. Comportamenti che poi portano sulla strada dell’illegalità. In quest’ottica il gruppo lavora all’interno delle carceri di Bollate, Opera e San Vittore e attraverso molteplici attività cerca momenti critici e di confronto tra i detenuti e il mondo degli adolescenti. Attraverso incontri specifici all’interno degli istituti scolastici si crea, quindi, un percorso di prevenzione per i giovani e allo stesso tempo di rieducazione per i condannati.

Incontri con le scuole

Emozioni e abuso

Innanzi tutto desidero ringraziare il Dott. Aparo per il testo che ci ha consegnato: “Istruire una prossimità”, scritto che mi permette di fare ulteriori riflessioni sul mio passato deviante e carico dell’umanità di chi crede realmente che risanare il tessuto sociale lacerato dall’abuso sia utile non solo a vittime e carnefici ma anche a tutti coloro che si impegnano costantemente nella ricerca della verità. Questo scritto è per me un pozzo pieno d’acqua per placare l’arsura, sete che si identifica nella continua ricerca della coscienza smarrita, cammino che ritengo non abbia mai fine e che pertanto vada nutrito quotidianamente.

Come tanti altri miei compagni, fino a pochi giorni fa io ritenevo che, all’epoca degli abusi, la vittima fosse per me solo un ostacolo da abbattere per raggiungere i miei obiettivi. E intanto pensavo di non provare alcuna particolare emozione verso “l’ostacolo”. Per anni mi sono detto che all’epoca dei reati la vittima era stata per me un oggetto estraneo senza nome. Questa mi è sembrata per anni la spiegazione della facilità con cui insultavo la vita mia e altrui, della anestesia che mi permetteva di combattere la mia guerra per conquistarmi ciò che la vita mi aveva negato.

Questa convinzione di non provare emozioni durante l’abuso si era talmente consolidata nella mia mente che mi ha accompagnata fino a pochi giorni fa! E’ stato grazie ai dubbi sollevati dal dott. Aparo in merito a questa convinzione, che tra l’altro accomuna quasi tutti gli abusanti, che ho iniziato a rifletterci a fondo.

E così mi si è aperto un mondo che avevo completamente trascurato e con il quale sto imparando a dialogare. Mi sono reso conto che non è possibile non provare emozioni, specialmente quando uccidi un uomo: sarebbe disumano!

Allora perché, inconsciamente, adottavo questo sistema? L’unica spiegazione che riesco a darmi è che anche il peggior criminale non potrebbe convivere con l’enormità derivante dall’uccisione di un proprio simile e quindi per una forma di protezione elabora un meccanismo di difesa che gli consente di non sentire prossimità con la vittima.

Prendere confidenza con le emozioni che ho seppellito all’epoca dei fatti è un processo doloroso ma catartico, che mi aiuta a mettere in comunicazione il ragazzo “che non voleva sentire” con l’uomo in evoluzione quale mi sento.

Di tutti gli attori che vengono coinvolti nella spirale dell’abuso è certamente alla vittima – o a un suo parente – che si dovrebbero indirizzare le maggiori attenzioni, perché come dice il Dott. Aparo: “perdere il proprio caro per volontà di una marionetta mossa dal delirio di onnipotenza genera un tormento che non si placa”.

Io ho avuto il privilegio di partecipare al progetto “Sicomoro”, il quale ha messo a confronto vittime e carnefici. Quando ho fatto questa esperienza, sette anni fa, avevo già iniziato da tempo il mio viaggio nella profondità del male che avevo causato. Ma quando mi sono trovato di fronte a persone in carne e ossa, con tutto il loro carico di dolore che traspariva dagli occhi ma anche da ogni gesto o parola che pronunciavano, tutti gli abusi da me commessi, come un boomerang, mi sono piombati addosso. L’impatto con la realtà mi ha destabilizzato per parecchio tempo: mi sono sentito l’essere più schifoso della terra.

Ma poiché la vita, come una madre, non smette mai di accogliermi con la sua generosità, l’aiuto che necessitavo è arrivato proprio dai familiari delle vittime, che al termine del viaggio fatto insieme e durato tre mesi, mi hanno donato un abbraccio che si è scolpito indelebilmente nel mio cuore. Ritengo che loro abbiano (naturalmente mi riferisco a quelli che sono pronti per iniziare un processo di guarigione) un vitale bisogno di vedere nel carnefice il risveglio della coscienza, forse perché la vita che è stata loro strappata sta generando una nuova vita nell’abusante e questo rende un po’ meno traumatica l’assenza del proprio caro.

Da qualche mese ho stretto un bellissimo rapporto con Elisabetta, una mamma alla quale un folle che guidava un’auto ha ucciso il figlio di soli 15 anni! Tra Elisabetta e me sta nascendo una relazione che si avvicina alla parentela; infatti, non so grazie a quale magia, quando ci sentiamo o vediamo, spesso ci chiamiamo “sorella e fratello”. Io, che sono un ex assassino, vengo chiamato fratello da una donna cui hanno ucciso un figlio… è pazzesco! Ma anche questa è una meraviglia della vita. Lei è una delle mie più fervide sostenitrici e preferirei bruciare vivo piuttosto che arrecarle altro dolore. E così avviene che invece di essere io a donarle sollievo è lei che mi aiuta a riempire di nobili contenuti la mia esistenza. Grazie Elisabetta e grazie a tutti quelli che mi stanno aiutando a riscrivere la mia storia con i colori dell’amore.

Sono pienamente convinto, per averlo sperimentato personalmente, che il primo segnale di “cambiamento di rotta” avviene dentro noi stessi. Senza questo desiderio profondo di evolvere nessuno può aiutarci perché ci si trova in una condizione di “sordità e negazione”. Dopo questo primo e fondamentale step è altresì necessario trovare delle guide che ci indirizzino verso i valori su cui poggia la civiltà, una sorta di moderni Virgilio che ci tendano la mano nell’arduo percorso di risalita dagli inferi.

Naturalmente l’apporto delle figure istituzionali è altrettanto fondamentale per riappropriarsi del valore rappresentato dalla giustizia e dalla legalità. Lassismo, menefreghismo e addirittura indifferenza delle Istituzioni, spesso sono l’ago della bilancia in negativo nel recupero del reo, perché è evidente che chi o coloro che rappresentano un punto di riferimento, se abusano del proprio potere per gestire i loro interessi, incidono in modo estremamente sfavorevole nella mente già deviata dei criminali, la quale fa un semplice ragionamento di comodo: “poiché se ne fregano loro perché dovrei impegnarmi io?” Quindi, per arginare lo sconvolgimento che provoca l’abuso è necessario l’apporto di tutti gli uomini che hanno a cuore la vita. Inoltre, ritengo che perseguendo questo nobile cammino possiamo solo arricchirci e riappropriarci della libertà che a causa di tutti gli abusi perpetrati in passato è stata svilita, violata e maltrattata, lasciandoci in una condizione di apnea.

Non c’è dubbio che la situazione delle carceri (Opera è da una decina d’anni un’eccezione) non favorisce l’evoluzione del reo, soprattutto a causa della scarsità di strumenti trattamentali atti a sostenere la rielaborazione critica del passato criminale; anche la pochezza di progetti a lungo termine non ne incoraggia il reinserimento e tutto ciò ostacola il cambiamento.

Naturalmente questo non deve diventare un alibi per scaricare le proprie responsabilità sugli altri, anche perché, a mio avviso, il processo interiore che ognuno deve compiere per migliorarsi non può arrestarsi per nessun motivo. Mi piace pensare a una futura alleanza tra detenuti e figure istituzionali: i primi con l’obiettivo di diventare cittadini, gli altri per elevare il livello di giustizia in un mondo in cui la menzogna sembra prevalere su tutto.

Alessandro Crisafulli

Istruire una prossimità

Andare oltre

Quando ho concluso la laurea magistrale, l’idea di iscrivermi ad una scuola di specializzazione non mi sfiorava nemmeno. Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con lo studio: studiavo più per dovere che per piacere, e il fine ultimo era il dover dimostrare agli altri, e a me stessa, di essere intelligente. Ai tempi del liceo, credevo che l’intelligenza fosse determinata solo ed esclusivamente dalla capacità di studiare e, di conseguenza, i voti che ricevevo diventavano, per me, un giudizio oggettivo e inconfutabile sulla mia intelligenza. Durante l’università, il mio rapporto con lo studio è migliorato: probabilmente grazie agli argomenti, che riuscivano a stimolare di più la mia curiosità e voglia di imparare. Tuttavia, la connessione tra studio e intelligenza era sempre presente e vivevo ogni risultato di esame come un giudizio sulla mia persona. Di conseguenza, non appena ho finito di discutere la tesi ho tirato un sospiro di sollievo: finalmente era finita.

Cosa è cambiato in questi tre anni? Cosa mi ha spinto a decidere di mettermi in gioco nuovamente e intraprendere un percorso di altri quattro anni?

So che sembra assurdo, ma credo che la “colpa” sia del carcere. O meglio, del Gruppo della Trasgressione. Quando ho iniziato il tirocinio post lauream al Gruppo della Trasgressione, non credevo che sarei riuscita a terminare le ore necessarie per il tirocinio: lo psicologo psicoterapeuta fondatore del Gruppo, Angelo Aparo, era, ed è ancora, un professionista alquanto particolare. Io volevo semplicemente svolgere le mie ore di tirocinio il più velocemente possibile, passando per lo più inosservata ma non mi è stato permesso e oggi, di questo, gli sono grata.

Il dottor Aparo lavora da più di quarant’anni come consulente psicologo nelle carceri presenti nel territorio milanese e nel 1997 ha fondato il Gruppo della Trasgressione, che può essere definito come un tavolo di confronto che utilizza la devianza, in tutte le sue forme e sfaccettature, come punto di partenza da cui generare riflessioni sull’essere umano e a cui siedono studenti, detenuti e liberi cittadini.

Nel suo ruolo di coordinatore del Gruppo, il dottor Aparo pretende partecipazione da tutti i presenti al tavolo. Per me, questo, è stato difficilissimo: in primo luogo perché non mi sono mai sentita a mio agio a parlare di fronte alle persone. Ho sempre il timore di dire una cosa sbagliata o in modo poco chiaro. In secondo luogo perché sono partita con il piede sbagliato: in quanto tirocinante pensavo di dover imparare solamente dal dottor Aparo, ci ho messo un po’ di tempo a capire che in realtà, per poter sfruttare al massimo il mio tirocinio, dovevo aprirmi al Gruppo e alle sue dinamiche. Non è stato facile, ancora oggi ci sono dei momenti in cui faccio fatica e mi sembra di brancolare nel buio.

Il Gruppo è stata la mia prima esperienza di psicoterapia: gli argomenti trattati mi hanno permesso di scoprire e comprendere parti di me che non conoscevo, o che forse non volevo vedere. In particolar modo, al Gruppo ho imparato a confrontarmi con le mie emozioni e, soprattutto, a utilizzare il mio sentire come punto di partenza per elaborare un pensiero critico e costruttivo.

Ricordo ancora l’agitazione di quando sono entrata per la prima volta nella casa di reclusione di Opera. Ho impressi nella memoria gli sguardi, le sensazioni e i colori di quel giorno, ma non sono sicura di essere in grado di spiegarli. Avevo uno strano peso nello stomaco quando mi sono seduta al tavolo con diversi ergastolani. Pensavo di trovare sguardi freddi e calcolatori, mancanza di empatia e tentativi di manipolazione, invece ho trovato sguardi timidi e riservati, occhi emozionati, persone alla ricerca della presenza dell’altro. Ho impiegato un po’ di tempo ad abbassare le difese che mi ero costruita, basate principalmente su preconcetti e pregiudizi, e a concedermi di vedere l’altro.

Non so bene cosa mi riserverà il futuro ma l’idea di lavorare in carcere ormai è abbastanza radicata dentro di me. L’aspetto che trovo più interessante della psicoterapia è la costruzione di una relazione e credo che questo sia un aspetto fondamentale in un mondo come quello del carcere. L’articolo 27 della costituzione prevede che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato; le case di reclusione investono quindi in progetti, formulati molto spesso da cooperative o associazioni esterne, che consentano ai detenuti di imparare un lavoro che possa permettere loro di ottenere una stabilità una volta conclusa la pena, con la speranza che questa stabilità li aiuti a non commettere più reati. Il lavoro viene quindi spesso considerato come punto cruciale nel successo della rieducazione, ma io credo che questa sia la strada più facile e meno dispendiosa in termini di energia mentale.

Trasgredire deriva dal latino e letteralmente significa “andare oltre”. Nel linguaggio comune, si utilizza per definire comportamenti o azioni che vanno oltre il limite consentito solitamente dalla legge, ma in alcuni casi anche della morale. Commettere un reato equivale a compiere una trasgressione, ma cosa spinge una persona a farlo?

L’opinione che mi sono formata io è che una persona commette un reato quando non è più in grado di riconoscere nell’altro un suo simile. L’altro diventa un oggetto e, in quanto tale, è possibile abusare di esso. Credo quindi che la “rieducazione” di un detenuto debba partire dalla costruzione di una relazione che possa permettergli di identificarsi nuovamente nell’altro. Il riconoscimento reciproco comporta un senso di appartenenza che è necessario per sentirsi parte della società e, di conseguenza, di sentirsi responsabile di essa.

La relazione, inoltre, gioca un ruolo fondamentale nella creazione di un progetto che permette alle persone di sentirsi credibili agli occhi degli altri e di avere un ruolo riconosciuto da altri, considerati pari. Sentirsi parte di una collettività ci aiuta a condividere il peso delle difficoltà o dei fallimenti, personali e non, e ci permette di sopportare meglio la fatica necessaria al rapportarsi con i conflitti che si generano in noi.

Uno degli aspetti con cui mi confronto spesso in carcere è la “facilità” con cui si precipita nella strada della devianza, le storie che sento sono molto simili: si inizia quasi per gioco, commettendo piccoli reati che altro non fanno che anestetizzare il cervello, facendo diventare l’abuso nei confronti dell’altro l’unico mezzo disponibile per ottenere un riconoscimento illusorio e una sensazione di potere. La devianza è una strada relativamente facile, in cui molto spesso si ottiene tutto e subito, e questo non basta mai. Perché forse, sotto sotto, si sente di non stare facendo alcuna fatica ed è necessario fare fatica per sentirsi appagati.

La costruzione di una relazione sana ci permette di sentirci accolti, accuditi e accompagnati nelle nostre fatiche e di riscoprirci consapevolmente responsabili di esse. La relazione è un contenitore sicuro, nel quale i conflitti possono essere un punto di partenza per una crescita consapevole.

Leggendo “Domanda e risposta” di Sergio Erba, mi sono trovata a riflettere sull’importanza di costruire una relazione tra terapeuta e paziente nella quale la responsabilità della relazione stessa sia distribuita equamente su entrambi. L’istituzione non attribuisce al detenuto nessuna responsabilità, se non quella del reato per cui è condannato, e in questo modo non gli permette di riconoscersi in qualcosa ma alimenta il suo isolamento ed estraniamento dalla società.

Gli anni al Gruppo della Trasgressione mi hanno insegnato che la costruzione di una relazione terapeutica è possibile anche all’interno di un carcere e, soprattutto, la conoscenza di sé è parte fondamentale del processo.

La volontà di approfondire alcuni aspetti di me stessa e riuscire a convivere in modo sereno con essi mi ha spinto ad intraprendere un percorso di analisi personale prima, e la decisione di iscrivermi ad una scuola di psicoterapia dopo.

Sono arrivata al Ruolo un po’ per caso, sentivo di avere il bisogno di iscrivermi ad una scuola perché gli strumenti che avevo non mi bastavano più e mi era, ed è, tornata la voglia di studiare, approfondire e incuriosirmi. Allo stesso tempo però avevo mille dubbi: sarei stata in grado di essere continuativa per quattro anni? E se avessi scelto un approccio non adatto a me? Come faccio a sapere che sarà la scelta giusta?

Credo che uno degli aspetti che mi ha portato a iscrivermi al Ruolo sia, per rimanere in tema, la responsabilità che mi è stata data nel momento della scelta. Questo mi ha consentito di poter essere sincera con me stessa e consapevole di aver scelto in prima persona, per un interesse mio e senza la possibilità di crearmi scuse.

Questo primo anno è stato intenso ed è coinciso con alcuni aspetti importanti della mia vita, tra cui, il compiere trent’anni, la decisione di sposarmi e la perdita di mio nonno. La scuola è stata per me fonte di conoscenza, confronto e ispirazione. Ha giocato anche un ruolo nella mia relazione terapeutica perché mi ha permesso di riscoprirmi paziente ed è stato molto faticoso: come si fa ad essere contemporaneamente paziente e apprendista terapueta? Chissà se il mio terapeuta mi porterà in supervisione? Che tipo di paziente sono io?

Mi sono divertita ad interrogarmi su queste domande e ad interrogare anche il mio terapueta e credo che questo sia stato utile alla nostra relazione.

In conclusione, considero l’inizio di questo percorso come l’inizio di una trasgressione: andare oltre i limiti che mi sono creata e permettermi di crescere sia come persona che come futura terapeuta. Credo che la trasgressione faccia parte dell’essere umano e, se compresa, riconosciuta e incanalata in modo costruttivo, possa essere una spinta potente nella costruzione di un equilibrio personale.

Dopotutto, anche Galileo Galilei è stato un trasgressore, giusto?

Anta Saccani

Il Gruppo della Trasgressione

 

Una lunga notte

All’improvviso riapro gli occhi. È ancora buio. In un attimo realizzo che non mi trovo nella mia cella: infatti sono in permesso e quindi stavo dormendo in un luogo estraneo. Tutt’intorno regna il silenzio assoluto; allora che cosa mi ha svegliato? Una sensazione di allarme mi pervade; d’istinto allungo la mano verso il comodino a fianco al mio letto per guardare l’ora sul display del telefonino: è l’una. Nel mentre noto che ho ricevuto, quattro minuti prima, due messaggi; la sensazione di allarme aumenta e viene confermata dal testo dei messaggi.

È Zeno che mi scrive: sua madre l’ha cacciato di casa. Zeno (uso un nome di fantasia per tutelare la sua privacy) è un ragazzo ancora minorenne che sta vivendo un periodo difficile e con il quale mi sto relazionando da qualche mese. Sta vagando, incazzato ma anche un po’ spaventato, per il suo quartiere, che a quell’ora è popolato solo da sbandati in cerca di un surrogato di felicità da consumare a basso prezzo. Il rischio di commettere qualche cazzata è enorme, ma Zeno non ha ancora intrapreso la “strada senza ritorno” perché dentro di sé è consapevole di essere sul ciglio del burrone. Pertanto, dopo averci  riflettuto per un bel po’, dimostrando maturità e una buona dose di umiltà – perché alla sua età è difficile ammettere di avere bisogno degli altri -, decide di contattarmi; ma è quasi l’una di notte e quindi, per non disturbare troppo, invece di telefonarmi mi invia due messaggi, il primo a distanza di un minuto dal secondo. Immediatamente gli rispondo, e così inizia una lunga notte.

La nostra comunicazione  in principio si svolge solo attraverso messaggi; lui si sfoga esternandomi tutto il suo malessere e la difficoltà di rimanere ancorato alla vita che pare gli stia sfuggendo. Le sue parole mi allarmano sempre di più; vorrei andare  a prenderlo, ma non posso uscire di casa perché una delle prescrizioni che mi ha dato il magistrato mi impone di stare a casa dalle 22 alle 7 del mattino seguente. Allora decido, a mia volta, di chiedere aiuto ai miei compagni del Gruppo della Trasgressione.

All’appello risponde prima Eleonora e subito dopo Alessandra: entrambe conoscono Zeno. Chiedo  loro se sono disposte ad andare a prendere Zeno per portarlo da me e immediatamente si rendono disponibili. A quel punto chiamo  Zeno sperando che mi risponda poiché è restio a parlare al telefono. Gli prospetto la situazione e lui, purtroppo, rifiuta  perché non vuole dare fastidio… Naturalmente gli faccio capire che per me è un piacere e aggiungo che è normale dare una mano a un amico. Ma Zeno è irremovibile, mi dice di stare tranquillo perché ha un posto dove dormire: il box di un suo amico. Nel frattempo anche Alessandra ed Eleonora cominciano a comunicare con lui, e così, lentamente, Zeno si tranquillizza. Questa situazione va avanti sino alle quattro, finché lui stesso ci dice che sta meglio e che è il caso che andiamo tutti a dormire… Prima di lasciarci mi dice che l’indomani, o meglio, in mattinata – data l’ora – avrebbe chiesto a suo padre (i suoi sono divorziati) se lo ospitava e che mi avrebbe chiamato per darmi conferma. Alla fine mi saluta ringraziandomi e mi  dice “ti voglio bene”. Queste ultime tre parole, così potenti nella loro semplicità, penetrano nel mio cuore e… mi commuovo.

Alessandra ed Eleonora sono state due alleate preziosissime; insieme abbiamo fatto squadra e siamo riusciti a contenere una situazione che poteva degenerare. Questa è la forza del Gruppo della Trasgressione: poter contare su persone competenti, motivate e disponibili a prendersi cura di chi è in difficoltà. Sono estremamente orgoglioso di far parte di questo gruppo.

Questa vicenda mi ha fatto vivere delle emozioni che non avevo mai provato poiché mi sono trovato a dover svolgere la funzione di genitore, cosa per me nuova visto che non sono padre. Ho potuto toccare con mano cosa può provare un genitore quando è in ansia per il proprio figlio e la gioia che si prova quando sai che è in salvo, anche se non definitivamente.

Naturalmente i problemi di Zeno non sono magicamente scomparsi. Sarebbe stupido illudersi che le problematiche di un ragazzo che ha vissuto un’infanzia difficile, le cui conseguenze si stanno manifestando nell’adolescenza, vengano cancellate con un colpo di spugna. Purtroppo è probabile che si troverà in altre situazioni rischiose, in cui un passo falso potrebbe compromettere in modo rilevante il suo futuro. Pertanto, il nostro dovere di adulti è quello di accompagnarlo in questa complicata fase della sua esistenza, riconoscendolo innanzitutto come persona e infondendogli quotidianamente quella fiducia in se stesso che lo aiuti a non sentirsi inadeguato.

Io sono certo che Zeno ce la farà a non essere risucchiato dall’ambiente criminale: è troppo intelligente per farsi fottere la vita da quegli stronzi che cercano di sedurlo facendogli credere che l’esistenza stessa vada presa a morsi e che il lavoro, l’impegno, la serietà e la responsabilità sono cose inutili da coltivare.

Come promesso, la mattina successiva Zeno mi ha chiamato e mi ha detto, con entusiasmo, che sarebbe andato ad abitare da suo padre.

Abbiamo fatto solo un piccolo passo avanti, ma ciò che conta è che finalmente Zeno si è  incamminato verso la libertà, quella libertà che nasce dai valori di civiltà su cui poggia l’essenza della società e che Zeno dovrà conquistarsi giorno per giorno costruendo, assieme alle persone che fanno il tifo per lui, la piattaforma che gli consentirà di fondare il suo progetto di vita.

Opera, 12 maggio 2017

                  Alessandro Crisafull

Storie

Fiori per la Coop, Paolo e Marisa

Cari amici e compagni del gruppo, durante il confronto avuto il 20/03 mi sono reso conto che siamo chiusi in questo luogo di sofferenza e spesso ci confrontiamo con persone che hanno subito dolori atroci e indelebili come il signor Paolo e la signora Marisa. Quando parlo con loro mi sento trasmettere serenità e amore specialmente dal signor Paolo, che potrei ascoltare per ore.

Io, a differenza di altri compagni, ho un residuo di pena di 3 anni e nonostante ciò sono orgoglioso di frequentare il gruppo della trasgressione perché posso alimentarmi di cose belle che un domani potrò trasmettere a persone al di fuori di questo luogo.

Riflettendo sulla questione della cooperativa, se ci sarà la possibilità, vorrei mettere in atto un progetto di floro vivaista in quanto ho 30 anni di esperienza.

Ribadisco, a me manca poco al fine pena, potrei starmene in cella, ma oggi sono una persona che si sente pronta ad aiutare il prossimo.

Mi ha molto colpito il discorso di andare a parlare nelle scuole in merito alla prevenzione del crimine, ma non scordiamo i femminicidi di amori mancati perché bisogna far capire che il vero amore non uccide.

Io sono pronto a darvi tutto il mio sostegno e supporto, anche lavorativo, per cercare di creare e lasciare all’interno della cooperativa qualcosa per altri detenuti che come me sono caduti. Noi non siamo dei falliti, siamo persone che si sono perse. Occorre forza e determinazione per il nostro cambiamento in persone oneste e costruttive.

Antonio Acampa