Il gelato dell’arroganza

Buongiorno, sono Ignazio. Al gruppo della Trasgressione è un periodo che ci si confronta sui nostri ricordi e sugli inizi della nostra arroganza. Io penso che l’arroganza è nella mente di tutti noi. Ma cosa è l’arroganza? E’ un vanto di sé stessi e disprezzo degli altri.

Sono nato in un paesino della Sicilia e, quando ero giovane, ricordo che per chiedere un gelato usavo quel modo arrogante e chi era dall’altra parte si indeboliva.

Ricordo che il paese era diviso da due categorie di ragazzi ma anche di famiglie. Il modo di fare e la parlata arrogante nutriva il nostro esistere, a differenza di quei ragazzi, figli di genitori acculturati professori, notai ecc., insomma la gente di Piazza che avevano belle case e vicino al comune al centro del paese.

Invece io e i miei compagni vivevamo in un quartiere fuori paese, dove vedevi solo campagna, senza lampioni e senza numero civico, tra i contadini e pastori. Quei ragazzi non sapevano che esisteva il nostro quartiere. Erano obbligati dai loro genitori a fare certe vie e a non frequentarci. A scuola venivano con belle scarpe e bei vestiti, anche con il motorino e con quell’aria che esistevano solo loro.

Anche questa differenza accresceva la nostra arroganza, la coltivava, il non avere fa ingelosire e così si comincia a rubare, a spacciare e a fare omicidi. Questo è il mondo dove la maggior parte dei giovani cresce con la presunzione di poter fare quello che vuole, senza pensare agli altri.

Anche per questo motivo sono stato allontanato dalle braccia di mia madre. Avevo 14 anni, mio fratello maggiore mi portò via, per andare in Lombardia per costruire un futuro. All’inizio non volevo stare a Milano, non c’era più la campagna, quel bel sole, mi mancava l’affetto di mia mamma, i miei amici veri, non ero più libero, stavo chiuso alla sera, non uscivo, avevo vergogna di parlare, paura che mi perdevo, non sapevo bene l’italiano, non avevo amici, uscivo solo con mio fratello per andare in giro col camion a comprare del ferro, quando c’era il padrone, oppure giravamo per rubarlo.

Questo tira e molla di lavoro mi ha fatto conoscere tante gente. Il mio obiettivo, l’essere siciliano e quell’arroganza mi hanno portato a fare strada. Piacevo, ero simpatico, ci sapevo fare con le macchine da vendere, che poi ho trasformato in autodemolizione, credo anche che quell’arroganza che ho usato per crescere sul lavoro mi è stata d’aiuto con i clienti e anche con gli operai per migliorare il senso del lavoro. Però dentro di me cresceva un male: volevo soldi e potere e andare sempre più in alto, non mi accorgevo che ero entrato in un’aria grigia, non vedevo più se era giusto o sbagliato fare certe cose.

Oggi col Gruppo della Trasgressione riesco a parlare, a sentire, a capire la responsabilità del male fatto a quelle persone che non conoscevo, ma di sicuro avranno sofferto per questa mia arroganza, quella di aver fatto rubare tante macchine per vendere i pezzi e ingrandire il mio potere e non pensare agli altri che soffrivano.

Il gruppo ti fa arricchire di sani valori, so che la libertà delle persone non va tolta, la consapevolezza del male fatto serve per una crescita della nostra vita, sia in carcere che fuori dalle mura. Partecipare a incontri dentro il carcere o nelle scuole è utile per noi detenuti, per gli studenti e per i nostri figli. Raccontiamo come si è sviluppata la nostra arroganza e credo che questo può essere d’aiuto a non commettere gli stessi nostri sbagli.

Ignazio Marrone

I Sentieri dell’arroganza

 

Morte dell’autorità e identità deviante

L’arroganza viene definita come un senso di superiorità nei confronti del prossimo, che si manifesta con un costante disdegno e un’irritante altezzosità. Essa si manifesta nella vita quotidiana parlando sopra gli altri, ignorando le opinioni altrui, sminuendo le capacità o i meriti degli altri.

Ma da dove nasce questa caratteristica dell’uomo e quindi di noi tutti? Il gruppo della trasgressione sostiene che l’arroganza, pur se nel tempo potrà diventare una carattreristica individuale, va considerata un tratto della relazione tra il soggetto e la sua autorità di riferimento. Essa, infatti, nasce da una relazione malata tra il soggetto e l’autorità, soprattutto nel periodo dell’adolescenza, tanto più quando il ragazzo si trova a scontrarsi con dei genitori che vive come autorità opprimenti, svilenti e negative.

Da qui l’adolescente interiorizza una figura di riferimento negativa, alla quale si abitua a contrapporsi con arroganza. L’interiorizzazione di questa figura soffocante ha come conseguenza una sfiducia verso tutte le autorità sulle quali il giovane proietta i suoi sentimenti interni e che vede come poco stimabili; questo causa di nuovo comportamenti strafottenti e risposte deludenti o addirittura violente, alimentando un circolo vizioso.

Il giovane vive quindi una situazione ambivalente: da un lato di scontro e di odio verso i propri genitori, perché vuole affermarsi, diventare indipendente, non preoccuparsi del giudizio di questa autorità così opprimente sulla sua autonomia; dall’altro, ha bisogno di una figura solida cui fare affidamento per riuscire nei suoi compiti evolutivi.

Il giovane è combattuto e non sa dove andare a parare e in chi o in cosa riporre la sua fiducia, ed è qui che diventa cruciale l’ambiente e tutto ciò che circonda la sua vita ed è qui che il gruppo della trasgressione trova un legame con il tema della delinquenza: nel gruppo dei pari si trova quella affermazione di sé, quel potere, quel riconoscimento che tanto si stavano cercando.

Chiaro è che, se si cresce in contesti degradati, scivolare verso la delinquenza è una strada in discesa: La conferma del gruppo dei pari in risposta ai primi reati, la rabbia verso i genitori che hanno perso credibilità portano il ragazzo a delinquere, facendolo sentire autorizzato a procedere nel reato e a ricavarne senso di autostima e di potere.

Il tema dell’arroganza viene trattato in diversi ambiti, come letteratura, arte e mitologia, e con alcuni esempi viene più semplice spiegare quanto discusso prima. Il primo esempio può essere il mito di Sisifo, che viene peraltro interpretato dal gruppo in teatro. Questa la sintesi: Sisifo è un giovane adolescente che si sente trascurato dalle proprie figure di riferimento, in lui cresce un senso di rabbia e arroganza che, unita alla sua grande intelligenza, lo porta ad ingannare gli dei per ottenere l’acqua che lui desiderava. Nella mitologia, questo comportamento irriverente e presuntuoso può essere interpretato come una sfida alla volontà divina o come un tentativo di superare i limiti imposti dagli dei, che quindi decidono di punirlo con la famosa fatica di Sisifo.

Altro esempio della mitologia, che spiega bene il tema dell’arroganza e si accosta facilmente all’interpretazione che ne dà il gruppo della trasgressione, è il personaggio di Icaro, il quale dotato delle ali di cera costruite dal padre e accecato dall’entusiasmo e dall’ambizione di volare sempre più in alto, ignora i suoi moniti e si alza sempre più vicino al sole. Di conseguenza, le ali di cera si sciolgono e Icaro precipita in mare. La sua arroganza viene intesa come la sua decisione di ignorare i consigli e gli avvertimenti di suo padre, credendo di essere invincibile e di poter superare le leggi della natura. L’ambizione e il desiderio di provare il proprio coraggio e la propria audacia lo portano alla rovina.

Sulla stessa scia dei precedenti esempi, Dante nel canto XIV dell’Inferno incontra Capaneo, un guerriero greco della mitologia, anche lui noto per la sua superbia e il suo disprezzo per gli dei, infatti è nel girone dei bestemmiatori. L’arroganza del personaggio mitologico era diretta principalmente contro Giove e la sua autorità divina. Capaneo si considerava al di sopra degli dei e si rifiutava di sottomettersi alla loro volontà, sfidandoli apertamente con le sue parole audaci “O Giove, scommetto che nemmeno tu riuscirai a fermarmi!”, così Giove lo polverizza immediatamente con un fulmine. La sua pena consiste nel giacere supino su una pianura di roccia bruciante sotto una pioggia di fuoco e, mentre è tormentato dalle fiamme, emette urla di dolore e bestemmie contro Dio. Il dannato non è ateo, anzi riconosce la presenza di Dio, ma gli si vuole opporre perché crede soltanto nel proprio valore e nel proprio coraggio, proprio come l’adolescente che si ribella alle figure genitoriali.

In conclusione, quando l’adolescente perde fiducia nelle sue figure di riferimento, in lui nasce un sentimento di rabbia e cresce l’arroganza; i genitori di fronte a questo atteggiamento di sfida tendono sempre meno il braccio della protezione e del contenimento e questo alimenta sempre più i il dolore e la sfiducia dell’adolescente.

Egli, non riuscendo a governare questi sentimenti in modo corretto, reagirà al lutto dell’autorità perduta cercando una compensazione nel gruppo dei pari che, se è a sua volta caratterizzato da delusioni, rabbia e arroganza, porterà il giovane a intensificare la sua condotta delinquenziale e a cristallizzarsi nella propria identità deviante.

Benedetta Comoglio

I Sentieri dell’arroganza

In carcere con i minori, rabbia e apatia

Dal Corriere della sera on line del 24/04/24

               I Sentieri dell’arroganza

Icaro e Panagulis

L’arroganza è presente in ognuno di noi, in qualche modo rende possibile affermare la nostra identità, permettendoci di vivere con gli altri. Una giusta dose è quindi necessaria alla convivenza con gli altri, è come una spinta che permette di credere in sé stessi, nelle proprie facoltà e capacità di agire in un mondo sempre più mutevole e incerto.

Ma è possibile stabilire un limite entro il quale contenere un’arroganza sana, “normale” e quindi adattativa? Quando si può parlare invece di un’arroganza non socialmente accettabile, in questo senso quindi non addomesticata?

Credo che il confine fra le due tipologie di arroganza venga oltrepassato quando un soggetto viola la libertà altrui, provocando nell’altro un malessere, sia esso psicologico o fisico. In questo caso, infatti, l’arroganza non è più motivata dal desiderio di essere riconosciuto come soggetto o di affermare le proprie istanze, ma diviene un metodo per attuare un sopruso. È adoperata per dominare l’altro, imporre le proprie idee e la propria volontà, sfruttando l’altro come un mezzo per raggiungere i propri fini e senza riconoscergli la dignità di persona.

Durante il periodo dell’adolescenza è una problematica che diventa centrale, infatti l’adolescente, in quanto essere in divenire, prova un grande bisogno di affermare la propria identità. Per far questo spesso può assumere un atteggiamento arrogante nei confronti dei genitori, degli insegnanti e dell’autorità in genere.  Queste manifestazioni di arroganza possono in alcuni casi anche sfociare in atti di violenza e di aggressione qualora questa autorità venga percepita come respingente o ingiusta.

È possibile, inoltre, riconoscere nel fenomeno del bullismo, una delle manifestazioni di arroganza più comune fra i ragazzi. In questi casi, ci si nasconde dietro una maschera per celare la propria reale fragilità e insicurezza.

In questo senso vorrei far riferimento al mito di Icaro, il quale riceve le ali con penne di uccello, sigillate alla schiena con la cera da Dedalo. Il padre gli fa una raccomandazione, quella di non allontanarsi troppo da lui e di non avvicinarsi troppo al sole, per evitare che si sciolga la cera delle ali. Icaro però, affascinato dal sole, si dimentica dell’ammonizione del padre e precipita in mare. Egli ha voluto volare più in alto, pensando che niente potesse arrestarlo e questo atteggiamento diventa la causa della sua rovina. Pensava di essere più saggio di suo padre e di essere invincibile, ma così facendo porta danno a sé stesso e a coloro che lo circondano.

La sua vicenda conferma che la sensazione di potere inebria fino a illudere di essere portatori di qualità superiori e che nessuno può eguagliare.

Per sviluppare la tematica in un’altra direzione, vorrei anche esaminare il rapporto fra suddito e tiranno, dove si vede l’ambiguità dell’arroganza e la sua difficile categorizzazione. Per parlare di ciò, farò riferimento alla storia di Alexandros Panagulis, politico, rivoluzionario e poeta greco da cui è tratto il libro “Un Uomo”.

Egli nel 1968, nel periodo in cui la Grecia cadde sotto la dittatura di Papadopulos, decise di opporsi attentando alla vita del tiranno a capo del regime. Il tentativo però fallì e venne condannato a morte, successivamente ricevette un’amnistia e venne incarcerato per svariati anni. Durante questo periodo fu sottoposto a torture indicibili, negli ultimi anni addirittura gli fu assegnata una cella a forma di tomba per evitare ulteriori tentativi di fuga e per punirlo per le sue continue ribellioni. Egli, infatti, durante il periodo di carcerazione continuò a sfidare il potere costituito, servendosi del suo grande intuito e della sua capacità di infastidire coloro che lo seviziavano. Continuò a lottare per guadagnarsi la libertà, motivato ad affermarsi come individuo in una società fondata sul principio del sopruso e della sopraffazione. Per farlo si servì quindi della violenza, però ciò che lo muovevano erano gli ideali di libertà e di lotta contro un potere ingiusto.

In questa storia possiamo osservare due tipi di arroganza, quella di Aleksandros e quella dei carcerieri e del tiranno. La prima è però un’arroganza mossa da alti ideali, il suo fine ultimo era quello di liberare il popolo greco dal giogo del tiranno. Dall’altro lato abbiamo un sistema creato appositamente per dominare il popolo servendosi del potere militare praticando la violenza verso qualsiasi suddito provi a sfidarlo. Questi sudditi sono quindi agli occhi del potere uomini senza volto e senza dignità.

Possiamo quindi notare che l’arroganza è un tema complesso, che vale la pena studiare da svariate angolazioni, senza dare per scontato che essa riguardi solo chi è malato, asociale e tale da dovere essere punito senza ulteriori domande.

Gaia Mariani

I sentieri dell’arroganza

Stava sul podio

Stava sul podio come
un dio onnipotente
con sguardo duro ma
non lungimirante.

Pensava al domani ma
non al futuro e niente
e nessuno gli faceva
paura.

La sua corazza
non era la forza si circondava
di ceffi e cafoni.

Il suo carisma non dimorava
nel cuore era tutta
apparenza e niente sostanza.

Un pallone gonfiato di
boria inetta.

Dentro sé stesso un
castello di carta.

Un pusillamine senza
virtù cantava le gesta
di eroi del passato che
come fantasmi vedeva
la notte.

Di giorno vantava potere
e ricchezza con l’arroganza
di chi sa già tutto.

Altero e superbo oltre
misura si guarda allo specchio
con supponenza.

Il riflesso rimandava l’ego
di un misero uomo mortale.

Francesco Musitano

I sentieri dell’arroganza

Tra l’ospedale e Delitto e Castigo

Dott Aparo, scrivo questa sorta di accompagnamento allo scritto non per giustificarmi ma per chiarire alcune cose. Ne approfitto anche per scusarmi di non essere sceso al gruppo ma ho dolori a tutte le ossa, in più la mia vena polemica è abbastanza amplificata rendendomi più antipatico del solito.

Allora, prima di andare in ospedale Nunzio Galeotta ha iniziato a stressarmi come al solito, dicendomi che avrei potuto sfruttare il tempo che avrei trascorso in ospedale per fare uno scritto.

“Stai là, tanto vale che impegni il tempo per fare uno scritto, magari per le scuole”. Gli ho risposto che non era cosa, dato che dal periodo di Natale vivo un forte conflitto con mio figlio, per cui non mi sentivo di scrivere ai ragazzi delle scuole. Allora lui mi fa: “va bene, allora scrivi qualcosa sul mito di Sisifo, oppure su Delitto e Castigo, tanto sono argomenti che tratteremo, per cui tornerà sempre utile”.

Non so perché,  ma ho una specie di repulsione verso il mito di Sisifo… non mi entra in testa in alcun modo. Dopo nemmeno 10 minuti il mio cervello in automatico cancella tutte le informazioni sul tema rendendomelo quindi antipatico!

Non restava quindi che trattare Delitto e Castigo. Ma in ospedale le cose non sono andate in modo tale da permettermi di avere la “serenità di scrivere”, oltre alla mia riluttanza proprio nell’atto pratico. Quando sono ritornato me lo sono pure dovuto sciroppare, in quanto Nunzio mi rimproverava del fatto che in 24 giorni non ero stato in grado di scrivere nemmeno degli appunti da poter usare più avanti.

E così, appena rientrato dall’ospedale, è tornato alla carica, dato anche che l’ultimo convegno era incentrato proprio su Delitto e Castigo.

Tutto questo è per dirvi: Caro Prof, è inutile che mi fate quelle guardate come a dire “ma che scendi a fare se non hai niente da dire?”. 

Ho già lui che mi stressa, non vi ci mettete pure voi.

Antonio Antonucci


Se dobbiamo fare una sorta di analisi del testo non possiamo non dire che è un MATTONE… è complesso non solo nei termini, ma anche nel farsi seguire come narrazione! Almeno per me!!

Anzi, se penso alla spiegazione del Dott. Cajani che ci accompagnava nel racconto, allora dico che è normale che oggi la gente preferisce ascoltare i libri anziché leggerli.

Ci sono diverse analogie con il personaggio di Raskol’nikov che si possono evidenziare; in più credo che un titolo e una storia così, abbiano motivato a  riflettere molti di noi del gruppo “interno”.

In primis è il DELITTO, la privazione della vita, il sentirsi letteralmente superiore all’altro, tanto da poterne decidere il destino, quindi certamente in linea con la maggior parte di noi, che abbiamo fatto parte di associazioni di stampo mafioso. Stavamo attenti a restare impuniti, proprio come Raskol’nikov con il suo delitto perfetto. Peccato però che poi non sia andata così!

Poi altre riflessioni più personali, per esempio il personaggio del giudice istruttore che mi ha fatto ripensare al mio P.M. ai tempi del “minorile”, il quale per aiutarmi mi faceva prendere il minimo della pena, addirittura facendo derubricare reati, diventando quasi difensore e non più accusatore. Il giudice istruttore capisce la colpa di Raskol’nikov, ma comunque non lo arresta subito, anzi cerca di fargli ammettere le proprie responsabilità. Questo avviene anche grazie al sentimento che nasce tra il protagonista e Sonia, una prostituta (costretta a farlo per sfamare la famiglia), che per amore lo costringe a guardarsi dentro.

Anche qui vedo un’analogia in quanto il primo accenno di cambiamento l’ho avuto quando la madre di mio figlio è entrata nella mia vita ricoprendo un ruolo importante, appunto come Sonia nel romanzo di Dostoevskij.

La figura dell’uomo “superiore” al quale tutto è lecito , tutto è permesso, ma anche la stessa convinzione di uscire dalla miseria; è vero, l’usuraia è una donna perfida che sfrutta la disperazione altrui, ma la sorella è stata uccisa, nonostante non avesse niente a che vedere con queste cose. Una “vittima collaterale”, come le tante che hanno prodotto una parte di noi che siamo seduti a questo tavolo.

Volevo dire qualcosa anche sugli oggetti portati dal Dott. Cajani, ma adesso non me ne viene in mente nemmeno uno.

Ultimamente ho problemi di memoria, oltre ad avere i “pensieri confusi, a guerr n’cap”, però l’ultima analogia la voglio scrivere, perché riguarda il Professor Aparo. Secondo me, può essere associato alla figura della prostituta… vi prego dall’astenervi nel fare sorrisini e battute fuori luogo. Può anche essere associato alla figura del giudice. Entrambi questi personaggi entrano in relazione con l’aspetto psicologico del protagonista, inducendolo, in modi diversi, al confronto con se stesso.

Antonio Antonucci

Delitto e Castigo

La voce del masso

Il mito di Sisifo nasce da un’idea del nostro coordinatore, il dottor Aparo, il quale ha messo in evidenza l’intreccio tra la nostra rappresentazione del mito e le vicende personali di noi detenuti del gruppo della Trasgressione.

Sisifo, re di Corinto, pressato dal suo popolo che è rimasto senza il bene prezioso dell’acqua (anche a causa di una serie di sprechi), chiede aiuto al dio delle acque fluviali, Asopo. Quest’ultimo, inizialmente, non ha alcuna considerazione per il re e, dall’alto della sua superiorità, rifiuta anche il mero contatto fisico.

Ma Asopo si troverà costretto, suo malgrado, a sottostare alla richiesta del re di Corinto, essendo Sisifo l’unico che può fornirgli informazioni su sua figlia Egina. La ragazza, infatti, dopo un brutto scontro col padre, era scappata di casa, arrabbiata contro Asopo, che si disinteressa del suo lavoro e ha verso la figlia un atteggiamento autoritario e superficiale, senza rendersi conto che quei comportamenti hanno azzerato la sua credibilità e la fiducia di Egina nei suoi confronti.

La ragazza, in preda a un distruttivo sentimento di rivalsa e di contestazione nei confronti del padre, vada per il bosco di Corinto, dove viene avvicinata da Giove, re dell’Olimpo, che la invita a partecipare ad uno dei tanti “festini” organizzati apposta per soddisfare la sua smania di potere.

Sisifo, venuto a conoscenza di ciò, sfrutta la cosa a suo vantaggio, mettendo però in atto la stessa arroganza, la stessa sete di potere che aveva a sua volta subito. Nonostante abbia già ottenuto da Asopo acqua in abbondanza in cambio delle informazioini sulla figlia, Sisifo umilia il dio dell’acqua, costringendolo a inginocchiarsi e riservandogli lo stesso trattamento che egli aveva subito fino a poco prima.

Tutto ciò, non può essere accettato da Giove, il quale non accetta che un comune mortale metta in atto tali comportamenti. Il re dell’Olimpo chiama il fratello Ade e gli ordina di mandare il Dio della morte a catturare Sisifo per farlo giustiziare.

Sisifo però riesce a farsi beffe anche di Thanatos, che, in preda ad una crisi di coscienza, non vuole più accettare il ruolo di killer. Sisifo ne approfitta, lo ubriaca, lo lega e fugge.

Giove, di fronte a questo ennesimo oltraggio alla autorità degli dei, condanna Sisifo, non più alla morte, bensì alla vita eterna, imponendogli come punizione che egli spinga perennemente un grande masso su per una montagna per il resto della sua esistenza.

Lo sforzo è immane, ma con il tempo Sisifo si renderà conto che quel masso non è altro che la sua coscienza non ascoltata, la quale adesso si manifesta con insistenza. Sisifo capisce che mentre ascolta il masso e ne intende le ragioni il suo fardello diventa meno opprimente.

L’arroganza di Sisifo, mi fa pensare alla stessa arroganza che ha condizionato la mia vita “esterna”:  il sottrarmi volontariamente alle regole e il delirio di onnipotenza mi hanno fatto sentire in diritto di decidere anche della vita delle persone con una evidente inumanità.

Grazie al gruppo della trasgressione, oggi ho una discreta capacità di analisi che mi permette di avere una revisione critica nei riguardi dei comportamenti scellerati da me adottati anche dopo il mio arresto.

Fortunatamente per me, ma anche per la società che tanto ho contribuito a degradare, il masso ha iniziato a farsi sentire.

Antonio Antonucci

Il mito di Sisifo

Il credito

Un credito, qualcosa che sentiamo ci sia stato tolto e pretendiamo ci sia ridato. Io. Tu. Stefano a cui è morto il fratello, poi il padre e che ha trovato rifugio nella droga. Marisa a cui la Sacra Corona unita ha portato via la figlia.

Ognuno di noi in questa stanza, in qualche momento, si sente creditore. Il debito è spesso d’amore, il debitore non sempre chiaro. A volte chiarissimo ma non escutibile e il credito insaldabile. In questi casi cosa si può fare? Chi lo deve pagare il mio credito?

Secondo Fabio, Giuseppe, Salvatore e gli altri detenuti questo credito per tutta la vita è stato visto come un qualcosa di non compensabile. Tutti loro odiano il padre che li ha abbandonati o che gli ha fatto mancare tutto quello che gli altri avevano. Hanno iniziato a delinquere perché questo credito qualcuno lo doveva pur pagare. Alla fine, lo hanno pagato loro. E lo stanno pagando tutt’ora dall’interno delle mura del carcere di Bollate.

Come dicevo anche Marisa ha un credito: sua figlia tossicodipendente, dopo una vita di abusi, ha tentato di collaborare con le istituzioni raccontando tutto ciò che aveva visto in sette anni. Quelle stesse istituzioni non sono riuscite a salvarla da chi la voleva far tacere. Marisa, davanti a quelli che il loro credito hanno provato a riscattarlo a danni di altri, ci racconta commossa come lei il suo credito continua a saldarlo giorno dopo giorno nelle carceri, a contatto con i detenuti che abbraccia e accoglie tutti. Così come Paolo, che non si dilunga sulla sua storia, già nota, ma, come Marisa, ci invita a riflettere su come è meglio viversi questo credito, in particolare su quanto quel credito che ognuno di noi crede di avere sia oggettivo e quanto invece sia solo una maschera che cela abusi dai quali ci si vuole deresponsabilizzare.

Un libro, I fratelli Karamazov, è al centro della nostra ricerca e forse ci può aiutare a rispondere ad alcune domande su questo credito, la mia ricerca personale, che si affianca alle ricerche di tutti gli altri presenti nell’Aula Dostoevskij, riguarda il ruolo della società in tutta questa faccenda del credito.

I quattro protagonisti del romanzo Dmitrij, Ivàn, Aleksej e Smerdjakov non sono in aula con noi mentre parliamo, ma è come se lo fossero, Salvatore a un certo punto dice infatti “A me nella vita è capitato di essere quattro fratelli in un solo uomo: come Dimitrij ero arrabbiato con mio padre, come Ivan non ho creduto, come Smerdjakov ho ucciso e come Aleksej alla fine mi sono rifugiato nella fede”. A questo punto il libro, diventa per noi subito un capolavoro, proprio perché lo stiamo leggendo insieme, all’interno del teatro di Bollate. Mi accorgo di questa fortuna quando torno a casa e racconto al tavolo della cena del primo incontro di questo progetto a cui sto partecipando e mia sorella mi dice “ma come fai a guardare in faccia una persona che ne ha uccisa un’altra”. Mi accorgo anche di quanto è difficile spiegare che dietro ad un fatto di reato c’è un uomo e che dall’azione deriva sicuramente una responsabilità penale, ma quell’uomo non è racchiudibile in quel fatto, c’è molto di più. Penso allora che probabilmente mia sorella se avesse letto il romanzo avrebbe, nel suo cuore, subito condannato Smerdjakov, uccisore materiale del padre, negandogli forse addirittura di parlare per spiegare, per lo meno, quale fosse il credito che sentiva di dover compensare in qualche modo. Le dico semplicemente che deve venire assolutamente a vedere con i suoi occhi, mi dice che ci sarà all’incontro di restituzione. Il 9 marzo è presente a Bollate all’incontro di restituzione e all’uscita mi dice solo “ho capito, grazie”.

A questo punto so di aver partecipato a qualcosa di importante e forse mi do anche una risposta alla domanda con cui ho iniziato questa ricerca: il ruolo della società in tutta questa faccenda del credito è innanzitutto riconoscere che un credito esiste. Se poi il credito viene riscosso in modo sbagliato e il creditore diventa debitore e si ritrova a dover giustamente rispondere delle proprie azioni, a volte parte della colpa è della stessa società che non è stata in grado di fornire gli strumenti o dei giusti modelli al creditore. Determinata la responsabilità per fatto di reato e nell’esecuzione della pena, il ruolo della società diventa quello di evitare lo stigma che ci impedisce di vedere e soprattutto riconoscere dietro il fatto più o meno grave un uomo, proprio come tutti noi. Questa è la missione più importante della società e ciò che consente alla nostra Costituzione di non restare lettera morta quando al suo articolo 27 comma 3 ci dice che le pene devono tendere alla “rieducazione”, meglio risocializzazione del condannato.

Maria Valenti

I Conflitti della famiglia Karamazov

E’ ben strano tutto questo, Karamazov

«E’ ben strano tutto questo, Karamazov: tanto dolore, e poi ad un tratto saltano fuori con codeste frittelle! »

F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, epilogo 

 

18.4.1964/24.6.1987/5.4.1990: in ricordo di Marcella Di Levrano e di tutte le altre vittime della criminalità organizzata

 “Oggi ha guardato sotto la sua camicia
e c’era una ferita nella carne, così profonda e larga.
Dalla ferita un fiore splendido cresceva
da qualche posto in profondità.
Si voltò a fronteggiare sua madre
per mostrarle la ferita

che nel petto gli bruciava come un marchio a fuoco.
Ma la spada che lo aveva squarciato
stava nelle mani di sua madre.

 […] Anche se la spada era la sua difesa
era la ferita stessa che gli avrebbe dato forza.
La forza di riplasmarsi nel momento della sua ora più buia.
«La ferita ti darà coraggio e dolore» gli disse
«Quel tipo di dolore che non puoi nascondere»

E dalla ferita un fiore splendido cresceva
da qualche posto in profondità.

Ogni giorno un altro miracolo
Solo la morte ci terrà separati
Nel sacrificare una vita per la tua
Sarei il sangue del cuore di Lazzaro”

Sting, The Lazarus heart

I Conflitti della famiglia Karamazov

Si può combattere l’arroganza?

L’etimologia della parola arroganza è da ricondursi al latino arrogare, formato dalla particella rafforzativa ad- e dal verbo rogare cioè chiedere. Pertanto, arrogante è colui che chiede con insistenza, con presunzione, con altezzosità, spesso anche attribuendosi indebitamente  più ragioni o più diritti di quanti effettivamente ne abbia.

Tralasciando il fatto che secondo la psicologia ciò che genera l’arroganza, di base, è proprio un’insicurezza, quindi in realtà qualcosa di negativo, si può considerare l’arroganza come qualcosa di sbagliato? Come possiamo categorizzare emozioni, sentimenti, atteggiamenti? Chi può decidere cos’è giusto e cos’è sbagliato? Chi crede di potermi dire che non avrei dovuto arrabbiarmi per un atteggiamento che mi ha ferita? Qual è il limite della mia reazione?

Purtroppo non esiste un libretto informativo formato tascabile che categorizzi le cose sbagliate e le cose giuste, ma esiste un principio, che volge proprio a tutela di queste situazioni ed è il principio della libertà. Ma anche da questo punto di vista, cosa possiamo considerare libertà? A chi dovrei affidarmi per sapere l’effettivo significato pratico di questa? Aristotele, Cartesio, Hegel, Marx, Kant, Hobbes, 1000 filosofi che dicono tutti cose diverse, che quindi ti portano o all’indifferenza riguardo la questione, o ancora, all’arroganza. “Io sono un uomo libero e allora ho il diritto di fare quello che voglio”. No sei solo un uomo arrogante!

La sottile linea che separa la libertà, dall’arroganza, è l’altro, Martin Luther King diceva “la mia libertà finisce dove inizia la vostra” e nonostante non sia stato citato tra i grandi filosofi che parlano di libertà dell’uomo, forse è l’unico che ci ha capito realmente qualcosa.

La vera problematicità dell’arroganza sta nella libertà di attribuirsi dei diritti che non sono miei diritti, e che in qualche caso è anche ridicolo chiamare “diritti”, perché come può definirsi diritto la morte, la sofferenza o il terrore. Come può un uomo avere la libertà di credere di poter uccidere un’altra persona, o meglio di avere il diritto di farlo? Questa è la vera arroganza.

Ma come possiamo pensare di sconfiggere atteggiamenti arroganti, se dall’altra parte del mondo ci sono intere popolazioni che coltivano da decenni l’arroganza come un qualcosa di normale? Come posso giudicare una persona come arrogante se in America esiste ancora la pena di morte? Se Putin è stato rieletto con i militari armati fuori dalle urne? Se Israele commette un genocidio solo perché ne ha subito uno?

Come si può combattere l’arroganza, in una società in cui l’arrogante è quello che vince e non quello che perde?

Andrea Lucanto

I sentieri dell’arroganza