Gli intrecci della famiglia Karamazov

“I fratelli Karamazov” è un libro di Fëdor Dostoevskij, autore russo vissuto nell’Ottocento e di importanza internazionale. Vi si narra la storia dei quattro fratelli Karamazov e del loro complesso rapporto con il padre Fëdor.

A ben guardare, le difficoltà emergono nei rapporti con la figura paterna in generale, non solo con il loro comune padre biologico. Ciascuno dei quattro fratelli, infatti, per fuggire ora dall’insofferenza nei confronti di un padre inconsistente, ora dalla rabbia verso un padre volontariamente deludente, si rifugiano ciascuno nella ricerca di una figura che possa sostituirlo.

Dmitrij è il primogenito, figlio della prima moglie di Fëdor Karamazov, ed è il più apertamente in conflitto col padre. Che sia a causa di denaro, dell’amore per la stessa donna o dell’affetto mai ricevuto dal padre stesso, i conflitti con quest’ultimo sono sempre accesi. Burrascoso, facilmente violento e senza freni inibitori, Dmitrij è forse il figlio che ha il rapporto più “sano” col padre, proprio perché non nasconde la propria aperta e profonda avversione nei suoi confronti.

Ivan, secondogenito e figlio della seconda moglie di Fëdor Karamazov, è il fratello intellettuale. Si dedica alla scrittura e a ragionamenti sui massimi sistemi, pur di sfuggire alla brutalità della realtà materiale. Non a caso, le sue riflessioni più dolorose riguardano proprio la fede e Dio, cioè quanto di meno materiale ci sia. Ivan cerca disperatamente una figura paterna che possa sostituire Fëdor, ma per Ivan Dio non si comporta in modo adeguato o semplicemente non esiste. Ivan si rifiuta di accettare un disegno superiore di bene in cui possa rientrare il dolore degli innocenti, così, pur rinunciando all’idea di eternità, cerca riagganciare l’amore e l’idea di amore per l’uomo in quanto tale. I conflitti di Ivan col padre sono perlopiù interni e non sempre esplicitati, ma non per questo meno intensi.

Alëša, figlio della stessa madre di Ivan, è il fratello minore. Viene presentato come quello più in pace con sé e con il padre, ma ciò è dovuto unicamente al fatto che non riconosce più Fëdor come il suo vero unico padre. Non soltanto, infatti, è interamente proiettato nella dimensione spirituale della fede (riconoscendosi quindi innanzitutto figlio di Dio e non di Fëdor), ma si è anche totalmente affidato allo starec Zosima, guida spirituale che supplisce egregiamente alle mancanze del vero padre di Alëša. Egli, in apparenza più risoluto e disteso nei suoi rapporti con chi e quanto lo circondano, riesce in ciò solo tentando di fuggire dai conflitti del mondo. Inizialmente rinchiusosi in monastero, sarà grazie allo starec Zosima che inizierà realmente a vivere il e nel mondo, con una buona parte dei conflitti interiori che ciò comporta.

Smerdjakov è l’ultimo dei fratelli Karamazov, figlio illegittimo e non riconosciuto di Fëdor, avuto da una donna che viveva per strada e morta di parto. Nato (letteralmente) in una latrina, cresciuto da uno dei servi di Fëdor ed educato ad essere tale, cioè al servizio del padre e poi dei fratelli, soffre di epilessia ed è la figura più oscura tra i quattro. Si tratta del figlio nei cui confronti il padre e la vita hanno il debito più consistente, ma che, nondimeno, sembra riuscire a mascherare meglio o a convivere apertamente con il suo stabile disagio nei confronti del mondo intero. Sarà proprio lui l’assassino del padre e morirà suicida.

Il romanzo contiene al suo interno narrazioni e riflessioni che avrebbero potuto costituire libri autonomi, come “Il Grande Inquisitore”, poema scritto da Ivan.

“I fratelli Karamazov” è la storia dei complessi e dinamici intrecci tra i membri della famiglia Karamazov, che guidano anche i loro rapporti con tutte le figure circostanti, ognuna delle quali resterà, in misura diversa, incastrata in tali nodi e intrichi. Le complessità dei rapporti umani, il peso della responsabilità collettiva, il senso di colpa dovuto non ad atti ma a intenzioni, il peso e il dolore della fede e dell’assenza di fede, la difficoltà di intendere cosa sia e come vivere la libertà, l’elaborazione di dolori diversi per origine e intensità, l’inquietudine del dubbio. In questo romanzo c’è proprio tutto.

Elena Tribulato

I Conflitti della famiglia Karamazov

Sisifo, l’adolescente, l’autorità

Dagli incontri su “i percorsi dell’arroganza”
Appunti di Olivia Serio

Nell’uso comune del termine, quando si parla di arroganza si fa riferimento ad un tratto individuale: si definisce arrogante una persona prepotente, che si crede migliore degli altri o che indossa una maschera per nascondere la propria fragilità.

È possibile e utile, però, inquadrare l’arroganza in termini relazionali, in particolare, come tratto caratterizzante una comunicazione conflittuale tra il soggetto e la sua autorità di riferimento, tratto che diventerà facilmete nel tempo una modalità distintiva della comunicazione tra il soggetto e l’immagine dell’autorità che egli ha interiorizzato.

Il tratto dell’arroganza emerge spesso in modo dirompente durante l’adolescenza, periodo in cui l’autorità con cui il soggetto si confronta è prevalentemente quella genitoriale: il ragazzo ha bisogno di affermare a sé e al mondo la propria indipendenza, di emanciparsi, ma, al contempo, ha la necessità di sentirsi protetto e di interfacciarsi con una guida credibile che lo supporti nella crescita.

L’adulto può rispondere in modi diversi alle azioni del ragazzo: quando quest’ultimo si confronta con un’autorità respingente, non in grado di rispondere al suo bisogno di protezione e di essere accompagnato nel suo percorso di crescita e di affermazione di sé, si consolida l’arroganza. 

In una situazione di questo tipo l’autorità inizia ad essere vista come un persecutore, l’adolescente si carica di rabbia e, nella fantasia più o meno fondata di dover lottare per ottenere il riconoscimento della propria identità e del proprio valore, trasforma la propria rabbia in arroganza. Questa potrà poi essere diretta verso l’interno, provocando danni a sé stesso (come nel caso, ad esempio, dell’autolesionismo o della tossicodipendenza), oppure verso l’esterno, aprendo la strada al comportamento anti-sociale e all’abuso.

Quando l’adolescente si sente respinto dall’autorità, egli è indotto a soddisfare il proprio bisogno di appartenenza e di essere riconosciuto altrove, tendenzialmente nel gruppo di pari: soprattutto per chi cresce in contesti degradati, diventa quindi facile che l’emergere dell’arroganza porti a commettere reati e, di conseguenza, a ridefinire la propria identità in termini di “persona autorizzata a commettere abusi”. 

Il tema dell’arroganza e del suo divenire è quindi strettamente legato sia al periodo dell’adolescenza, sia al tema della delinquenza. La centralità di questo tema è rintracciabile in numerose opere d’arte, nella letteratura, nella musica, nella mitologia, e può quindi essere utile rivolgersi a tali opere per riflettere sui diversi possibili modi di porsi nei confronti dell’arroganza e di elaborarla.

Si può fare riferimento, in tal proposito, al mito di Sisifo e alla elaborazione teatrale che ne ha realizzato il Gruppo della Trasgressione: Sisifo è un adolescente deluso e arrabbiato, che si sente abbandonato dall’autorità, trascurato e respinto da chi avrebbe dovuto proteggerlo. È proprio in conseguenza a questo senso di abbandono che emerge l’arroganza del giovane re di Corinto, il quale non si accontenta più di ottenere l’acqua di cui aveva bisogno per risolvere il problema della siccità che sta distruggendo la sua città, ma pretende che Asopo, divinità delle acque fluviali che ha trascurato il proprio dovere verso la città, venga umiliato e sottomesso.

Sisifo, nella rappresentazione teatrale che ne viene fatta dal Gruppo della Trasgressione, è un adolescente come molti altri, le cui caratteristiche trascendono il tempo e lo spazio, e che può essere ben utilizzato per riflettere su questi temi: come molti giovani, si sente abbandonato dall’autorità, e ciò lo porta a sviluppare un senso di rivalsa e di aggressività, a usare la violenza per ottenere ciò di cui ha bisogno e a sentirsi in diritto di squalificare l’autorità e persino di umiliarla.

I percorsi dell’arroganza

Libertà fa rima con responsabilità

Desidero ringraziare di cuore chi mi ha dato la possibilità di prendere la parola durante la serata del 9 marzo: per me è stato un onore poter offrire uno spaccato, a nome di tutti i partecipanti al progetto, di quanto fatto in occasione dei nostri incontri.

Inizialmente ho pensato sarebbe stato davvero difficile restituire, in una sola serata, un lavoro di cinque giornate. Invece, penso che la restituzione si sia svolta in maniera efficace dando voce a persone che, nonostante le diverse esperienze professionali e di vita, sono accomunate dalla voglia di riflettere in ordine ad un tema comune e, soprattutto, legate da un unico comun denominatore: il rispetto per l’uomo in quanto tale.

Una domanda cui non riuscivo a trovare risposta all’inizio ma alla quale – grazie a questo meraviglioso percorso di scoperta dell’altro e di noi stessi – penso di poter rispondere ora, è la seguente: “Cosa significa per me libertà?”

Per me libertà significa “scelta responsabile”. Da oggi e per il futuro voglio scegliere, responsabilmente, di non accontentarmi della risposta più facile e conveniente, ricercando la mia verità. Mi impegno, inoltre, a cercare di condividere questa mia verità con chi ancora crede si possa distinguere rigidamente tra chi è dentro e chi è fuori, tra i detenuti e la società libera, tracciando una linea netta tra buoni e cattivi, aiutando l’altro a cogliere le sfumature.

Margherita Viglione, studentessa della Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Rimettere il debito per guadagnare libertà

Vi scrivo per ringraziarvi per la bellissima visione dello spettacolo presso il carcere di Bollate, e tramite voi ringraziare anche e soprattutto le persone detenute, l’organizzazione del carcere, i membri della vostra associazione, i ragazzi universitari e i rappresentanti di magistratura e camere penali, i quali – con la loro partcipazione – hanno reso possibile l’evento.
Vi ringrazio anche come padre perché avete dato a mia figlia, Maria Bianca Valenti,  studentessa di giurisprudenza e scout, la possibilità di fare una bellissima esperienza nel gruppo di ricerca.

Aggiungo una breve riflessione sulle cose dette, che in sé  mi sono sembrate indimenticabili. Questa riflessione è nelle cose stesse che avete detto, non aggiungo nulla, salvo forse un punto alla fine.

  • Se ho capito bene, noi esseri umani ci inoltriamo nella strada che giunge al delitto quando in noi sorge l’idea di avere un credito nei confronti del nostro prossimo e dei mondi che ci circondano (aristotelicamente: famiglia, padre, madre, fratelli e sorelle, servi, vicinato, ‘polis’, popolo, stato,…).
  • L’idea di ‘avere un credito’, può sorgere in seguito ad accadimenti e sofferenze profonde che stravolgono il cuore umano (‘voglio riparazione’), o  al contrario può sorgere nel vuoto sterile dell’intelligenza (‘voglio realizzare la giustizia’) e persino nel e per il godimento dell’agiatezza (‘voglio di più’).
  • L’essere creditori e questa strada  su cui ci siamo inoltrati, ‘colorano’ il nostro essere nel mondo e gli incontri che facciamo: tutto ciò che ci viene incontro è sotto la volta celeste del nostro ‘credito’: tutto e tutti sono ‘debitori’. Da quel momento, nel tempo dell’avere un credito, tutto accade sotto l’insegna della domanda (rabbiosa, o vendicativa o bramosa): “chi sono, dove sono i miei debitori?”. Il delinquente risponde sempre: ‘eccoli i miei debitori: mio padre dissoluto e indegno, mia madre debole e incapace di difendermi e darmi ciò che chiedo, il mio vicino di casa che mi guarda di traverso,il portiere,  il parroco, i passanti, i ricchi, i politici, Dio che non ha pietà di me, etc.’
  • Una volta sorta l’idea di avere un credito, può venire intrapresa la strada che porterà al delitto, strada lungo la quale tutti ci si presentano come debitori … dunque quando e perché commettiamo il delitto? Lo commettiamo quando nell’aula del tribunale del nostro cuore e lungo la strada del crimine ad un certo punto ‘emettiamo la sentenza di riscossione del credito’ e la eseguiamo seduta stante. E’ in questo senso che il dr Aparo penso abbia detto che il delinquente commette il crimine per un senso di “giustizia”, per riequilibrare la bilancia tra credito e debito.
  • Al di là del cercare le prove del crimine, il crimine stesso è la prova del percorso che lo ha generato. Sorge un paradosso, cui penso il dr Aparo accennava: l’imputato qualora fosse ‘colpevole’ dovrebbe essere alla fine del processo ‘togato per essersi erto a giudice e per avere emesso ed eseguito una sentenza’: il colpevole è colpevole di essersi autoeletto arbitrariamente giudice ed esecutore di una sentenza. Il processo è in questo senso la ricostruzione e la lettura del disponsitivo e della sentenza criminale che ha generato il delitto. Il processo è lo specchio del processo interiore del delinquente.
  • E’ in questo senso corretto pensare, come diceva il dr Aparo, che il delinquente è un parricida e un matricida. Lui, lei sono parricidi e matricidi alla luce del loro pensiero che padre e madre sin dall’origine “avrebbero dovuto dare il credito che spettava al figlio”: per il delinquente, ma siamo tutti delinquenti in questo, sono il padre e la madre ad essere i primi debitori verso i figli.

Concludo provando a rispondere alla questione della libertà. Cosa vuol dire ‘liberarsi’ ed ‘essere liberi’ in questo caso, una volta sorta l’idea dell’avere un credito da riscuotere, una volta acquisito il dirito al rancore e, infine, una volta scelta la via del crimine?

La giustizia criminale è meccanica e consequenziale, è necessitata dalla logica economica del dare – avere, è generata dalla legge della reciprocità. Credo che essere liberi e liberarsi sia invece una conseguenza della “remissione dei debiti”: ‘e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Essere liberi vuol dire liberarsi della e dalla reciprocità. Senza questa remissione dei debiti e senza questa dismissione della reciprocità, non siamo mai liberi.

La libertà è ‘libero perdono’. Ossia è il dono eccessivo e potente che ha la capacità e la forza di rimuovere l’idea originaria dell’avere un credito e dell’avere dei debitori. E’ un muoversi ricco e diverso nella logica del “credito”.

Grazie al perdono, ossia al dono eccessivo, noi non siamo più né ‘creditori’, né ‘debitori’, ma diventiamo quei ‘liberi’ che gratuitamente danno una misura abbondante di credito all’altro, al prossimo. Dando una misura di credito, attenzione, ascolto, permettiamo all’altro di non sentirsi mai ‘creditore’. E mettendo chiaramente di fronte all’altro la nostra libertà e la gratuità del nostro dargli credito, permettiamo all’altro di sentirsi libero di ricevere senza essere a sua volta ‘debitore’, nella speranza che l’altro divenga a sua volta un “perdonatore”.

Vi ringrazio per la bellissima esperienza, con stima vi saluto

Davide Valenti

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Responsabilità personale e collettiva

Ciò che mi ha subito affascinata di questo progetto di ricerca è la possibilità di dialogare con persone con un bagaglio professionale e personale completamente diverso, in alcuni casi addirittura antitetico (penso, ad esempio, a Marisa e Paolo Setti Carraro da un lato e ai detenuti del gruppo della trasgressione dall’altro). È questo confronto continuo tra persone con un vissuto così diverso, a mio avviso, ad avere attribuito un valore aggiunto alla nostra ricerca.

Una domanda che mi sono posta in passato e che è risuonata in me in occasione dei nostri incontri settimanali nel carcere di Bollate dopo avere ascoltato le storie di vita che alcuni detenuti coraggiosamente ci hanno raccontato è la seguente: “ma se io mi fossi trovata al loro posto, crescendo nello stesso contesto… insomma, a parità di condizioni di partenza… avrei agito diversamente?” Penso che si debba essere un po’ ingenui e forse anche un po’ arroganti per rispondere affermativamente a questa domanda, senza dubbi né ripensamenti.

Grazie alle sollecitazioni provenienti dalla lettura e conseguente discussione dei fratelli Karamazov – dove verso la fine del romanzo c’è quello che potremmo definire un “riconoscimento della responsabilità collettiva dei quattro fratelli” i quali, ognuno in modo diverso, hanno tutti contribuito alla morte del padre – in occasione del nostro ultimo incontro, un detenuto ha posto la seguente domanda: “ Abbiamo parlato della responsabilità del singolo ma che spazio trova la responsabilità della società nel processo?”

Tale quesito ha da subito provocato in me una serie di riflessioni. Nel processo penale – dove si accerta la responsabilità penale, la quale è, come noto, personale – la responsabilità collettiva trova poco spazio. Non penso che tale scelta debba essere necessariamente stigmatizzata: penso siano altre le sedi opportune dove stimolare questo senso di responsabilità collettiva (penso, ad esempio, alla famiglia e in particolare alla responsabilità dei genitori verso i figli; ancora, penso alla scuola).

Ad ogni modo, un riconoscimento di questa responsabilità collettiva, della società tutta, deve avvenire. Da questo punto di vista, tanto la storia dei fratelli Karamazov quanto quelle dei detenuti mi hanno portata a riflettere sull’importanza e la fortuna immensa che ho avuto io, in prima persona, di avere i giusti stimoli, le giuste possibilità e dei modelli positivi da seguire.

I Conflitti della famiglia Karamazov

Margherita Viglione

 

Il paradosso del mucchio

Era il 18 marzo del 1904, 120 anni fa tra qualche giorno, quando alla Camera dei deputati Filippo Turati pronunciava il suo discorso: ‘Il cimitero dei vivi’.
Il cimitero erano le carceri, i sepolti vivi, i detenuti. Sono passati molti anni e sono cambiate molte cose, ma la cortina di fumo non è ancora del tutto stata dissipata.

Quando mi chiedono: ‘che vai a fare in carcere?’ uso, di solito, rispondere con domande a mia volta. ‘Sai cosa succede in un carcere? Come vive un detenuto? Qual è la sua esperienza, il suo pensiero, le sue opinioni? Ma un carcere l’hai, in fondo, mai visto?’ a cui spesso non ricevo risposta.
L’indifferenza che aleggia intorno alla vita carceraria, soprattutto post condanna e pre-scarcerazione, è ancora fortemente palpabile.
Per abbatterla è necessario che l’interesse da fuori verso dentro, oltre che quello scontato da dentro verso fuori, cresca ed iniziative come questa sono fondamentali a questo proposito.

Da un punto di vista più tecnico, la risposta a cosa ci vengo a fare in carcere, è invece la seguente: ragionare sui temi, su lati, spigoli e vertici del crimine proposti dal capolavoro di Dostoevskij insieme a gran parte del sistema molecolare del crimine. Il sistema molecolare del crimine è uno schema che propone una visione grafica del crimine, con al centro appunto il crimine ed intorno ad esso, in orbite separate, gli atomi del reo, della vittima e delle agenzie di controllo sociale.
Ed è esattamente quello che abbiamo fatto qui, ragionando intorno ai concetti del credito (non nella sua accezione giuridica) e del controverso e sorprendete diritto al rancore, pensando alle diverse concezioni di movente e riflettendo sulla portata degli errori giudiziari. Con le vittime e gli autori di reato.

La questione diventa più spinosa e complessa, probabilmente, nell’interrogarmi su cosa farne dell’esperienza vissuta in questo progetto, delle conoscenze acquisite, dei concetti scoperti.

Nel parlare del credito, che abbiamo inteso come la condizione di un individuo che non ha ricevuto qualcosa che invece gli spettava come l’affetto di un genitore, il sostegno, un’infanzia normale, la presenza delle istituzione, la tragedia di un caro strappato via con la violenza; abbiamo riconosciuto che talvolta, in certe condizioni, nell’agire criminale una parte è giocata dalla corresponsabilità sociale. Tutta la società ha parte della responsabilità della genesi del crimine.

La domanda di un detenuto mi lascia riflettere, chiede:’ Noi abbiamo detto che c’è anche responsabilità sociale nel crimine, ma nel processo poi la responsabilità è solo la nostra.’ Certo, la responsabilità penale è personale. Responsabilità per il fatto commesso dal reo.

Ma l’impressione di star vivendo un paradosso, rimane. È paradossale la situazione di un diritto penale simbolico, che considera fatti, più che fatti commessi da persone, ma che poi ovviamente — come con sofferta ironia amava sottolineare a lezione il mio professore di diritto penale — infligge le pene alle persone e non alle loro condotte.

Ma se è vero che la corresponsabilità sociale esiste ed influenza le scelte ed i comportamenti di determinati soggetti, in che misura la possiamo effettivamente ritenere responsabile? Per capire come tenerne conto dovremmo riuscire in qualche modo a misurarne il livello, la quantità, la percentuale di influenza. Ma è possibile misurare una cosa del genere?
In che modo potremmo riuscire a dire che essa è stata determinante nella determinazione a delinquere in modo certo e condannarla oltre ogni ragionevole dubbio?

Mi viene in mente il paradosso del mucchio. Dato un mucchio di sabbia, se eliminiamo un granello dal mucchio avremo ancora un mucchio. Eliminiamo poi un altro granello: è ancora un mucchio. Eliminiamo ancora un granello, e poi ancora uno: il mucchio diventerà sempre più piccolo, finché rimarrà un solo granello di sabbia. Possiamo dire in quale momento quel mucchio iniziale non è più un mucchio? Per gli antichi il paradosso stava nel mettere sullo stesso piano due concetti diversi, di tipo qualitativo da un lato, il mucchio, e di tipo quantitativo dall’altro, numerico, il singolo granello.

Possiamo dire che la corresponsabilità sociale esiste ed è partecipe nel crimine, ma non possiamo dire in che misura essa diventi determinante, non possiamo dire quando diventi un mucchio. Ecco un altro paradosso. Il sistema penale sembra esserne pieno. L’unico modo per escludere con certezza la presenza del mucchio è ridurlo alla singola unità, così come l’unico modo per escludere l‘incidenza della corresponsabilità sociale sembra essere combatterla incessantemente, fino ad eliminarla.

Del resto anche la nostra Costituzione impegna la Repubblica a ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana[…]’ ed è nostro dovere civico impegnarci nello stesso senso.

Ed è qui che forse ho trovato la risposta ai miei interrogativi. Le consapevolezze acquisite in questo progetto devono essere liberate. Devono respirare e vivere. L’impegno è portare queste consapevolezze nel mio percorso, farle conoscere, darle uno scopo prima e dopo il crimine, durante il processo, durante l’esecuzione della pena. L’obiettivo è quello di riscoprirci uniti nella stessa comunità di destino, riflettere se stessi negli altri ed insieme fondare, non più solo la conosciuta responsabilità verso il fatto commesso, ma la responsabilità verso l’altro.
Il fine è quello di comporre una nuova modalità di risoluzione dei conflitti

Se mi chiedi cosa sono venuto a fare in carcere, la risposta è che sono venuto a risolvere il paradosso del mucchio.

Vincenzo Caragnano

I Conflitti della famiglia Karamazov

Non li aveva chiamati nessuno…

Un auditorium dalle alte pareti nere, privo di finestre e illuminato da numerosi fari dinamici sul soffitto.

La disposizione delle sedie alla base del palco pianeggiante, mutava in alcuni momenti da quadrato a cerchio, pronta ad ospitare gruppi di persone estranee a quel mondo. Altre volte venivano poste al centro di un focolare che vedeva l’incontro tra autore e vittima di reato.

E sarebbe forse stata la curiosità beffarda di un momento a portarli lì dentro più e più volte. Chi da vent’anni, chi da pochi mesi o giorni, s’accingeva a invadere spazi che lo Stato riservava a coloro che magari, erano destinati a passarci il resto della vita in quel posto.

Un’esperienza di vita, che seppur non mai fine a sé stessa per alcuni quella diveniva totalizzante.

V’era il pretesto di un libro alla base e la volontà di capirne il contenuto, scrutarne i personaggi, i rapporti, i dissidi interiori e spirituali.

Uno psicologo a tratti simpatico, a tratti un po’ burbero, alternava momenti di ironia a riflessioni più profonde, sdrammatizzava la timidezza di studenti e detenuti miscelandola alla gravità dei loro reati.

Girovagava in cerca della parola altrui, rotolava seduto per terra ai piedi dei suoi interlocutori e li guardava fissi negli occhi, dimenandosi nella complessità dei loro concetti.

Legato da una stretta amicizia, se ne stava seduto invece, dopo aver dato inizio alle danze dell’incontro, un PM, anch’egli trasgressore di un modello che la società agognerebbe quale “persecutore categorico” del crimine.

Sembrava la personificazione di un’interpretazione estensiva dell’art 358 c.p.p, tanto era raro, laddove non si limitasse a compiere solo “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini” ma che li proseguisse anche dopo averne e ottenuto l’irrogazione di una pena. Si trattava di un indagine diversa però, non più basata sul fatto di reato e della sua responsabilità, ma sulla persona condannata e ormai reclusa e i suoi possibili riferimenti con la società civile.

Cosa ci facesse un PM lì dentro sarebbe stato difficile capirlo, eppure insieme allo psicologo era l’autore di ciò che avveniva in quel carcere.

A trasgredire dalle regole sociali, non bastavano di certo loro. A sostenerli in questa loro “ricerca” c’era persino un sacerdote e due vittime di reato, esattamente coloro che in genere tessono dal dolore la bandiera del giustizialismo. Ebbene neppure loro rispettavano tale schema comune, al punto tale che improvvisamente finirono per trovarsi in triangolo tra scienza, norma e spiritualità. Qui l’oggetto dell’indagine li poneva faccia a faccia con gli autori del crimine, c’era da riflettere sul loro “diritto al rancore”, c’era da capire come negli anni le vittime avessero potuto travasare il dolore, la rabbia e lo strappo in un gesto d’amore, in una carezza verso coloro che quella sofferenza avevano causato.

Intorno a loro altri membri del Gruppo della Trasgressione, persone sagge e studenti pronti a dare i loro contributo sull’analisi dei rapporti familiari dei personaggi de “I fratelli Karamazov”. Nel cerchio del palco i detenuti si alternavano, propensi a riflettere su ciò che li aveva portati a delinquere, si sentivano in debito e in credito allo stesso tempo, spesso finivano per immedesimarsi nei personaggi. Era necessario tornare bambini, andare alle radici della loro esistenza e affrontare quei vuoti che avevano segnato le loro vite.

In platea altri detenuti sedevano, chi più in vista chi meno, qualcuno amava isolarsi in alto o cambiare spesso postazione, alcuni d’un tratto sparivano, altri giungevano ad assistere, quasi come se quello che avveniva sul palco con i loro compagni facendo da collante li attraeva, ma allo stesso tempo non era necessario mostrarsi interessati o rendersi partecipi. E chissà se in futuro qualcuno loro un domani si sarebbe seduto su quel palco a vivere in prima persona quell’esperienza.

L’umiltà, la genuinità, la necessità di operare senza manie di proselitismo, mi meravigliava e non poco. Non era il Gruppo a “vendersi” per farsi notare, ma erano gli altri, forse i più sensibili a sentirne il delicato suono di canto corale e armonioso.

In uno degli incontri, il caso fece sì che nel cuore dei lavori di condivisione il Gruppo fosse colto in “flagranza” da qualcuno che seppur lì di passaggio, né udì la voce. Si trattava del neo eletto Garante nazionale dei diritti delle persone detenute che, nella fase conclusiva della sua visita al carcere, irruppe improvvisamente alle spalle dei partecipanti.

Nessuno li aveva chiamati! Erano le istituzioni a sedersi nella cerchia al fianco dei detenuti per assistere, per conoscere il tipo di attività, la delicatezza, l’umiltà e allo stesso tempo l’alto valore morale che tale “missione” poneva in sé.

Non erano più le istituzioni, seppur garantiste, a dover dare qualcosa ai detenuti, ma erano questi ultimi a presentarsi, a insegnare, a restituire qualcosa che forse non gli era mai stato dato e che, ciò nonostante, potevano condividere con orgoglio.

Era il frutto di un sostegno radicato della loro crescita, della volontà di ricucire lo strappo di un gesto immorale, che poneva quale fine ultimo l’approdo ad un autentico senso di riscatto sociale.

 Antonio Lucanto
(studente di Giurisprudenza Università degli Studi di Milano)

I Conflitti della famiglia Karamazov

A proposito di conflitti

Penso che il conflitto appartenga alla natura dell’uomo. È inevitabile, ma non necessariamente foriero di tragedia.

Ogni uomo è un individuo e come tale non può non avere dentro di sé una forte spinta all’individualismo. Ma ogni uomo ha anche un profondo bisogno di stare con i suoi simili, perché l’uomo è un animale sociale.

Questa premessa giustifica la presenza del conflitto che però può essere affrontato e risolto o, almeno, depotenziato. Il conflitto diviene pericoloso, credo, solo se, esistendo allo stato latente e dunque inconscio, viene ignorato e represso.

Il romanzo è intriso di conflitti, alcuni espressi altri repressi. Di alcuni, i protagonisti non hanno consapevolezza, di altri non intendono parlare e ancor meno desiderano affrontarli. La carica di tensione che ne deriva aumenta così fino a scoppiare, generando dolore e morte.

Sono in conflitto Fedor e la prima moglie Adelaida. Litigano, spesso venendo alle mani, finché Adelaida se ne va, lasciando un Fedor apparentemente felice della sua libertà riconquistata e del patrimonio della moglie ormai suo. Ma se è così felice della sua rinnovata possibilità di gozzoviglia, perché quando rintraccia la moglie a Pietroburgo decide di andare a cercarla e non perfeziona tale decisione solo perché Adelaida muore? E perché alla notizia della morte di lei piange tutte le sue lacrime? Quale conflitto ha luogo nel suo animo di cui probabilmente non è consapevole?

Fedor e Mitia sono in conflitto. Straordinariamente simili nel gusto di eccedere, soprattutto nei piaceri carnali, caratterizzati da un vitalismo incontenibile, sono come le due facce della stessa medaglia: il lato buono Mitia, il lato abbietto Fedor. Ma nessuno dei due nasconde il conflitto. Mitia si scontra apertamente col padre, arrivando a mettergli le mani addosso.

Fedor e Ivan sono in conflitto. A Fedor Ivan non piace, sembra non considerarlo. Quando Alesa sta male, e il malessere è straordinariamente simile a quelli provati dalla madre, Fedor esprime preoccupazione per lui ma neanche considera Ivan, che infatti gli fa notare che la madre di cui Fedor parla è anche la sua. Ivan soffre per la mancata attenzione del padre e dunque si estranea progressivamente dalla famiglia, parla pochissimo, si rifugia nel pensiero scientifico e filosofico ed esprime il suo disagio scrivendo. E con la scrittura disarma le aporie etiche e metafisiche che lo tormentano. Purtroppo non si rende conto che esprimendo le sue teorie disarma il proprio rancore ma arma quello di Smerdjakov.

Fedor e Alesa sono in conflitto. Alesa è un concentrato di buone attitudini. Ha tutta l’impetuosità dei Karamazov ma nella sua forma positiva. Sa mostrare nei confronti degli altri, nessuno escluso, un’accoglienza sincera che lo rende potente e ascoltato. Fedor non comprende la scelta di vita di Alesa ma forse neanche Alesa la comprende del tutto. Però tale scelta è per lui salvifica perché, non ricevendo dal padre l’affetto che gli spetta, sublima il suo bisogno rivolgendosi a Dio, come a un padre surrettizio, grazie alla mediazione dello starec Zosima.

Fedor e Smerdjakov sono in conflitto. Ma S. è in conflitto anche con Dimitri e con Ivan e con Alesa, è in conflitto col mondo. Nutre una ribellione profonda contro l’ingiustizia che contraddistingue la sua esistenza. Debole in quanto sofferente di mal caduco, discriminato in quanto illegittimo, disprezzato perché figlio di una prostituta, ignorato e non amato dal padre e dai fratellastri che non lo considerano, non lo notano, non lo conoscono, lo ritengono insignificante, non gli riconoscono intelligenza o capacità di sorta, cova un rancore sordo e non lo esprime mai, lo nasconde. Annidato nella casa di Fedor come un parassita ascolta tutti, impara i loro gusti e le loro abitudini, si nutre di loro, li conosce come forse neanche loro si conoscono, li controlla. Ed elabora un piano diabolico.

Tra i Karamazov il conflitto è di casa, ma sono di casa anche attitudini e caratteristiche comuni.

  • Una grandiosa, insopprimibile brama di vivere accomuna i fratelli.

Ivan: “La vita si fa desiderare e io vivo, foss’anche a dispetto della logica… le vischiose gemmette primaverili, l’azzurro del cielo, ecco quel che amo io!…..è coll’intimo dell’essere, è colle viscere che si ama.”

Alesa: “Senza dubbio, amo la vita anteriormente a ogni logica e di necessità anteriormente a ogni logica, giacché solo a questo patto potrò afferrarne il senso”

Mitia: “La vita, la vita piena c’è anche sotto terra. Non puoi sapere quanto io adesso voglia vivere, quanta sete di esistere e di sentire si sia radicata in me”

La ribellione di Smerdjakov contro l’ingiustizia delle sue condizioni di vita è anch’essa frutto della brama di vivere pienamente, di godere delle opportunità che una vita libera e felice può offrire. Attendendo l’esito del piano ordito, impara i vocaboli francesi per cominciare bene la sua esperienza cosmopolita.

  • I dubbi a proposito dell’immortalità e dell’esistenza di Dio accomunano Ivan e Mitia.

Ivan: “Amare la vita più che il senso di essa?”

Mitia: “Forse è appunto per la presenza di idee sconosciute dentro di me che mi ubriacavo, mi azzuffavo e andavo in collera. Mi azzuffavo per domarle, per placarle, reprimerle dentro di me…Ivan è una sfinge, e tace, tace sempre. Invece, a me, il pensiero di Dio mi tormenta. Non fa che tormentarmi.”

  • La ricerca dell’amore, del piacere carnale o comunque una riflessione sui modi in cui è possibile

procurarselo accomuna tutti i membri della famiglia Karamazov.

Fedor: “In qualsiasi donna si può trovare, porco diavolo, molto, moltissimo d’interessante, come non si può trovare in nessun’altra: soltanto bisogna saperlo trovare, ecco dove sta il busillis! Si tratta di talento!”

Alesa dichiara di essere sulla scala della lussuria come i fratelli, precisa solo di esserne al primo gradino. Arrossisce quando il padre invita i figli ad andare ad assistere alle bastonature delle ragazze. Quando legge la lettera che Lise gli ha scritto ride e si addormenta beato.

Mitia: A Mokroe, quando Grusenka gli parla e lo considera e lo invita ad offrire da bere, Mitia si trasforma, muta lineamenti e l’espressione, prima solenne e tragica, diviene fanciullesca, gioiosa e lui si fa “riconoscente come un cagnolino colto in fallo e riammesso alle carezze”.

Ivan: “Katerina io vengo ad esser punito cento volte più gravemente di voi per il fatto stesso che non vi vedrò mai più” dice a Katerina comunicandole che sarebbe partito per Mosca per sempre e questo riguarda il suo essere innamorato. Poi c’è tutta la riflessione sull’infelicità dei bambini in cui si delinea, in maniera insistita, una lussuria malata, che parla di orgasmo ottenuto con la violenza sadica.

  • Il sentirsi in credito verso la vita e in particolare verso il padre accomuna i fratelli Karamazov.

Tutti ritengono di non aver ricevuto dal padre quell’affetto e quelle attenzioni che si suppone debbano essere elargite dal padre in una famiglia. Cresciuti lontano da casa, educati e mantenuti grazie all’interessamento e alla generosità di persone che si sono prese cura di loro ma che non potevano avere ai loro occhi il ruolo che compete a una famiglia, sono arrabbiati e determinati ad esigere ciò che ritengono spetti loro, ognuno a suo modo e ad ogni costo.

Paradossalmente il solo Smerdjakov è nato e cresciuto in casa Karamazov, ma non certo nel modo e con il riconoscimento che gli sarebbero spettati.

Inoltre tutti sono cresciuti senza madre e in qualche modo il loro ritorno a casa è espressione di un desiderio di famiglia. Non ci sono figure di madri positive nei Karamazov. Questo e il modo in cui sono tratteggiate le figure femminili nel romanzo è un aspetto che andrebbe approfondito.

I Conflitti della famiglia Karamazov

Il mio viaggio, il mio compito

Sono salita a bordo dell’auto condotta dal Dottor Aparo e dal Dottor Cajani estremamente curiosa di quali mondi nascosti avrei conosciuto durante il viaggio e desiderosa di poter dare il meglio in un’esperienza mai vissuta prima d’allora.

Ho avuto la fortuna di vedere un angolo di cielo che rimane spesso ignoto ai più e mi ci sono tuffata, desiderosa di conoscerne ogni aspetto nascosto.

Ho sempre fatto a meno dei pregiudizi e dei preconcetti ed ero certa che entrare in contatto con la realtà di Bollate non mi avrebbe fatto cambiare prospettiva e i miei occhi sarebbero rimasti quelli di un osservatore che si arma di umiltà e desiderio di conoscere l’altro.

Sono abituata a non viaggiare leggera, sennonché questa volta la colpa non era dei vestiti, la valigia con cui sono partita era piena di Speranza e non per me, per donarla. Ho avuto l’ambizione e la pretesa di poter rappresentare speranza per chi il carcere lo vive tutti i giorni e culla il desiderio che <chi sta fuori> lo guardi con bontà e fiducia.

Dostoevskij è stato partecipe e protagonista dei nostri 5 incontri ed ha rappresentato l’occasione per confrontarci su crediti, pretese, dolori, rivincite e speranze.

Varco per l’ultima volta il cancello del carcere sussurrandomi che non sarà affatto l’ultima volta, mentre assaporavo il viaggio gettavo briciole per poter ripercorrere il sentiero più e più volte, perché si sa, un libro va letto due volte per essere capito e un viaggio.. che ve lo dico a fare.

Ho imparato a confrontarmi e a capire che ci sono sempre punti di vista differenti e che non sempre questi sono inconciliabili. Ho capito che la sofferenza riguarda indifferentemente chi commette, chi subisce e chi sta vicino ai due, ma che c’è sempre il sentiero giusto da percorrere, anche se nascosto.

Tornata dal viaggio trovo che il mio compito, il più bello e il più ardito, sia quello di raccontare, condividere e donare lenti diversi con cui scrutare questo pezzo di cielo, spesso oscurato dalle nuvole ma dietro cui si nascondono timidi raggi di sole che aspettano di poter tornare a splendere.

Martina Bianchi, studentessa di giurisprudenza

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Il processo a Dmitrj

Nel processo a Dmitrj si coglie che l’accusa tenta in tutti i modi di convogliare i sentimenti, le idee e i fatti che hanno portato all’omicidio del padre in un imbuto che cancella l’ambiente e si concentra sulle responsabilità dell’imputato.

Al di là dell’errore di persona sul presunto omicida, in generale, mi sembra che concentrarsi sulle dinamiche dell’imputato scorporandole dal resto comporti il rischio che la pubblica accusa e il giornalista di cronaca nera possano dar luogo a qualcosa di molto simile alla pratica medievale di esiliare sull’eretico di turno la complessità della realtà, delle contraddizioni e dei conflitti sociali.

In altre parole, mi pare che la funzione del Pubblico Ministero e, non di meno, del giornalista siano esposte strutturalmente al rischio di venire asservite al bisogno collettivo di confinare il male dentro il colpevole, il quale diventa in questo modo una specie di buco nero capace di risucchiare su di sé e cancellare tutto quello che gli sta attorno.

Dostoevskij, verso la fine del 19° secolo dimostra chiaramente di sentire questo rischio; noi oggi possiamo chiederci se esistono sistemi per ridurlo?

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