Il tempo dell’uomo che desidero essere

Non so quante volte ho sprecato il tempo, il mio tempo. So che l’ho sprecato inseguendo delle cose che non mi hanno mai portato niente di bello, al contrario mi hanno portato solo delle cose negative, non mi rendevo conto che il tempo è veramente qualcosa di prezioso.

Mi ricordo che mia nonna mi diceva spesso che, ‘’Il tempo perso anche gli angeli lo piangono’’, e aveva ragione come sempre.

Nella realtà che oggi vivo ho scoperto che qui si può sprecare il tempo una seconda volta, dato che la prima volta è stata quando eravamo fuori e abbiamo fatto dei reati che ci hanno portato qui dentro. Si può sprecare decidendo di non far nulla per sé stessi, di rimanere sempre nell’ignoranza così da non alimentare la nostra consapevolezza.

Ho scoperto anche un’altra cosa, che da qui, anche se siamo pieni di restrizioni, il tempo si può investire in qualcosa di positivo, in una rinascita, in una crescita personale. Soprattutto in una realtà come questa possiamo apprendere delle conoscenze su tante cose, attraverso la scuola, corsi, gruppi, così come questo gruppo che frequento nel quale sento d’investire per davvero il mio tempo.

Io ho deciso di rendere utile il mio tempo e non voglio né vorrei sprecarlo di nuovo, oggi so che il mio tempo è prezioso, che ha un valore che prima non riconoscevo. Continuerò a impegnare il mio tempo in  qualcosa che faccia bene a me, che mi aiuti a crescere come persona, in qualcosa che mi possa aiutare a diventare quell’uomo che desidero essere.

So che il tempo che ci mettiamo per raggiungere certi obiettivi può essere tanto, ma so di certo che tante saranno le soddisfazioni che in futuro potrò avere.

Aver imparato dai reati e dagli sbagli commessi mi sta portando a vedere le cose con occhi diversi, non più con gli occhi di un ragazzo che non sapeva cosa fare del suo tempo, della sua vita.

Alex Chicas

La mia prima rapina

Alle medie frequentavo un gruppetto di amici più o meno della mia età. Il nostro ritrovo era un parchetto del mio paese e sedevamo su un muretto. Andavo ancora a scuola, ma ogni pomeriggio e sera quel parchetto e quella compagnia erano il mio appuntamento fisso, fatta eccezione di quando ogni tanto si andava all’oratorio a giocare a pallone.

Rompevamo la noia solo quando ne combinavamo una delle nostre e funzionava sempre alla stessa maniera: a uno di noi veniva in mente di fare un danno o di rubare qualcosa. Nessuno si tirava indietro e ogni volta era una prova di coraggio perché nessuno voleva passare per debole o fifone. Quando c’erano le giostre o le feste di paese, ogni occasione era buona per fare a botte con altre compagnie dei paesi vicini. Capitava di fare a botte anche la domenica pomeriggio in discoteca e quasi sempre avevamo la meglio. Lo ricordo bene come ci atteggiavamo: avevamo la fama di quelli che picchiavano duro, dei cattivi di cui bisognava avere paura e godevo di tutto ciò. Mi sentivo qualcuno!

Quel mio modo di passare le giornate però prese una piega molto più seria quando io e il mio amico Stefanino conoscemmo due ragazzi più grandi di noi: Felice e Massimo, il più cazzuto dei due. Loro avevano già la macchina, una 127 Fiat color carta da zucchero. Tra noi quattro si instaurò subito un’amicizia, anche perché io e Stefanino non volevamo più frequentare la vecchia compagnia. Giravamo in macchina con loro due e sedevamo allo stesso modo: Felice guidava, Massimo a lato e io e Stefanino dietro.

Dopo qualche settimana, mentre facevamo il solito giro in macchina, per la prima volta sentii parlare di una possibile rapina. Felice e Massimo ne parlavano come se fosse un’idea nuova ma a me era chiaro che invece ne avevano già fatte e volevano solamente vedere la nostra reazione.
Io e Stefanino accettammo. Ricordo che mi saliva l’adrenalina al solo pensiero di dover scegliere ai danni di chi fare il colpo e in seguito nel fare i sopralluoghi.

Ricordo che il giorno deciso fu un sabato e il negozio era un fiorista del nostro paese: tre vetrine fronte strada con una piccola scalinata all’ingresso. Dopo aver nascosto in una via vicino la macchina, la cui targa era stata alterata con un nastro isolante nero, ci calammo il passamontagna. Massimo e Felice impugnavano due pistole mentre io e Stefanino eravamo a mani nude.

Entrammo nel negozio, c’era qualche cliente e chi lavorava all’interno. Massimo puntò la pistola e iniziò a gridare di stare fermi. Io non guardavo in faccia nessuno e, come d’accordo, seguivo Felice verso la cassa. Mentre Felice puntava la pistola alla cassiera, persona di cui non riesco a ricordare il viso ancora oggi, afferrai i soldi e lasciai solo le monetine.

Una volta divisi i soldi continuammo a girare in macchina, fumando una sigaretta dietro l’altra, inventandoci particolari inesistenti della rapina. La sera andammo in una discoteca di un altro paese, era molto meglio di quella che avevo frequentato con la mia vecchia compagnia.

Questa fu solo la prima rapina e mi sentivo un grande, uno capace di far paura e questa sensazione mi faceva godere molto di più dei soldi che avevo e di quelli che mi misi in tasca altre volte. Mi sentivo grande all’idea che in giro per il paese si sapesse che ero dentro un gruppo di persone forti con cui c’era poco da scherzare. Questo fu solo l’inizio.

Sergio Sestito

Racconti al tavolo del gruppo

La libertà al gruppo della trasgressione

Partecipare agli incontri del gruppo in carcere, in qualità di studente, non è semplice. L’ingresso in carcere è un’esperienza umanamente complessa: i controlli, le porte che si chiudono alle spalle e il rumore dei cancelli evocano un senso di perdita di autonomia, una condizione in cui tutto è regolamentato e sorvegliato. Fin da subito si percepisce la privazione della libertà, quella stessa libertà che quotidianamente tendiamo a considerare scontata.

Prima di frequentare il gruppo, quando pensavo alla libertà, rappresentavo dentro di me uno spazio aperto, sgombro da ogni confine, privo di persone. Con il tempo la sensazione di leggerezza data da questa rappresentazione ha lentamente abbandonato il mio corpo. Frequentando il gruppo ho compreso che la libertà si costruisce attraverso il rapporto con gli altri e con il proprio contesto. Ogni libertà trova il suo limite e, allo stesso tempo, la sua applicazione nella cura della relazione con l’altro e il reato si configura come l’atto che viola questo principio.

La presenza dei familiari di vittime di reato nel gruppo offre ai detenuti l’opportunità di acquisire una maggiore consapevolezza: quella della propria responsabilità, del dolore inflitto agli altri e della necessità di riconoscere il proprio passato e la propria storia. I familiari di vittime di reato svolgono un ruolo centrale, orientando il lavoro sul riconoscimento dell’altro e consentendo all’autore del reato di considerare la libertà come espressione della responsabilità verso la collettività.

Mohamed Ounnas, detenuto di Opera e componente del gruppo da 14 anni, ha affermato che in precedenza non attribuiva valore alla sua libertà. Per questo mi sono chiesta: che valore attribuisco alla mia libertà? Ho sempre considerato la libertà un diritto unicamente individuale mentre oggi, dopo mesi di frequentazione al gruppo, considero la mia libertà come un dovere nei riguardi della società in cui sono inserita.

Vivere lo scambio tra detenuti e familiari di vittime di reato mi ha permesso di interiorizzare che la libertà non è mai assoluta, ma sempre intrecciata con quella degli altri. Oggi per me la libertà non è più l’espressione di un diritto assoluto ma rappresenta la responsabilità che ho nei riguardi degli altri. Questa consapevolezza ha cambiato il mio modo di vivere e di relazionarmi.

Carolina Rocca

Libertà

 

Il nonno, il limone, la bambina

Il nonno, il limone, la bambina cattiva e l’amore che resiste

È estate. Fa caldo, ma non caldissimo. Il mese preciso non lo ricordo. Ho sette anni, mia nonna è in cucina intenta a lavare i piatti. Il nonno è uscito dalla piccola casa per raggiungere la panca posta a sinistra del cortile, sotto il tetto. È sua abitudine, dopo pranzo, concedersi un pisolino, dice che aiuta la digestione. La nonna, senza smettere di sciacquare i piatti, si volta e ci raccomanda, a me e a mia sorella, di non fare rumore, per non svegliare il nonno.

Io però non mi curo delle sue raccomandazioni. La curiosità mi spinge altrove e, senza esitazione, mi dirigo verso l’orto, che è anche un giardino. La recinzione, una cancellata nera, lo protegge dalla strada vicina e sulle sue punte, come minuscole sentinelle, riposano le libellule. Sono tante, ogni punta ne ospita una. Mia sorella e io le disturbiamo, insidiose, per osservarle da vicino. Mi affascinano i loro occhi, che sembrano seguire ogni mio minimo movimento. Le loro ali sottili e delicate sono così fragili che basta un tocco per rovinarle, condannandole a non volare mai più.

Cammino tra i diversi blocchi, vedo i pomodori da una parte, l’insalata e i ravanelli dall’altra. Al centro, un albero di albicocche domina il piccolo appezzamento con la sua presenza. Ci sono anche le piante di rose, le viole, il basilico, la salvia e tanto rosmarino. Sono rapita da odori, colori e suoni, sento di essere felice; ci sono mia sorella, le libellule, le rose e le albicocche. Ci sono anche i due setter inglesi di mio zio, bianchi con macchie marroni, rinchiusi nel loro serraglio ombreggiato. Poco distante, galline bianche e un gallo, i produttori delle uova che mia nonna spesso mi invita a mangiare, convinta che mi faranno crescere bene.

Sperimentando il mondo, l’orto e il giardino, all’improvviso adocchio il nonno, di cui mi ero completamente dimenticata. Dorme all’ombra. Decido di andare da lui. Cammino a piedi scalzi sui sassi che separano la casa dall’orto. Le piccole pietre rotonde mi bruciano le piante dei piedi e mi costringono a correre più veloce per alleviare il dolore. Mi avvicino, il nonno ha la testa reclinata all’indietro, appoggiata al muro, le mani intrecciate sotto al cuore. È un ometto non molto alto, magro, ha un problema a un piede che lo costringe a una camminata zoppicante. Ama prendere appunti mentre guarda la televisione, annotandoli su “Tv Sorrisi e Canzoni”. Sarà da lui che imparerò l’abitudine di trascrivere frasi e parole che non conosco e che voglio ricordare.

Lo osservo per qualche istante. La bocca, rilassata e leggermente aperta, emette un leggero suono. Mia sorella è accanto a me. Lo guardiamo e ridiamo di gusto, coprendoci la bocca con la mano per non farci scoprire.

All’improvviso, mi attraversa un’idea. Corro in casa, ritrovo il bicchiere con cui il nonno ha bevuto a pranzo e prendo quello che cercavo, un mezzo limone già strizzato.

Lo afferro. Sono eccitata, quasi frenetica, spinta dall’urgenza di mettere in atto la mia fantasia. Ignoro le suppliche di mia sorella maggiore che, intuito quello che sto per fare, mi implora con preoccupazione di non farlo. Mi avvicino al nonno addormentato, salgo con un ginocchio sulla panca, cerco un appoggio stabile e strizzo con decisione il mezzo limone all’interno della sua bocca. Il succo rimasto basta per svegliarlo di soprassalto e farlo tossire. Visibilmente spaventato, si rivolge a me con parole di rimprovero.

Sono colpita. Rimango ferita, la sua reazione mi sembra ingiusta. Non ci penso due volte, afferro la bicicletta, ordino a mia sorella di fare lo stesso e ci lanciamo verso casa, pedalando a tutta velocità. Io davanti e lei dietro. Sei o sette minuti, non di più, ci separano dalla casa dei nonni.

Mamma è appena rientrata dal lavoro, papà non c’è. Non dico nulla, ma lei intuisce che sono arrabbiata. Poco dopo, il campanello suona, è il nonno, Armando. Chiede dove sono, è preoccupato ed è venuto ad accertarsi che io sia tornata e che stia bene.

Casa di Reclusione di Milano-Opera, 03-settembre-2025

Lara

Racconti al tavolo del gruppo

 

Il nonno, il limone, la bambina

Il nonno, il limone, la bambina cattiva…
e l’amore che resiste

Estate, la nonna in cucina
Il nonno riposa sotto il tetto con la testa reclina
Corro nell’orto, scalza sui sassi roventi
Nei miei ricordi i giorni contenti

Tra pomodori, ravanelli e albicocche,
rido e gioco con mia sorella
a tormentare eleganti e delicate libellule.

Colori, odori e suoni
non bastano a dimenticare il sonno del nonno.

Ero bambina cattiva,
con in mano un mezzo limone,
che strinsi ridendo sulla bocca ignara.

Il succo aspro sveglia il silenzio.
Il vecchio si spaventa per lo scherzo crudele
e mi rimprovera con ogni suo mezzo.

Scappo e pedalo a catena
dalla colpa giovane che stringo in mano
e con il cuore che sprofonda in pena.

Ero bambina cattiva,
con in mano un mezzo limone,
che strinsi ridendo sulla bocca ignara.

Il campanello suona affannato
arriva il nonno preoccupato
per la nipote ribelle
Il limone è già dimenticato

Ero bambina cattiva
con in mano un mezzo limone
che strinsi ridendo sulla bocca ignara

Ma il nonno è venuto a cercarmi

Lara Giovanelli

Racconti al tavolo del gruppo

Enciclopedia Trasgressione

Relazione finale di tirocinio

Scrivere questa relazione ha significato rielaborare un percorso non lineare, talvolta caotico, proprio come l’esperienza vissuta all’interno del Gruppo della Trasgressione. Il filo conduttore che ho scelto di adottare nasce proprio da uno degli ultimi incontri a cui ho partecipato presso la sede dell’associazione, durante il quale si è discusso il concetto dell’“alleggerire la coscienza”, a partire dalla lettura di una poesia di Nuccio, componente storicissimo del gruppo.

In quell’occasione il professor Aparo ha sottolineato il paradosso racchiuso in questa espressione, rispetto al significato che Nuccio gli attribuiva nella poesia: ciò che Nuccio intende con i suoi versi non è un gesto di “fuga” dal peso della propria coscienza, bensì l’opportunità di arricchirla di consapevolezza, riconoscendo il peso delle proprie scelte e imparando a dare voce al proprio vissuto emotivo. Questo concetto mi ha spinto a rileggere a ritroso la mia esperienza di tirocinio, cercando di comprendere in che modo essa abbia contribuito a “nutrire la mia coscienza”.

Gran parte del mio tempo nel Gruppo è stata dedicata all’ascolto e alla riflessione. Ogni volta che partecipavo a un tavolo del Gruppo percepivo che, pur nella libertà del dialogo su vissuti, esperienze e idee riportati dai partecipanti, vi fosse sempre un secondo intento. Con il tempo ho compreso che ogni riflessione proposta non mirava solo a raccogliere aneddoti, ma a stimolare un confronto su questioni specifiche, contribuendo alla costruzione di un patrimonio condiviso. Questo insieme di concetti, che si arricchiva di volta in volta, è ciò che ho imparato a riconoscere come la vera e propria “enciclopedia del Gruppo”. Di seguito proverò a riportare alcune delle nozioni dell’“enciclopedia della Trasgressione” che ho potuto apprendere nei vari contesti in cui si muove questa realtà.

Rapporto con l’autorità – Gruppo della Trasgressione nelle scuole
Uno dei primi temi in cui mi sono imbattuta durante il tirocinio riguarda il rapporto con l’autorità, che si osserva nel parallelismo tra le relazioni genitori–figli, adolescenti–scuola e detenuti–istituzioni. In ciascuna di queste diadi, il modo in cui l’autorità esercita il proprio potere influenza profondamente le risposte degli individui, generando dinamiche che possono sfociare nel conflitto. Durante l’adolescenza – così come nei percorsi che possono condurre alla devianza – l’arroganza nei confronti dell’autorità non è tanto un tratto caratteriale, quanto il risultato di una relazione conflittuale. Quando il bisogno di ascolto e di riconoscimento rimane insoddisfatto e l’autorità viene percepita come castrante o disinteressata, la reazione degli individui può tradursi in rabbia, prepotenza o comportamenti auto-distruttivi. Alla radice di tale rabbia non c’è soltanto la ferita del passato, ma soprattutto il bisogno costante di essere riconosciuti e legittimati nel presente.

In questo senso, le testimonianze dei detenuti nei progetti scolastici del Gruppo della Trasgressione assumono un forte valore educativo: attraverso strumenti come la rappresentazione del mito di Sisifo, mostrano agli studenti che crescere significa imparare ad affrontare un confronto autentico con l’autorità – genitori, insegnanti o istituzioni – e a rinunciare al rancore che può nascere da relazioni conflittuali. Lo stesso messaggio riguarda anche le figure educative, che hanno la responsabilità di accompagnare i giovani nella crescita: l’inerzia o l’indifferenza da parte di chi dovrebbe fungere da guida rischiano di compromettere i processi evolutivi. Quando l’autorità abusa del proprio ruolo o si mostra assente, il messaggio che passa è che non valga la pena impegnarsi, alimentando così sentimenti negativi e la giustificazione a regredire. Chi detiene l’autorità deve esercitarla con credibilità, affinché chi si trova in posizione subordinata possa trasformarla in un’occasione di crescita.

Abuso e pena – Gruppo della Trasgressione in associazione
L’abuso, tema approfondito durante tavoli del Gruppo, viene inteso non solo in quanto atto concreto, ma come espressione di uno stato emotivo e relazionale. Per chi lo commette diventa spesso un modo per sentirsi onnipotente e per nascondere la propria fragilità, schiacciando la vittima in una condizione di impotenza. In questo meccanismo, la vittima viene ridotta a un oggetto su cui riversare rabbia, frustrazione o desideri di rivalsa: “Ci si sente potenti, infatti, nel fare provare all’altro il dolore che non si è capaci di sentire in prima persona” (Aparo, 2025). Ma quindi come si risponde a questa concezione di abuso? La società, basata sull’idea che chi abusa sia colpevole e vada punito perché avrebbe potuto scegliere di essere “buono” invece che “cattivo”, opera su un presupposto diverso da quello del Gruppo. Qui, infatti, l’invito è ad approfondire “quali sono gli umori che portano l’individuo ad amministrare la propria condotta in modo distruttivo e abusante” (Aparo, 2025). L’approccio del Gruppo consiste in una continua esplorazione delle emozioni che orientano le nostre scelte, partendo dal principio che “l’uomo è responsabile di ciò che fa, ma meno responsabile di ciò che sente” (Aparo, 2025). Da questo deriva l’esercizio di rintracciare gli stati d’animo che hanno condotto all’abuso e di mettere a fuoco quei sentimenti che possono invece allontanare dall’impulso distruttivo, aprendo così alla possibilità di riconoscere l’altro come persona e non come oggetto. Se “commettere reati significa distruggere relazioni e vivere con disinteresse il rapporto con l’altro” (Aparo, 2025), il lavoro del Gruppo mira esattamente a compiere il movimento opposto.

L’ergastolo dell’odio– Gruppo della Trasgressione a teatro
Le conseguenze dell’abuso ricadono tanto su chi lo compie quanto sui familiari delle vittime. Il reato, infatti, genera un trauma che per questi ultimi si trasforma spesso in un vero e proprio “ergastolo emotivo”: un legame doloroso e persistente con il carnefice, alimentato da odio, desiderio di vendetta o bisogno di giustizia. Per questo il Gruppo della Trasgressione promuove momenti di incontro e prossimità tra detenuti e familiari delle vittime, con l’obiettivo di favorire un riconoscimento reciproco delle esperienze e dei vissuti. Dal dolore di entrambe le parti può così nascere un processo trasformativo: il familiare della vittima trova uno spazio per dare voce alla propria sofferenza e, al tempo stesso, il reo viene sollecitato a riattivare la propria coscienza anestetizzata. In questo percorso, chi ha subito il reato può trasformare l’odio in una possibilità di interrompere la catena del male, mentre il reo può superare l’identità criminale fondata su rabbia, arroganza e negazione dell’altro. I familiari delle vittime diventano così catalizzatori di cambiamento, mostrando ai detenuti che un’evoluzione è possibile. In questo dialogo, tanto il reo quanto i familiari delle vittime trovano la possibilità di emanciparsi dalla sofferenza.

L’incontro con i “marziani” – Gruppo della Trasgressione in carcere
L’esperienza dell’incontro con i detenuti e con il mondo del carcere porta con sé il senso di entrare in contatto con una realtà estranea.  A questo riguardo ho trovato molto interessante la metafora del “delinquente marziano” e la sensazione che ne deriva dall’incontro con questo “estraneo”.  In una società segnata dall’ingiustizia e dal malessere, c’è chi considera il delinquente soltanto come un individuo indegno, e chi invece – spesso per senso di colpa o per convinzioni etiche – sente il bisogno di aiutarlo. Mettere insieme il “delinquente marziano” e persone animate da compassione porta però, talvolta, a un atteggiamento che rischia di ridursi a una forma di accudimento e infantilizzazione del detenuto. Ciò che invece viene fatto in carcere attraverso il Gruppo della Trasgressione consiste nel chiamare il detenuto alla responsabilità al fine di spingerlo a costruire una realtà e un modo di stare al mondo che non preveda il tradimento dell’altro e che permetta di superare il senso di ingiustizia verso una società che lo ha privato di opportunità di crescita. “Amare un delinquente significa chiamarlo a diventare tuo fratello e quindi una persona responsabile” (Aparo, San Vittore, 2025). Il fine è proprio quello di creare una responsabilità condivisa che deve rimanere come messaggio al detenuto e a chiunque partecipi al gruppo in qualità di libero cittadino. “Libero” in quanto legato dal vincolo di vivere all’interno di una collettività sociale nella quale le azioni dell’uno possano anche servire al benessere e alla crescita dell’altro.

La nuova identità – Gruppo della Trasgressione in società
Il momento dell’uscita dal carcere rappresenta una fase complessa e delicata, segnata dalla sfida di vivere e continuare a costruire una nuova identità. Paradossalmente, il carcere, pur essendo una realtà chiusa e stigmatizzata, offre ai detenuti un mondo con regole chiare, in cui è possibile continuare a riconoscersi in un’identità delinquenziale all’interno di uno spazio di azione sicuro e conosciuto. “È doloroso separarsi dall’illusione e dalla magia del delinquere perché questo suscita la paura di perdere un’identità potente e forte” (Aparo, San Vittore, 2025). Nei mesi che precedono la scarcerazione il desiderio di libertà comporta una forte spinta al cambiamento, ma una volta fuori questo slancio rischia di lasciare spazio alla tentazione di ricadere in vecchi schemi e perpetrare il tradimento dell’altro, in quanto “ognuno di noi insegue diverse identità attraverso diversi modelli e l’eco dell’identità precedente è sempre presente” (Aparo, San Vittore, 2025). Ho compreso quindi che l’uscita dal carcere non coincide automaticamente con una vera evoluzione dell’individuo: senza la costruzione di relazioni che diventino un punto di riferimento e una base per la costruzione di progetti alternativi, il rischio di ricadere nelle vecchie abitudini e di lasciarsi attrarre dalla scorciatoia dell’eccitazione rimane molto alto.  È necessario costruire e nutrire una nuova identità, trovare relazioni e stimoli capaci di alimentare una motivazione diversa, “la motivazione a costruire”. In questo processo il Gruppo assume un ruolo fondamentale, perché accompagna il detenuto a trasformare la propria esistenza in un senso responsabilità verso la collettività, favorendo il passaggio dalla funzione di reo a quella di cittadino.

Il tirocinio nel Gruppo della Trasgressione è stato per me un’esperienza intensa e complessa, che mi ha permesso di confrontarmi con modalità comunicative e concettuali lontane dal mio abituale approccio, ma al tempo stesso estremamente formative. Il metodo del gruppo, basato sulle libere associazioni e su un’interpretazione in chiave filosofica e psicoanalitica delle esperienze di vita dei membri del Gruppo, si è rivelato un canale privilegiato per dare voce al “bambino interiore” e rileggere i comportamenti della vita adulta alla luce dei vissuti dell’infanzia, e questo non solo per i detenuti ma per tutti i partecipanti al tavolo del Gruppo.

Le metafore e i simboli utilizzati dai membri del Gruppo hanno avuto un ruolo centrale: sintetici e capaci di rendere accessibili concetti complessi ma universali. Un aspetto altrettanto significativo è la “teatralità” con cui alcuni ex detenuti, membri storici del Gruppo, riescono a rappresentare parti di sé e a consolidare nuove identità, decostruendo progressivamente i “miti di sé stessi” creati negli anni della devianza. Anche il disordine e la confusione, personalmente ancora destabilizzanti, hanno avuto un senso: per accedere al nostro mondo interiore non sempre è utile la rigidità del pensiero, anzi spesso è necessario lasciare spazio ad altri binari per trovare delle risposte autentiche. Ammetto che questo modo di procedere mi ha messo alla prova, poiché distante dalla mia formazione e dal mio modo di pensare. Tuttavia, col tempo, ho iniziato a comprenderne la logica interna e il valore trasformativo del metodo utilizzato dal Gruppo. Ho imparato ad apprezzare il valore delle libere associazioni, delle metafore e della “teatralità” come strumenti di crescita collettiva e individuale.

Ma, soprattutto, ho appreso un nuovo modo di intendere il rapporto con la coscienza: non come mezzo da alleggerire, ma come strumento da nutrire. Il “trucco” del Gruppo della Trasgressione sta nel favorire un cambiamento nei partecipanti senza che se ne rendano conto, e posso dire di essere anch’io dentro questo processo. Non sono ancora riuscita a lasciarmi andare del tutto nella condivisione dei miei vissuti, ma ho sicuramente avuto l’occasione di rielaborare, attraverso l’enciclopedia della Trasgressione, aspetti che appartengono anche alla mia esperienza. Vorrei quindi ringraziare tutte le persone incontrate durante questo percorso per aver condiviso parti autentiche di sé e per avermi mostrato, concretamente, cosa significa nutrire la propria coscienza.

Martina Mutti

Relazioni di tirocinio

Schizzi d’autunno

In questo autunno 2025, al gruppo abbiamo in corso due iniziative:

  • una parte da Max Rigano, giornalista;
  • l’altra da Massimo Zanchin, componente del gruppo A. S. di Opera.

 

Max Rigano è già al lavoro con un giornalista radiofonico, Daniele Biacchessi, che conduce la trasmissione “Il Timone” e con il quale ha concordato di fare diverse interviste ai componenti del gruppo. Dopo la prima a me (andata in onda nei giorni scorsi), Max intende procedere con interviste ad alcuni degli altri componenti del gruppo (ex detenuti, comuni cittadini, familiari di vittime di reato, studenti tirocinanti e detenuti in carcere).

Le interviste riguardano cosa è il gruppo e cosa fa, qual è il ruolo di ciascuno all’interno, i nostri obiettivi, cosa ciascuno di noi ne ricava, ecc.  Le interviste sono individuali. Ognuno potrà concordare con Max dove vedersi o sentirsi e sarà lui a coordinare la comunicazione (la sede di Via Sant’Abbondio, se serve, è comunque utile allo scopo; volendo, lì si può procedere anche con due o tre interviste di seguito). L’intervista viene registrata durante l’incontro a due e poi diffusa nel corso della trasmissione radiofonica mattutina “Il Timone”.

Non posso escludere che, strada facendo, le interviste possano essere estese a direttori di carcere e magistrati. In fondo, è già successo qualcosa del genere con Byoblu, dove agli incontri sono stati presenti anche un magistrato e la direttrice del carcere di Monza.

Invito i componenti del gruppo che hanno piacere di prendere parte all’iniziativa a darmene segno, così che io possa metterli in comunicazione con Max Rigano. La prima intervista deve avvenire nei primi giorni della prossima settimana (29 o 30 settembre).

 

Nata su suggerimento di Massimo Zanchin, l’iniziativa prevede che un componente del gruppo racconti al tavolo un episodio della sua vita. Ognuno, detenuto o meno, sceglie di raccontare quello che gli pare, senza altro vincolo se non quello di stare dentro i 15 minuti.

Le persone sedute al tavolo, concluso il racconto, pongono domande al protagonista della giornata, fanno osservazioni, critiche, richieste di chiarimenti, portano ricordi personali evocati dal racconto. Ne vengono fuori riflessioni di ogni tipo, come di norma accade al tavolo del gruppo.

Infine, il coordinatore del gruppo propone una sua interpretazione del racconto e degli interventi che ne sono seguiti.

L’iniziativa prevede che per ogni racconto venga realizzato un podcast per la radio o per una puntata televisiva di circa 30/45 minuti. Per procedere alla registrazione occorre ovviamente l’autorizzazione della direzione delle diverse carceri.

Se Andrea Spinelli o una persona che sa disegnare vorrà corredare lo snodarsi del racconto e degli interventi con schizzi o bozzetti che riprendano alcuni dei passaggi, avremo delle puntate televisive più ricche.

Al momento, siamo già alla 7° puntata, di cui 5 nel carcere di Opera, una a San Vittore e l’altra a Bollate. Nel carcere di Opera il racconto ha luogo tutti i mercoledì: al mattino con il gruppo dell’Alta Sicurezza, al pomeriggio con quello della Media Sicurezza.

Non escludo che nel tempo si possano avere al gruppo giornate in cui il racconto verrà proposto da soci del Rotary o da ospiti esterni.

L’iniziativa sarà anche oggetto di studio per i tirocinanti universitari che frequentano il gruppo, ai quali viene richiesto di trascrivere il racconto, di riassumere i passaggi ritenuti significativi della giornata e di collegarli con le teorie e le griglie di lettura degli autori conosciuti attraverso i loro studi universitari.

Anche questi racconti, che si muovono tra errori, paure, fantasie, aspirazioni, sono uno strumento della nostra palestra.

Angelo Aparo

La nostra palestra

Il mio (non) tirocinio

Il mio ingresso in carcere
La complessità della relazione tra un’autorità, come un genitore, e un bambino o un adolescente è stato il primo argomento affrontato appena entrata in carcere presso la casa circondariale San Vittore con il progetto “Alla ricerca del padre” e pressoo la casa di reclusione di Milano–Opera con il progetto “Restart Opera 2 – Progetto Genitorialità”.

Attraverso questi due progetti ho sperimentato il punto centrale del gruppo: l’incontro tra il mondo del carcere e la società. Il gruppo infatti costituisce un ponte tra interno ed esterno e permette di vivere ai detenuti e ai liberi cittadini quel senso di reciproca appartenenza che le mura del carcere tendono a cancellare.

Dal primo incontro ho capito che avevo il dovere di mettermi sullo stesso piano dei presenti, sul piano del “tavolo del gruppo” in cui si parla liberamente di ogni pensiero, emozione ed esperienza. Il clima che ho da subito percepito è stato quello di un ascolto costruttivo, alle volte anche critico. Il tavolo è un flusso di pensieri, anche confuso e disordinato, che alla fine di ogni incontro trova spazio nelle coscienze dei presenti.

I progetti permettono di comprendere che non c’è differenza di emozioni tra chi è dentro e chi è fuori dal carcere ma che la differenza sta nella direzione di vita che ogni persona ha intrapreso. È dunque fondamentale che ogni persona comprenda la propria storia, l’importanza del suo valore e di raccontarsi ai propri figli: bisogna accettare di aprirsi per rendersi credibili. Ogni figlio ha bisogno di percepire autenticità perché questo permette di avere stima dei propri genitori, e questo aiuta ad evitare la strada dell’abuso.

Attraverso gli incontri durante il progetto “Restart” ho vissuto le difficoltà dei genitori detenuti a dover raccontare ai figli la propria storia e ciò che ha portato loro ad abusare dell’altro. Il valore di questi incontri è percepibile da chiunque abbia la possibilità di partecipare, ma ho toccato con mano la sua rilevanza nel racconto di Michelangelo che, dopo un mese dalla fine del progetto, ha riferito al gruppo di essere riuscito a raccontare a suo figlio la realtà della sua storia personale.

Incontri del gruppo in carcere
Il lavoro del gruppo all’interno del carcere è volto principalmente a indagare i motivi sottostanti al reato e ciò avviene attraverso un dialogo circolare tra detenuti e liberi cittadini. Il gruppo si riunisce il lunedì nel carcere minorile Cesare Beccaria dalle 15 alle 17, il mercoledì nel carcere di Opera dalle 9:30 alle 13:00 con l’Alta Sicurezza e dalle 13:00 alle 15:00 con la Media Sicurezza, il giovedì nel carcere di San Vittore dalle 10 alle 12:30 e nel carcere di Bollate dalle 14:30 alle 17:30.

Grazie agli incontri in carcere ho compreso che la responsabilità si riferisce alla capacità di rispondere delle proprie scelte, una capacità che si acquisisce nel tempo attraverso il legame con le figure di riferimento: la diversità nella percezione del senso di responsabilità è strettamente connessa alle esperienze di vita. Ognuno nel corso della propria vita beneficia di officine differenti, come la famiglia e le amicizie, da cui elabora il senso di responsabilità. Capita che persone che hanno frequentato officine equivalenti possiedano un senso di responsabilità differente e ciò dipende dalle esperienze, speranze e illusioni che ogni individuo sperimenta dentro di sé.

Essere giuridicamente responsabile di un reato non equivale necessariamente a percepire la propria responsabilità ed è per questo motivo che alcuni detenuti indicano il proprio reato attraverso il riferimento all’articolo del codice corrispondente, senza soffermarsi sulla dimensione emotiva legata all’atto commesso. Il tavolo del gruppo consente al detenuto di rintracciare la camera dei propri pensieri al momento del reato, permettendo di considerarlo nelle sue dinamiche emotive sottostanti. Una testimonianza a tal proposito è il racconto di Antonio Tango, ex detenuto appartenente al gruppo da 17 anni, che attraverso la frequenza al gruppo ha compreso che nel corso della sua vita è stato… “un burattino nelle mani del suo burattinaio, la rabbia“.

Attraverso questa testimonianza, e quella di molti altri detenuti, ho compreso che spesso l’uomo commette reati per rovesciare la sua condizione da vittima a carnefice. In questo contesto il reato si configura come lo strumento attraverso cui rivendicare la sofferenza vissuta all’interno delle relazioni significative.

Più volte nel corso di questi mesi ho sentito affermare da alcuni detenuti di non poter riconoscere e ricordare i volti delle proprie vittime e questa dichiarazione è la testimonianza del fatto che chi subisce il reato è il destinatario di una vendetta che in realtà è rivolta alle figure di riferimento dell’autore del reato e alle loro mancanze. La vittima dunque viene percepita come un oggetto tramite cui è possibile rivendicare la propria ferita e al tempo stesso come un ostacolo al raggiungimento di ciò non si possiede ma si desidera ottenere.

A tal proposito la partecipazione dei familiari di vittime di reato al tavolo del gruppo riveste un ruolo fondamentale perché favorisce l’umanizzazione dell’altro e restituisce un volto a ciò che inizialmente era percepito solamente come un oggetto, un mezzo per affermare sé stessi. L’incontro con i familiari consente dunque di comprendere le conseguenze delle proprie azioni: “il riconoscimento è centrale nella vita di tutti e la sua mancanza causa deviazioni negative dal proprio progetto di vita e di conseguenza nel progetto della collettività” (Aparo, Opera, 2025).

Il lavoro del gruppo all’interno del carcere è quindi volto all’evoluzione dell’autore di reato, non al suo cambiamento. L’evoluzione qui intesa considera la responsabilità di ogni singolo nei riguardi della collettività perciò il detenuto viene costantemente stimolato a riconoscesi nell’altro poiché la libertà di ciascuno è strettamente connessa alla relazione con gli altri. Attraverso il dialogo al tavolo del gruppo, il detenuto sperimenta il senso di costruzione e comprende l’importanza del lavoro.

Il lavoro che il detenuto deve svolgere durante il suo percorso consiste nell’impegno a costruire insieme ai volontari e ai familiari di vittime di reato per consolidare la sua identità, un’identità che deve però essere esercitata per essere mantenuta perché è qualcosa di dinamico e non di statico: “Bisogna farsi carico del fatto che l’identità è qualcosa che va accudita per evitare la sua regressione” (Aparo, Opera, 2025).

Il lavoro del gruppo della trasgressione all’interno del carcere evidenzia che non è sufficiente incontrare l’altro per evolversi, ma bisogna coltivare la ricerca e l’evoluzione domandando, ascoltando e riflettendo. Al gruppo è fondamentale poter parlare di tutto ciò che riguarda l’uomo, non devono esistere tabù perché ogni componente del tavolo deve assumersi la responsabilità di esporsi, mettersi in gioco e confrontarsi. Il tavolo del gruppo rappresenta uno spazio in cui non è consentito assumere il ruolo di spettatore: ciascun partecipante ha il dovere di manifestare autenticamente sé stesso.

Il mio (non) tirocinio al gruppo della trasgressione
Il “non” tra parentesi ha un significato specifico che non intende svalutare l’esperienza formativa a cui ho avuto la possibilità di partecipare. Quel “non” ha una connotazione estremamente affettiva perché ho vissuto un tirocinio non ordinario, al di fuori di ogni schema lavorativo che potevo immaginare. Se penso a questi mesi al gruppo ciò che più mi viene in mente è l’imprevedibilità, un concetto a cui ho sempre attribuito un valore negativo ma che ad oggi mi ha permesso di crescere come persona.

Durante gli incontri a scuola ho preso parte al Mito di Sisifo e ho recitato la parte di uno dei personaggi e ho inconsapevolmente preso parte alla simulazione di una rapina. Durante gli incontri in carcere sono stata inaspettatamente stimolata nella mia storia personale e nei miei ricordi. Mi sono emozionata, ho perso il controllo della mia emotività e mi sono sentita libera e accolta. Ho anche accolto l’emotività degli altri e mi sono sentita vicina a storie che credevo troppo distanti da me. La bellezza del gruppo risiede nella moltitudine di persone, personalità e vissuti che si fondono insieme per ritrovare una continuità nella propria storia di vita. Il gruppo permette a chiunque di evolversi e di ritornare sulla strada su cui ci si era persi o di costruirne di nuove.

Al gruppo sento di aver avuto la possibilità di costruire un nuovo sentiero per la mia vita futura e per questo ringrazio ogni persona con cui ho avuto la possibilità di condividere questi mesi. Un sentito e doveroso ringraziamento al dott. Aparo, a Lara e ad Antonio.

Carolina Rocca

Relazioni di tirocinio

Tre anni

È una gioia immensa questa che sento oggi. Poche volte nella mia vita mi sono sentito così. In passato, le poche volte che ho provato una gioia era finta, ed è stato per delle cose negative. Ma oggi questa gioia è per qualcosa di bello, di vero, per un traguardo personale che non mi sarei mai immaginato di raggiungere.

Sono stati tre anni impegnativi di studio, con tanti alti e bassi, in realtà con più bassi che alti, tre anni nei quali ho avuto anche la voglia di mollare, tre anni nei quali mi sono sentito solo e anche incompreso, ma anche tre anni nei quali ho avuto il sostegno dalle persone che non mi aspettavo.

Questa soddisfazione che oggi sento non ha prezzo, è una soddisfazione doppia perché nessuno ci credeva, nessuno avrebbe mai detto che Alex portava a termine i suoi studi, che Alex, quel ragazzino abituato a fare del male, si prendeva il diploma e diventasse un ragioniere.

Oggi mi sento felice perché a dire la verità questo è soltanto l’inizio della mia rivincita, perché oggi so veramente che cosa voglio per me, questo è senza dubbio il traguardo più importante della mia vita e so pure che è il primo di tanti che desidero raggiungere.

Alla fine sono arrivato, non come primo perché non è mai stata quella la mia intenzione, la mia vera e propria intenzione era arrivare lì, perché per me non conta arrivare per primo ma saper arrivare ed io ce l’ho fatta.

Ho fatto tanti sacrifici ma ne sono fiero perché ne è valsa la pena, vedo il mio percorso e sono orgoglioso di ogni cosa che ho fatto, questa mia vittoria personale mi fa capire che ho le capacità per raggiungere i miei sogni.

Sorrido perché ancora non ci credo, è una sensazione bella e unica, mi sento fortunato per tutto, iniziando perché Dio mi ha sempre voluto bene, perché mi ha mandato delle persone che mi hanno accompagnato nel mio viaggio come i volontari, i miei professori, la mia psicologa che ha visto la mia crescita, il mio criminologo, la mia educatrice che ci ha creduto e che mi ha sostenuto sempre anche nel giorno della mia prova orale, avere avuto lei lì è stata una cosa bellissima, anche avere alcuni amici detenuti che mi hanno sostenuto è stato bello.

Tutto ciò mi fa pensare quanto sono fortunato, non so ma questo mio traguardo lo dedico a loro, anche a mia figlia che è una delle ragioni del mio cambiamento, a mia nonna che so si sentirà orgogliosa di me per questo mio obiettivo, alla mia compagna che c’è stata sempre e mi ha sempre motivato, alla mia famiglia perché a modo loro ci sono stati, ma soprattutto lo dedico ai miei cugini che non ci sono più, so che pure voi siete orgogliosi di me ovunque voi vi troviate.

Anche se nella mia vita ho sbagliato tanto, l’opportunità che la vita mi ha dato di riprendermi tutto ciò che avevo perso non la sprecherò di nuovo, lotterò, ci proverò come sempre ho fatto anche quando la fatica si farà sentire, anche quando la vita mi colpirà, so che li troverò la mia forza e continuerò ad andare avanti.

Oggi ringrazio le persone che hanno creduto in me, ringrazio Dio perché mi ha permesso di essere ancora qui in vita, cercherò ogni giorno la voglia per raggiungere i mei sogni anche se mi trovo qui in carcere, perché è da qui che nasce la mia rivincita personale!

Alex Chicas

L’infinito senza stellePercorsi della devianza

L’alba inattesa

Cardedu, 23 agosto 2019

Sono grato.

Stride molto questo sentimento con questo giugno pieno di fatica e disillusione.
Eppure sono grato, non c’è più alcun dubbio.

Durante l’ultimo nostro incontro in carcere, il 10 maggio scorso, seduto – come nel primo nostro ingresso a San Vittore del 12 aprile – tra Luca e Francesco, a un certo punto mi sono ritrovato gli occhi pieni di lacrime ma non riuscivo a capire bene perché.

Mi ero riproposto che dovevo pensarci bene, lasciando che quelle emozioni inattese continuassero a trafiggermi senza però consentire che l’effetto benefico si esaurisse al risveglio, l’indomani mattina.

La fretta di dover cambiare argomento o tonalità, ritornando ai ritmi frenetici appena usciti dal sottosuolo di San Vittore, doveva arrendersi – per una volta – alla necessità di trovare quella risposta: perché?

Ci voleva del tempo, certo. Come tutte le cose.

Ma poi questa ultima settimana, segnata dai riti di passaggio tipici della fine della quinta elementare e della terza media (una congiunzione astrale difficile da gestire all’interno di un’unica famiglia), mi ha regalato il tesoro nascosto.

Sono grato alla maestra di mia figlia che, dopo un anno di relazioni sempre più difficili all’interno della sua classe, è riuscita a trasformare quelle difficoltà in opportunità di crescita. La fine della cerimonia di graduation restituiva plasticamente l’obiettivo educativo (prima che scolastico), io – con la mia rigidità nel rapporto genitore/insegnante – non trovavo le parole adatte neppure per un semplice “grazie” e lei mi ha colto di sorpresa con un “beh, ora possiamo abbracciarci anche noi?”.

Sono grato a quei capi scout che neppure io conoscevo e che hanno custodito mia figlia lo scorso weekend accompagnandola per mano dentro un territorio che lei neppure voleva conoscere. Di ritorno a casa la domenica, ho ritrovato nel suo entusiasmo un tratto che abitava un tempo anche in me, perché a volte la timidezza del carattere non riesce a farti indirizzare lo sguardo verso l’impensabile e l’inimmaginabile.

Sono grato alle insegnanti e agli insegnanti di mio figlio che – dopo essersi presi cura per oltre due anni e mezzo non solo del suo sapere ma anche della sua adolescenza inquieta, con un entusiasmo e una dedizione che più volte mi ha intimamente commosso- lo accoglieranno oggi alle 8.00 per l’esame orale di terza media, nonostante tutto questo non gli abbia fatto prendere sonno questa sera dopo aver preparato uno zaino con 12,5 kg di libri dentro. E io, con lui, a sperare che arrivasse finalmente Morfeo a dare forma ai suoi sogni. E in quella attesa durata due ore, disteso accanto a lui sullo stesso letto, non mi preoccupavo tanto di non avere ricordi nitidi né della fine della quinta elementare né della fine della terza media. Perché a me basta il ricordo della maturità, come se fosse stato ieri, quando sono uscito da quell’aula dopo l’esame orale. Mi sono guardato indietro per rendere indelebile quello che finora così è rimasto in me:  quella sensazione del me-che-chiudo-quella-porta, lentamente. Un misto di rimpianto e soddisfazione.

Un qualcosa che – quando sei giovane – è in parte differente da quello stare, come magnificamente indica Nicolò Fabi, “nella pausa che c’è tra capire e cambiare” tipica dell’età che ci ostiniamo a chiamare adulta.

Capivo (ma forse solo intuivo) che era finito un ciclo della mia vita ma quella mia stessa vita non mi aveva ancora fornito gli strumenti di consapevolezza per comprendere che quella porta, così consapevolmente chiusa, avrebbe aperto realmente ad un cambiamento.

Eppure quel momento è stato forse la mia prima alba, attesa per tanto tempo anche se non sapevo, appunto, quale territorio nuovo avrebbe illuminato.

Un qualcosa dunque che, come spiega invece Andrea Parodi, assomiglia forse più all’abacada: “nella lingua sarda …. significa momento di contrapposizione paritetica di forze, caratterizzato dalla serena calma che precede il cambiamento e la svolta esattamente come quei brevi, intensi istanti che non sono ancora giorno e non sono più notte”. E proprio a questo pensavo, ricordo ugualmente indelebile, nell’agosto 2019 quando per la prima volta ho portato mio figlio a fare il bagno in quella precisa scansione temporale, nel mare di Cardedu.

Ed è accaduto nelle vacanze natalizie di quello stesso anno, volendo invece mettere meglio a fuoco il rapporto di padre con mia figlia più piccola, che mi sono ritrovato tra le mani il libro di Alberto Pellai “Da uomo a padre”. Anche di questo sono grato, a lui che lo ha scritto quanto all’insieme di circostanze – che non riesco a ricostruire perché da me neppure lontanamente immaginate – che me lo ha fatto, appunto, trovare e mettere in valigia.

E alla fine quella lettura (che si è fermata a lungo, a pag. 173, sulla “permanenza della <<zona grigia>>”, ovvero “chi è stato mio padre per me? Che ruolo ha giocato nel determinare la persona che sono, ciò che avrei voluto essere? Come mi ha permesso di realizzare ciò che sognavo di fare della mia vita?”) si è trasformata, ugualmente inattesa ed inimmaginabile,  in una preziosa occasione per conoscerlo meglio, io che pensavo di aver compreso ormai tutto di lui e di avergli fino a quel momento sempre manifestato il mio affetto di figlio riconoscente.

Ecco, ora mi è chiaro: erano lacrime di gratitudine le mie, dentro il sottosuolo di San Vittore.

Dopo aver sentito il racconto del mio amico Luca sui padri che ha cercato da giovane con tutte le sue forze e fortunatamente adottato, in uno con il racconto di Francesco sul figlio in affido con tutte le fatiche quotidiane ma anche le gioie connesse, in quel momento ho pronunciato davanti a tutti parole a tratti confuse ma che effettivamente davano il senso anche del mio percorso di figlio, apparentemente cosi diverso da Luca,  e di padre, apparentemente così diverso da quello di Francesco.

Eppure, ripensando anche ora a quel preciso momento, mi sembra davvero che ci siamo tutti abbracciati. Nell’ascolto empatico anche con i padri e i figli detenuti, in quell’abbraccio collettivo credo che ognuno di noi – arrivati fino a quel crocevia, tutti da strade differenti  – sia riuscito a fare un po’ di pace con l’ideale del padre che avremmo voluto avere. E con l’ideale di padre che avremmo voluto essere ma che, ormai è chiaro a tutti, non siamo né riusciremo (mai/più) ad essere.

Di questa esperienza, tra le tante cose che conservo nel mio cuore, una immagine mi si è fatta ugualmente nitida in questa ultima settimana: non è tanto l’attesa dell’alba quello che ci renderà padri migliori, ma un’alba inattesa.

Per tutto questo sono grato ai padri, Juri compreso, che ho incontrato dentro e fuori da San Vittore in questi mesi. Sono sicuro che l’energia che è scaturita dal nostro stare insieme e dal nostro confronto “senza farci sconti” ci aiuterà ad indirizzare sempre più lo sguardo verso qualcosa di inimmaginabile al nostro primo appuntamento, un qualcosa di fronte al quale ciascuno di noi riuscirà – finalmente – a stupirsi di sé stesso.

Grazie ancora, a tutti noi insieme e a ciascuno di voi per quello che siete riusciti a donarmi!

Alla ricerca del padre