Simboli per il dramma di Corinto

Le immagini, ottenute con l’aiuto dell’AI, sono elaborazioni dei simboli ideati dagli studenti del Pesenti di Bergamo per rappresentare il conflitto tra gli dei dell’olimpo e i cittadini di Corinto, i potenziali sviluppi e, non da ultimo, alcune delle possibili soluzioni ideali per superare il conflitto tra insegnanti e studenti, tra autorità e cittadini e, più in generale, tra adolescenti e adulti.

La siccità che ha messo a dura prova tutta la città ha anche indotto Sisifo, re di Corinto, a sviluppare verso il dio dell’acqua Asopo, verso Giove, capo tra tutte le divinità dell’Olimpo e, in generale, verso tutte le “divinità/autorità dell’Olimpo”, un rancore che ne ha condizionato fortemente le scelte e che lo ha portato a sviluppare l’arroganza cui Giove risponderà con la famosa punizione/vendetta del masso.

 


Bergamo: Giornata conclusiva dell’iniziativa su “Approcci utili per i conflitti tra insegnanti e studenti“. Sul palco la preside dell’istituto, prof.ssa Veronica Migani, Angelo Aparo, Matteo Manna del Gruppo Trsg, e gli studenti del Pesenti Kushal Bagha, Gabriel Billeci e Adam Haqhaqi.

«Ragazzi, dopo il risultato ottenuto con la vostra rappresentazione del mito di Sisifo nel carcere di Opera, oggi vi propongo una cosa non facile. Cioè interrogarci su cosa può vivere un adolescente che non si sente aiutato o sostenuto nella sua crescita e nella ricerca del proprio futuro. È una sfida impegnativa. La mia proposta è quella di ideare un simbolo che rappresenti ciò di cui voi sentite di aver bisogno, quello che vi sembra necessario avere dal mondo degli adulti per fare la vostra strada.

Vorrei anche riuscire a concepire un simbolo che rappresenti l’idea di una comunità eterogenea, composta da persone provenienti da diverse parti del mondo (come siete già voi stessi), ma unite da un obiettivo comune: costruire il mondo di domani, cioè il mondo in cui vivrete da adulti. Come l’acqua che mancava a Corinto, questo simbolo deve indicare una risorsa essenziale, vitale. Abbiamo l’esigenza di costruire un mondo capace di tener conto della diversità e di un simbolo che rappresenti questo obiettivo. Vi invito a realizzarlo senza risparmiare mezzi, mettendo in campo tutta la vostra creatività e passione. Questo simbolo potrà diventare il segno distintivo della vostra scuola e una testimonianza concreta di ciò che siete in grado di fare»

Angelo Aparo

Mohamed Ounnas e Angelo Aparo lottano per avere il poco che resta dell’acqua a Corinto.

 

Adam Haqhaqi: Immagino un Giove sconfitto, che tenta invano di stringere tra le mani una bilancia simbolo del suo potere. Attorno a lui, un gruppo di adolescenti, provenienti da ogni angolo del mondo, unisce le forze per sfidare e abbattere un’autorità ormai priva di credibilità.

 

Marwan Toukami: Immagino una marionetta, strettamente controllata dall’autorità e dal potere, che si dimena con tutte le sue forze per spezzare i fili e liberarsi dal giogo del controllo.

 

Ranbir Singh: Vedo degli adolescenti, provenienti da culture e origini diverse, lavorano insieme per ridurre il peso del masso. Rappresentano il potere della diversità, dell’inclusione e della collaborazione. Simboleggiano l’importanza della comunità e del supporto reciproco. La loro unione dimostra che, affrontando le difficoltà insieme, il peso del masso diventa più gestibile.

 

Carlo Caroli: Immagino una bandiera italiana, simbolo di accoglienza e unità, su cui sono cucite le bandiere dei paesi d’origine degli adolescenti che studiano nella nostra scuola. Un mosaico di colori e identità che racconta storie di integrazione, diversità e speranza.

 

Massimo Rinaldi: Vedo una bilancia sollevata da molte mani, simbolo di unione e forza collettiva. Su uno dei piatti c’è il masso di Sisifo che, mano a mano, diventa leggero come iuna piuma, perché la coscienza condivisa e la forza del gruppo ne riduce il peso.

 

Omar Fouah: Un’aquila maestosa si lancia in picchiata dalla montagna, incarnando potenza e determinazione, mentre un masso, simbolo di oppressione e peso interiore, si trasforma lentamente in una piuma. È la rappresentazione di una coscienza che si alleggerisce, liberandosi dal fardello.

 

Mouhamed Khouma Seydina: Vedo molti studenti di diverse etnie unire le loro forze per spingere insieme un masso verso la cima della montagna. Ogni spinta rappresenta la condivisione della fatica e del sacrificio, uniti dalla determinazione di raggiungere l’obiettivo comune: trasformare quel masso in coscienza, un simbolo di crescita, consapevolezza e collaborazione.

 

Gabriel Billeci: Giovani adolescenti, provenienti da paesi e culture diverse, sostengono insieme un mondo. Sopra di esso si trova un anziano, simbolo di un’autorità credibile, con orecchie enormi, a rappresentare la sua capacità e competenza nell’ascoltare i giovani.

 

Massimo Zanchin, componente del gruppo del carcere di Opera: la moneta di Corinto è la sintesi di due dei tanti possibili percorsi ed esiti del rapporto tra adolescente e adulto, studente e insegnante, cittadino e autorità pubbliche, detenuto e figure istituzionali.

Il mito di Sisifo

I miei compagni di vita

Per circa trenta anni il rancore e la cocaina sono stati i miei compagni di vita, non mi hanno mai abbandonato, erano l’unica cosa sempre presente in una vita fatta di eccessi e abusi verso il prossimo e me stesso.

Lui, il rancore, è stato mio padre, mi ha educato a essere un uomo prepotente, sprezzante delle regole, dei valori civili, mi ha dato la forza e il coraggio di commettere cose di cui oggi mi vergogno e ne porto il peso sulla coscienza, quella stessa che, grazie al gruppo e all’incontro con Marisa Fiorani, ho ritrovato.

Questa coscienza oggi mi fa male, ma allo stesso tempo bene, perché è la mia bussola e, se mi trovo in situazioni di sofferenza e frustrazione, mi permette di non prendere la strada oltre il confine delle regole, mi indica come un navigatore dove camminare per non ricadere là nell’abisso della dipendenza, dove la cocaina mi è stata mamma coccolandomi quando ero triste. Bastava un tiro e tutto passava come quando ti fa male un dente e prendi un antidolorifico che ti anestetizza; lei bianca e pura, ma nera come la morte che ti provoca nell’anima, lei che ti può far essere esaltato o calmo, lei che può farti vedere e sentire ciò che vuoi tu perché te lo immagini dentro di te, lei che ti fa incontrare con i tuoi mostri interiori e i tuoi angeli, lei che puoi usare per socializzare, ma anche per isolarti.

Lei c’è sempre ogni volta che la cerchi, non ti abbandona mai e, se da piccolo sei stato abbandonato, è un ottimo modo per non sentirti più così, fa tutto ciò che vuoi tu nel tuo io profondo comandato dal tuo papà che di nome fa rancore.

Ma poi, se riscopri la coscienza, non puoi più cadere nella loro seduzione perché vedi e capisci il dolore che hai fatto, ti guardi allo specchio della verità e scopri che tu non sei quello che hai fatto e non lo vuoi essere, rivedi tutti i morti che ti sei lasciato dietro, gli anni che hai perso, il tempo che è passato cosi veloce che ti ritrovi ad avere i capelli bianchi e le rughe sul viso, solchi di espressioni sofferenti…

Guardi le cicatrici che porti sul corpo, i buchi delle pallottole e ti accorgi quanto è immenso il buco che hai creato tra te e la società e quanto lavoro ci vorrà per risanarlo, ma anche che in realtà sei fortunato ad essere ancora qui a raccontarlo…

Nelle giornate difficili ti viene una gran voglia di dire: “vaffanculo era più facile prima!” Allora guardi il telefono e dici a te stesso che basta chiamare un numero, ma è li che ti accorgi dove sta il più grande successo della vita, quando sputi su quel telefono, ascolti la tua coscienza e dopo aver fumato una sigaretta… il numero che chiami è quello della donna che ami per dirle quanto è difficile e quanto stai male e trovi lei che ti ascolta e ti accompagna con la sua voce alla pace e alla positività che nessuna droga può darti.

Ti fa vedere il mondo con gli occhi di chi ti ama e riesce a vedere un bicchiere mezzo pieno anche nella siccità più arida; adesso ciò che brilla ai tuoi occhi non sono i cristalli di cocaina ma, gli occhi profondi di chi ti ha fatto conoscere lo sballo più bello del mondo: essere innamorato! Ed esserlo per la prima volta a 43 anni vuol dire volare sopra le nuvole dove non ci sono limiti alla felicità, quella felicità che non hai mai vissuto e nessuno può toglierti perché è nel tuo cuore, nella tua coscienza e nell’anima, guerriere contro chi ti ha accompagnato verso l’abisso nero per una vita.

Oggi sono un uomo che ha incontrato una persona speciale, che non voglio mai smettere di amare; uso il cuore e la coscienza, sono ancora fragile ma onesto con gli altri e con me stesso.

Matteo Manna

Percorsi della devianza

No, non c’è tradimento!

San Vittore 16/02/2023

Ascolto con attenzione i contributi dell’eterogeneo gruppo che si riunisce tutti i giovedì al nascente reparto LA CHIAMATA e constato che tutte le idee vengono scambiate, confrontate, criticate, tanto che io dubito spesso anche delle mie.

Tuttavia, quando il prof. Aparo ha aperto l’incontro di giovedì scorso a San Vittore, chiedendo ai presenti se chi s’interessa del benessere della persona condannata stia tradendo i famigliari della vittima o se occuparsi della sofferenza di chi ha commesso un omicidio equivalga a ignorare la disperazione della figlia e della moglie della vittima, ho sentito dentro di me una risposta certa: “No, non c’è alcun tradimento!

Anche se l’argomento è complesso e doloroso, non posso rinunciare a tentare di capire la relazione lega l’uomo al criminale, non posso credere che sto trascurando la vittima quando cerco di scoprire dov’è andata l’umanità di chi è stato carnefice.

Mi avvicino alla persona detenuta, sentendo la necessità di rintracciare quali siano i fattori che hanno contribuito a farlo scivolare verso l’assenza da se stesso. E mi preoccupa che siamo in pochi a volerlo fare, a voler capire cosa succede all’uomo. Sento nei racconti dei detenuti la mancanza di qualcosa di cui, invece, mi sembra che noi tutti abbiamo bisogno. E al gruppo si cerca di continuo cos’è: qualcosa che prima c’era? Che non c’è mai stato?

Pur considerando che la figura dei genitori ha un ruolo centrale nella costruzione della personalità dell’adolescente, mi chiedo come abbiano fatto molti giovani a sopravvivere a infanzie infelici con genitori disattenti o assenti e a contesti degradanti, senza per questo autorizzare se stessi all’abuso, senza ricorrere a “soluzioni” devianti.

Comprendere perché alcune persone soccombono e altre sopravvivono in ambienti in cui si vivono le stesse difficoltà, rappresenta un terreno di studio molto interessante per noi componenti del Gruppo della Trasgressione. La direzione che il degrado ambientale e le difficoltà familiari imprimono ai sentimenti e alle scelte dell’individuo non è automatica! Diversamente, come si spiegherebbe che nello stesso nucleo famigliare un figlio prende la strada della devianza e l’atro no?

Mi sembra quindi importante cercare di approfondire cosa sente il giovane deviante, osservare il modo in cui egli reagisce alla frustrazione, quale lettura egli dà degli eventi e delle relazioni che vive, quale impasto si produce nella sua affettività, tale da portarlo al reato.

Quanto più ragiono su questi aspetti, tanto più mi rendo conto degli effetti terapeutici del Gruppo della Trasgressione sulle persone che lo frequentano e del metodo con cui viene perseguito l’obiettivo del reinserimento sociale della persona detenuta. Per questo mi sembra indispensabile sgrovigliare i nodi che compongono i bisogni psicologici dell’autore di reato e ottenere informazioni utili a impostare progetti e operazioni d’intervento.

L’avvicinamento a chi ha operato l’offesa e la sua responsabilizzazione in progetti collettivi sono certamente gli strumenti migliori per contrastare il ripetersi dell’abuso: “Capire cosa induce alla condotta antisociale non è un tradimento nei confronti della vittima, è piuttosto una ricerca di quell’umanità che era stata progressivamente defenestrata lungo il complesso percorso che ha portato all’episodio criminoso” (Aparo, San Vittore, 16/02/2023).

Lara Giovanelli

Reparto LA CHIAMATAIncontri con i familiari delle vittime

Sarei certo di cambiare la mia vita

Mercoledì mattina io non c’ero, dottore Nobili, nell’aula Dostojeskij.

Non ho fatto nulla, non ho visto nulla, non ho sentito. Nulla.

Si, grazie, mio figlio sta meglio oggi, solo ancora un poco di febbre.

Senta, allora gliela voglio dire la verità.

E’ che sono arrivato in ritardo mercoledì, le luci si erano già riaccese dopo il primo interrogatorio di Raskol’nikov a casa di Porfirij. E quando ho visto il dottore Aparo seduto, in silenzio, in mezzo a due Marescialli dei Carabinieri e con accanto un Avvocato mi sono tranquillizzato e ho capito che potevo anche approfittare delle circostanze favorevoli per dare una ritinteggiata alla stanza accanto. Così, giusto per continuare a fare qualcosa di utile anche io.

Sì, dottore Nobili, certo che l’ho vista poi andare via, prima degli altri, verso le 12.20: c’erano altre persone che la aspettavano ma non erano certo affari miei. Però mi sembrava strano tutto quel silenzio, tutto di un tratto dopo un sovrapporsi di voci sempre più accese, come se fosse successo qualcosa. Di inaspettato. O qualcosa che tutti, prima o poi, si sarebbero aspettati. Nervi scoperti, oppure pregiudizi che covavano sotto la cenere da tanto, troppo tempo.

Mi sono seduto, stanco. E anche io ho continuato a fare finta di nulla, sperando che non fosse successo nulla.

Ma nel pomeriggio è arrivato un messaggio WhatsApp di una Professoressa di un’altra Università:

Si, la verità gliela sto dicendo fino in fondo, dottore Nobili…. perché vede che nella mia risposta c’è l’ammissione che anche io ben sapevo quello che era successo! E, arrivato a casa, sono stato pure contattato dalla Direzione della Libera Università della Responsabilità presso il carcere di Opera riunita a Consiglio su Zoom: fino a quando i miei figli hanno fatto irruzione nella camera da letto perché rivolevano il loro papà e la cena era pronta da tempo.

Ho recuperato la lavagna con le tre parole di Angelica, per ora non me la sento ancora di farle sparire nonostante il dottore Cajani avesse anche portato un cancellino, oltre che i gessetti colorati.

Ho visto i due Carabinieri, così simili nella fedeltà all’Arma come differenti nelle sfumature della voce e del carattere, allontanarsi sulla macchina dell’Avvocato e parlare fitto insieme ad una studentessa.

Ho pensato che anche io ho avuto un padre e una madre, molti bravi maestri fin dalla prima elementare e tanta fortuna.

Ho visto le persone detenute ritornare nelle loro celle, qualcuno ancora con la convinzione di essere anche lui una vittima, o – nella peggiore delle ipotesi – di essere lui la vittima schiacciata tra le pieghe di quella sentenza di condanna.

Ho intravisto Silvia, Martina e gli studenti allontanarsi in due gruppi, a seconda degli stati d’animo contrapposti. E, tra loro, ho notato Angelica e Giacomo che portavano a braccetto il dottore Cajani, come se lo avessero finalmente arrestato. Ma per fortuna non picchiato, perché sembrava che lui fosse davvero sollevato dalla circostanza anche perché in quel modo stavano uscendo, e non entrando, da un carcere di massima sicurezza.

Ho perso di vista Marisa e Paolo, ma sono certo che anche loro stavano pensando a qualcosa perché sono loro i primi ad avere interesse che il ciclo dell’abuso possa finalmente rompersi anche prima dell’ingresso in carcere. E che venga finalmente brevettato, oltre al distributore automatico di conflitti, anche un distributore automatico di umanità.

E mentre cercavo di capire cosa il dottore Aparo avesse pensato in quelle tre ore in cui non ha aperto bocca, ho intravisto spuntare dall’aula di geometria questo appunto sulla teoria degli insiemi:

E in quel momento mi sono ricordato che anche la musica, e non solo la fortuna, mi ha aiutato nel tentare di essere migliore e nel non diventare anche io un carnefice. Come quella strofa che dice “sarei certo di cambiare la mia vita, se potessi cominciare a dire noi”.

Ft. Il bidello

Delitto e Castigo

Il bianco e il nero, l’odio e l’amore

di Ottavia Alliata

Il 19 marzo alcuni membri del Gruppo della Trasgressione si sono riuniti con alcune studentesse del corso del prof. Francesco Scopelliti di Interventi clinici nei casi di procedimenti penali dell’Università Cattolica di Milano per avviare una discussione su Il viaggio di andata e ritorno nel mondo della devianza.

Come si evince dal titolo della lezione, in un primo momento lo scopo è stato quello di individuare, grazie a domande mirate ad alcuni ex detenuti, i fattori chiave che hanno indotto alcune persone a intraprendere la strada della devianza. In un secondo momento, le domande e le curiosità erano volte ad approfondire e condividere le risorse, le attività e i progetti grazie ai quali è stato possibile fare il viaggio di ritorno dal mondo della devianza per abbracciare i valori condivisi dalla società civile.

Dell’intervento di Antonio, uno degli ex detenuti, mi ha colpito una cosa in particolare: gli era stato chiesto di raccontare chi fossero i suoi punti di riferimento durante l’infanzia e lui ha cominciato a parlare di un sentimento di rabbia.

Mi è venuto spontaneo interrogarmi su cosa potessero c’entrare la rabbia e il dolore con le figure di riferimento di quando si è ragazzini. Ero certa che avesse compreso la domanda. Mi ha colpito la scelta, evidentemente molto sentita, di parlare dei propri stati d’animo, emozioni così potenti e pervasive da fungere da guide maestre dell’agire.

Antonio, per ragioni che non conosciamo, si sentiva privo del calore rassicurante e dell’affetto tanto necessari per lo sviluppo; non si sentiva desiderato né accettato; gli mancavano o non sapeva riconoscere nel comportamento dei suoi genitori quelle attenzioni e quel sostegno che permettono di percepire il proprio valore intrinseco, di individuarsi e di collocarsi entro una storia generazionale.

Con queste riflessioni non intendo giustificare gli atti delinquenziali e i crimini che hanno accompagnato questo vissuto invasivo e travolgente, ma vorrei provare a comprendere la radice della rabbia di cui egli stesso parla esplicitamente.

La rabbia è stata per molti anni la migliore amica e la compagna di Antonio; gli ha trasmesso la sensazione permanente di aver subito un torto e pertanto la convinzione che, come tutti i torti, doveva essere ripagato.

Quando si abusa di una persona, magari la stessa per cui mesi prima si era finiti al pronto soccorso per lesioni gravi, si può percepire un senso di controllo e di potere sull’Altro, la sensazione di essere accettati e rispettati dai propri compagni, la sensazione che un equilibrio venga finalmente ristabilito.

Tutti, nel bene e nel male, ricerchiamo una qualche forma di piacere e di gratificazione. La differenza è che chi non è mai stato amato né educato all’amore e al rispetto dell’Altro cercherà di possedere, abusare, controllare o assoggettare l’Altro, che diventa un simulacro temporaneo dell’oggetto del suo amore. Nel gesto di prepotenza sull’Altro si provano una grande eccitazione e un senso di benessere generale, ma come ricordano le diverse testimonianze sul Virus delle gioie corte, si tratta di emozioni tanto intense quanto fugaci e illusorie:

“Quella sensazione dentro di me non durava tanto, infatti appena tornavo a percepire malessere sentivo che mi dovevo procurare di nuovo piacere abusando di qualcuno”.

Da queste parole sembra quasi che far del male possa coincidere con il farsi del bene, con il colmare un vuoto. Proprio perché allontanare la fonte del malessere appartiene alla natura umana, credo sia importante intervenire indagando e facendo uno sforzo per comprendere le radici del malessere di una persona per poi educarla alla ricerca di un benessere, in questo caso meno intenso e sfacciato, ma ugualmente appassionato.

Negli anni ho imparato che la rabbia non è un sentimento negativo di per sé, qualcosa che deve essere rimosso e celato. Lo stesso si può dire per l’odio, che cammina a fianco a fianco all’amore. Proprio grazie al Gruppo della Trasgressione ho riscoperto l’importanza, per ogni concetto, del suo significato opposto; ho scoperto che distinguere il Bene dal Male può rivelarsi meno costruttivo che concepirli come protagonisti di unico cerchio, in cui si fondono colori ora più caldi ora più freddi, dai tratti ora più violenti ora più delicati, eppure assolutamente fondamentali per restituire, a chi osserva, la bellezza di un’idea.

“Ora non mi preoccuperò più di tagliare profili netti, angolature esatte di luce e ombra, ma scaturirà dal mio intimo direttamente luce e ombra, preoccupato unicamente di trasmettere l’immagine senza nessun revisionismo aprioristico” (Emilio Vedova).

Per certi versi mi sono sentita molto vicina ad Antonio, anche se in maniera direi “opposta”: lui ha agìto e ha manifestato senza alcun controllo tutta la rabbia che lo dominava, mentre io sono stata vittima della mia rabbia, ho lasciato che mi corrodesse dall’interno senza permetterle una via di uscita.

A questo proposito, trovo rivelatrici e illuminanti le parole della psicoanalista Danielle Quinodoz che promuove l’importanza di accogliere al proprio interno i sentimenti opposti, come l’odio e l’amore. Infatti, l’odio non va mai scisso ed espulso fuori da sé, serbando quindi solo un amore parziale, ovvero l’idealizzazione, né va confuso con l’amore, poiché l’amore in questo caso rischierebbe di divenire distruttivo.

“Non è facile sbarazzarsi di elementi che si disapprovano: cacciati dalla porta rientrano dalla finestra in altra forma”.

Per la prima volta cerco, non senza fatica, di accogliere quella rabbia che ho sempre negato e chissà… magari Antonio un giorno ritroverà invece quelle parti dei propri genitori e della propria storia che nel profondo ha anche amato.

Percorsi della devianza

Altri link utili: Riscoprirsi per i figli – Il virus delle gioie corte

Il mondo della devianza

Viaggio di andata e ritorno
nel mondo della devianza

Traccia per un incontro con un gruppo di studenti
alla Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio cui prendono parte detenuti, studenti universitari, familiari di vittime di reato e comuni cittadini per

  • chiedersi insieme quali sono gli ingredienti che favoriscono l’ingresso nel mondo della devianza, con i comportamenti e i sentimenti che lo caratterizzano;
  • sperimentare attraverso il lavoro e dei progetti comuni le strade più utili per diventare membri attivi e riconosciuti della collettività.

A tale scopo,  i diversi componenti del gruppo, danno spazio ai sentimenti e alle loro eterogenee esperienze per chiedersi in collaborazione:

 

come si acquista il biglietto di andata:

  • Le condizioni familiari e ambientali, i conflitti, le turbolenze dei primi anni di vita;
  • le fragilità, il bisogno di conferme, la rabbia, il senso di rivalsa dell’adolescenza;
  • La brama di diventare grandi e l’urgenza di accorciare i tempi per sentirsi indipendenti dalle prime figure di riferimento;
  • la seduzione, gli attori, le forme, i meccanismi;
  • I modelli di riferimento e l’ambiente nel quale si ottengono i primi riconoscimenti dal boss, dalla banda;
  • L’iniziazione, la sfida, i gradini dell’ascesa all’interno del gruppo dei pari;
  • I meccanismi di assuefazione all’abuso con “la banalità e la complessità del male”;

 

come si lavora per quello di ritorno:

  • le attività, le aree di interesse e di intervento, i progetti;
  • le collaborazioni all’interno del gruppo e con le istituzioni;
  • le risorse interne e le alleanze possibili.

 

L’incontro con alcuni studenti della cattedra del prof. Francesco Scopelliti è stato registrato su Zoom ed è conservato negli archivi del Gruppo della Trasgressione.

Percorsi della devianza

Ingoia il mio vuoto

Durante il terzo anno, molto prima che iniziasse la pandemia, siamo andati ad incontrare i detenuti direttamente a Opera. Ci siamo disposti tutti in cerchio, gomito a gomito, una cosa che ora non si può più fare.

Mi ricordo che è stato strano pensare di essere a contatto così ravvicinato con persone così diverse,, con un passato carico di azioni colpevoli.

Non ricordo di cosa abbiamo parlato sinceramente, ma ricordo benissimo la sensazione che ho provato durante la testimonianza di uno di loro. Mi ha scossa per la crudezza del racconto, la calma e la consapevolezza delle azioni e delle conseguenze che raccontava. Ho sentito l’intensità di quelle parole fino alle ossa e mi sono messa a piangere in silenzio, mi sono immedesimata a fondo nelle emozioni che mi ha trasmesso la storia di quell’uomo e ho scritto ascoltando il suo racconto, come se parlassi per lui, queste esatte parole sul mio telefono:

 

Ti urlo contro,
ti svuoto,
ti privo del tuo sangue e della tua pelle.

Avverto solo un forte vuoto,
lo sento scivolare in fondo alla gola e
stringere da dentro il mio stomaco.

Così, a mani nude, disperato e arrabbiato
lo tiro fuori e te lo faccio ingoiare.

E non sono insensibile.
Sento cosa provi.

Ma la tua paura aumenta la mia rabbia.
Non chiedermi di smettere perché!
Non mi fa smettere.

In preda a una fame nervosa
lascio scivolare dentro di me granellini di soddisfazione.
Sono piccoli ma pesanti,
mi provocano la sensazione di pienezza
di cui sento il disperato bisogno,
anche se so che tra poco mi abbandonerà.

Non mi accorgo di nulla.
non vedo
non sento
non percepisco questa pazza ricerca interna
che sbatte che sbraita.

Non sento perché non voglio sentire
la ricerca dell’amore e dell’affetto
che mi mancano da una vita,.

L’ho scavata io ho questa voragine?
Mi sono costruito io la mia cella?
Granello dopo granello,
per ingabbiarmi  solo
nel mio stesso vuoto.

È un grande Circuito spento, tutto nero.
Sono schiavo del mio stesso bisogno, della mia stessa fame.

Una bestia arrabbiata,
con il vuoto nella testa e nella pancia.
Distrutto attacco la mia preda
per placare la fame
che mai
mai potrà soddisfarsi.

Rebecca Sucameli

I contributi del Liceo Brera al cineforum

Il male complesso e banale

Un incontro aperto per allargare i confini dell’indagine
che il Gruppo della Trasgressione conduce da anni su

La banalità e la complessità del male

Una intervista registrata di Tiziana Elli e di Edoardo Conti a Roberto Cannavò e ad Adriano Sannino e il dibattito che ne è seguito con loro giovedì 17 dicembre 2020 sulla pagina  Facebook del Gruppo della Trasgressione per

  • esplorare come si sprofonda nella palude del male e con quali mezzi se ne può uscire;
  • comunicare gli obiettivi e le responsabilità del nostro gruppo nella società;
  • conoscere la complementarità fra i diversi componenti del Gruppo della Trasgressione (autori e vittime di reato, studenti e detenuti, cittadini e istituzioni);
  • coltivare le risorse e le alleanze utili per onorare quanto indicato dalla costituzione;
  • investire sulla impegnativa costruzione di nuovi equilibri con nuovi cittadini più che su una lunga e improduttiva segregazione di chi ha offeso in passato il bene comune.

Disamistade (Fabrizio De André), La Trsg.band a Peschiera Borromeo, Novembre 2018

Collegamenti e Approfondimenti possibili:

 

Precarietà

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Giuseppe Ungaretti

La Violenza mi rimanda al senso di Precarietà personale provato ogni giorno dalla vittima di abuso.

Paura costante di essere picchiata, umiliata e abusata. Una donna vittima dell’ira feroce del suo compagno vive continuamente in uno stato di angoscia e d’incertezza, viene annullata dalle parole e dai gesti aggressivi di chi dice di amarla, ma che fa crescere in lei insicurezza e timore di dire o fare qualunque cosa, paura di ribellarsi, di chiedere aiuto a qualcuno, paura di difendersi da chi dovrebbe proteggerla, causando un suo progressivo isolamento dal mondo intero, fagocitata dal buco nero della Violenza.

Insicurezza è ciò che sente una ragazza che torna a casa da sola alla sera tardi con il buio e le strade deserte, percorrendo gli ultimi metri che la dividono dal suo portone di Casa, sperando che quei secondi passino in fretta e di potersi rifugiarsi al più presto tra le mura della sua abitazione.

Timore è ciò che prova una donna che troppe volte si sente fare “complimenti” squallidi da un branco di uomini che bevono la loro birra fuori da un bar e che rinforzano l’un l’altro i loro comportamenti dominanti.

Inquietudine è ciò che prova una ragazzina appena raggiunta la pubertà che si ritrova a doversi difendere da sola da uomini che come stormi di avvoltoi si fiondano sulle sue foto sui social network con commenti di cattivo gusto.

Terrore è ciò che sente una donna seguita fin sotto casa da un uomo predatore che le causa un trauma tale da rovinarle l’esistenza, perché nulla per lei sarà più come prima.

E violenza che provoca un ulteriore trauma è la furia dei commenti a posteriori sul web carichi di rabbia e odio, oppure di indifferenza, nei quali persone esterne alla vicenda trovano delle giustificazioni all’accaduto: “poteva prendere un taxi anziché tornare a casa a piedi”, “non doveva andare in giro cosi “scosciata””, “non doveva tornare a casa a quell’ora”, rendendosi cosi complici dell’abusante e alimentando un pensiero distorto secondo cui possano essere lecite delle giustificazioni alla violenza.

Angoscia è ciò che prova una donna vittima di stalking, costretta a cambiare indirizzo e numero di telefono perché il suo ex le ha reso la vita un Inferno con pedinamenti, appostamenti e minacce  dopo che lei ha trovato la Forza di lasciarlo.

Perdita dell’esercizio del diritto all’autodeterminazione e del senso di autoefficacia personale è ciò che prova una moglie il cui marito non le permette di lavorare per esercitare un controllo ossessivo su di lei e, “generosamente”, provvede ad ogni spesa economica.

La violenza è tutto questo e non solo, essa è radicata nei gesti quotidiani di sopraffazione e negli stereotipi di genere ancora presenti in un mondo che si considera tanto moderno per certi versi ma che è ancora tanto retrogrado per altri aspetti e che produce una progressiva assuefazione alla discriminazione e all’abuso, facendo apparire come normali frasi o atteggiamenti di prevaricazione nei confronti della donna perché vissuti ormai come quotidiani e quindi banalizzati, rinforzati dalla pubblicità, dai programmi televisivi e da alcuni politici.

Il principio per il quale alcuni atteggiamenti e comportamenti verso il genere femminile risultano leciti e giustificabili è sbagliato alla base! Non sta a noi donne dover dimostrare il contrario, ma è l’intera società a dover insegnare l’amore ed il rispetto verso qualunque essere umano in quanto tale.

Che si tratti di violenza psicologica, fisica, sessuale o economica, è comunque  Violenza quella per cui si smette di riconoscere l’Altro come una Persona e lo si calpesta per saziare i propri bisogni personali in maniera egoistica e arrogante, riducendolo a mero Oggetto.

Arianna Picco

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Non posso dimenticare

Io non posso perdonare, perché non posso dimenticare. Non posso dimenticare come hai distrutto la spensieratezza e la leggerezza che avrebbe dovuto accompagnare i miei vent’anni.

Non posso dimenticare come hai demolito quel senso di fiducia nell’altro che, forse ingenuamente, da sempre mi ha contraddistinta.

Non posso dimenticare come, attraverso il tuo narcisismo, hai deciso di annullare il mio valore, considerandomi un oggetto di tua proprietà, privandomi della libertà di scegliere.

Non posso dimenticare come oscillavi tra il chiedermi aiuto disperatamente e il vomitarmi addosso tutta la tua rabbia, come se fossi io la causa del tuo tormento.

Non posso dimenticare il mio desiderio di urlare e di come questo non sia mai stato ascoltato e compreso da nessuno, poiché nessuno poteva garantirmi una protezione dal tuo delirio.

Non posso dimenticare come invece sia stato chiesto a me di cambiare, di nascondermi, di andare lontano, di modificare le mie abitudini e sparire, come se fossi io quella sbagliata.

Non posso dimenticare gli sguardi attoniti delle persone che mi circondavano e la facilità con cui hanno deciso di voltarsi dall’altra parte.

Non posso dimenticare gli occhi preoccupati di mia madre, che mai sono stati così in grado di comunicare, pur senza dire una parola.

Non posso dimenticare la paura, non ci riesco.

L’unica cosa che posso fare invece è imparare a convivere con la mia sofferenza, guardandola dritta in faccia ed impedendole di disintegrarmi ogni volta che ci penso, perché nulla ormai si può fare rispetto a quanto già accaduto.

Federica Turolla

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