Emozioni e abuso

Innanzi tutto desidero ringraziare il Dott. Aparo per il testo che ci ha consegnato: “Istruire una prossimità”, scritto che mi permette di fare ulteriori riflessioni sul mio passato deviante e carico dell’umanità di chi crede realmente che risanare il tessuto sociale lacerato dall’abuso sia utile non solo a vittime e carnefici ma anche a tutti coloro che si impegnano costantemente nella ricerca della verità. Questo scritto è per me un pozzo pieno d’acqua per placare l’arsura, sete che si identifica nella continua ricerca della coscienza smarrita, cammino che ritengo non abbia mai fine e che pertanto vada nutrito quotidianamente.

Come tanti altri miei compagni, fino a pochi giorni fa io ritenevo che, all’epoca degli abusi, la vittima fosse per me solo un ostacolo da abbattere per raggiungere i miei obiettivi. E intanto pensavo di non provare alcuna particolare emozione verso “l’ostacolo”. Per anni mi sono detto che all’epoca dei reati la vittima era stata per me un oggetto estraneo senza nome. Questa mi è sembrata per anni la spiegazione della facilità con cui insultavo la vita mia e altrui, della anestesia che mi permetteva di combattere la mia guerra per conquistarmi ciò che la vita mi aveva negato.

Questa convinzione di non provare emozioni durante l’abuso si era talmente consolidata nella mia mente che mi ha accompagnata fino a pochi giorni fa! E’ stato grazie ai dubbi sollevati dal dott. Aparo in merito a questa convinzione, che tra l’altro accomuna quasi tutti gli abusanti, che ho iniziato a rifletterci a fondo.

E così mi si è aperto un mondo che avevo completamente trascurato e con il quale sto imparando a dialogare. Mi sono reso conto che non è possibile non provare emozioni, specialmente quando uccidi un uomo: sarebbe disumano!

Allora perché, inconsciamente, adottavo questo sistema? L’unica spiegazione che riesco a darmi è che anche il peggior criminale non potrebbe convivere con l’enormità derivante dall’uccisione di un proprio simile e quindi per una forma di protezione elabora un meccanismo di difesa che gli consente di non sentire prossimità con la vittima.

Prendere confidenza con le emozioni che ho seppellito all’epoca dei fatti è un processo doloroso ma catartico, che mi aiuta a mettere in comunicazione il ragazzo “che non voleva sentire” con l’uomo in evoluzione quale mi sento.

Di tutti gli attori che vengono coinvolti nella spirale dell’abuso è certamente alla vittima – o a un suo parente – che si dovrebbero indirizzare le maggiori attenzioni, perché come dice il Dott. Aparo: “perdere il proprio caro per volontà di una marionetta mossa dal delirio di onnipotenza genera un tormento che non si placa”.

Io ho avuto il privilegio di partecipare al progetto “Sicomoro”, il quale ha messo a confronto vittime e carnefici. Quando ho fatto questa esperienza, sette anni fa, avevo già iniziato da tempo il mio viaggio nella profondità del male che avevo causato. Ma quando mi sono trovato di fronte a persone in carne e ossa, con tutto il loro carico di dolore che traspariva dagli occhi ma anche da ogni gesto o parola che pronunciavano, tutti gli abusi da me commessi, come un boomerang, mi sono piombati addosso. L’impatto con la realtà mi ha destabilizzato per parecchio tempo: mi sono sentito l’essere più schifoso della terra.

Ma poiché la vita, come una madre, non smette mai di accogliermi con la sua generosità, l’aiuto che necessitavo è arrivato proprio dai familiari delle vittime, che al termine del viaggio fatto insieme e durato tre mesi, mi hanno donato un abbraccio che si è scolpito indelebilmente nel mio cuore. Ritengo che loro abbiano (naturalmente mi riferisco a quelli che sono pronti per iniziare un processo di guarigione) un vitale bisogno di vedere nel carnefice il risveglio della coscienza, forse perché la vita che è stata loro strappata sta generando una nuova vita nell’abusante e questo rende un po’ meno traumatica l’assenza del proprio caro.

Da qualche mese ho stretto un bellissimo rapporto con Elisabetta, una mamma alla quale un folle che guidava un’auto ha ucciso il figlio di soli 15 anni! Tra Elisabetta e me sta nascendo una relazione che si avvicina alla parentela; infatti, non so grazie a quale magia, quando ci sentiamo o vediamo, spesso ci chiamiamo “sorella e fratello”. Io, che sono un ex assassino, vengo chiamato fratello da una donna cui hanno ucciso un figlio… è pazzesco! Ma anche questa è una meraviglia della vita. Lei è una delle mie più fervide sostenitrici e preferirei bruciare vivo piuttosto che arrecarle altro dolore. E così avviene che invece di essere io a donarle sollievo è lei che mi aiuta a riempire di nobili contenuti la mia esistenza. Grazie Elisabetta e grazie a tutti quelli che mi stanno aiutando a riscrivere la mia storia con i colori dell’amore.

Sono pienamente convinto, per averlo sperimentato personalmente, che il primo segnale di “cambiamento di rotta” avviene dentro noi stessi. Senza questo desiderio profondo di evolvere nessuno può aiutarci perché ci si trova in una condizione di “sordità e negazione”. Dopo questo primo e fondamentale step è altresì necessario trovare delle guide che ci indirizzino verso i valori su cui poggia la civiltà, una sorta di moderni Virgilio che ci tendano la mano nell’arduo percorso di risalita dagli inferi.

Naturalmente l’apporto delle figure istituzionali è altrettanto fondamentale per riappropriarsi del valore rappresentato dalla giustizia e dalla legalità. Lassismo, menefreghismo e addirittura indifferenza delle Istituzioni, spesso sono l’ago della bilancia in negativo nel recupero del reo, perché è evidente che chi o coloro che rappresentano un punto di riferimento, se abusano del proprio potere per gestire i loro interessi, incidono in modo estremamente sfavorevole nella mente già deviata dei criminali, la quale fa un semplice ragionamento di comodo: “poiché se ne fregano loro perché dovrei impegnarmi io?” Quindi, per arginare lo sconvolgimento che provoca l’abuso è necessario l’apporto di tutti gli uomini che hanno a cuore la vita. Inoltre, ritengo che perseguendo questo nobile cammino possiamo solo arricchirci e riappropriarci della libertà che a causa di tutti gli abusi perpetrati in passato è stata svilita, violata e maltrattata, lasciandoci in una condizione di apnea.

Non c’è dubbio che la situazione delle carceri (Opera è da una decina d’anni un’eccezione) non favorisce l’evoluzione del reo, soprattutto a causa della scarsità di strumenti trattamentali atti a sostenere la rielaborazione critica del passato criminale; anche la pochezza di progetti a lungo termine non ne incoraggia il reinserimento e tutto ciò ostacola il cambiamento.

Naturalmente questo non deve diventare un alibi per scaricare le proprie responsabilità sugli altri, anche perché, a mio avviso, il processo interiore che ognuno deve compiere per migliorarsi non può arrestarsi per nessun motivo. Mi piace pensare a una futura alleanza tra detenuti e figure istituzionali: i primi con l’obiettivo di diventare cittadini, gli altri per elevare il livello di giustizia in un mondo in cui la menzogna sembra prevalere su tutto.

Alessandro Crisafulli

Istruire una prossimità

Un commento su “Emozioni e abuso”

  1. Grazie Juri, grazie fratello Alessandro .
    Mi avete donato un po ‘di ossigeno in questo momento particolare e difficile della mia vita.

    Vi abbraccio con tutto l’affetto che posso

    Elisabetta

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