Per una pena non ostativa alla coscienza

In qualità di volontaria e componente del Gruppo della Trasgressione e dopo anni di frequentazione e di ascolto dei detenuti e delle loro esperienze, vorrei esprimere ciò che ne ho ricavato, sperando di dare un contributo al documento che il nostro gruppo si prefigge di produrre sull’ergastolo ostativo.

Le persone arrivano in carcere perché hanno effettuato delle scelte e di queste i detenuti parlano già dai primi tempi della frequentazione del gruppo. Ascoltandoli, si coglie che molti di loro, guardando all’indietro, considerano le loro scelte (quelle che si sarebbero poi rivelate gravide di conseguenze) a volte del tutto casuali, altre volte inevitabili: casuali, soprattutto quelle all’inizio della loro esperienza deviante; inevitabili, quelle avvenute dopo tante altre effettuate nella stessa direzione e in una fase avanzata del cammino che li avrebbe condotti in carcere.

Ad ascoltare un detenuto all’inizio del suo percorso di riflessione, si comprende che, secondo lui, tali scelte (casuali o indotte dalle circostanze) erano state comunque espressione della sua volontà; si avverte chiaramente che è sua esigenza rassicurare se stesso d’essere stato protagonista consapevole della propria vita.

Man mano che il percorso di riflessione avanza e si approfondisce, il detenuto comprende e ammette che non è così, che le sue scelte, anche quando egli se ne sentiva pienamente autore, erano avvenute perché egli non aveva consapevolezza o volontà sufficiente per scegliere diversamente, perché il suo sguardo sul mondo e sulle persone e, non di meno, gli stati d’animo che viveva all’epoca restringevano drasticamente l’orizzonte delle scelte riconoscibili e, a conti fatti, accessibili.

Dunque, uno dei nodi da affrontare quando si vuole parlare di rieducazione è la ricognizione dei sentimenti, delle emozioni, degli stati d’animo, delle influenze che avevano agito sulla persona nello spaccato della sua realtà familiare e sociale, guidandone le scelte, apparentemente libere, in realtà profondamente condizionate.

A tale ricognizione è importante che il detenuto arrivi per sua decisione, cioè in conseguenza di una scelta sintonica con i suoi desideri attuali, consapevole che ciò che scoprirà o ricorderà sarà di enorme aiuto per conoscersi, per capire chi era prima di deviare e per cominciare a ritrovare parti di sé e aspirazioni che credeva perdute o che non sapeva nemmeno di avere.

Così comincia la (ri)costruzione della coscienza. Tale (ri)costruzione è l’obiettivo della rieducazione di cui parla la nostra Costituzione.

Un aspetto centrale è la convinzione che la rieducazione non cambi l’indole o la personalità del detenuto; non le cambia perché non è possibile o perché non è auspicabile? E dunque, a che cosa deve mirare la rieducazione?

Ad aiutare il detenuto a ricostruire una scala di valori in base alla quale effettuare le proprie scelte!

Quella usata al tempo dei reati, infatti, si è rivelata fallace, ma era quasi sicuramente ego-sintonica; bisogna dunque costruirne una nuova, adatta alle scelte di un cittadino e non più di un criminale, ma altrettanto capace di rappresentare i desideri della persona che nel frattempo si è diventati. Non è opportuno che la scala di valori sia imposta al detenuto, deve essere da lui (ri)scoperta, accettata e introiettata.

Per arrivare a questo punto, ma soprattutto per andare oltre e migliorarsi sempre, il confronto con le persone che vengono dall’esterno è indispensabile. Persone, gruppi, scolaresche, studenti, tirocinanti, volontari, chiunque desideri mettersi a disposizione di una rinascita individuale e sociale. La ristrettezza delle sbarre, inevitabile all’inizio e forse anche utile, man mano deve essere accompagnata da un confronto con il mondo esterno.

In questo quadro quale funzione attribuire all’ergastolo o all’ergastolo ostativo?

L’ergastolo contribuisce di per sé alla (ri)creazione della coscienza, che è l’unica forma di rieducazione valida e duratura? Io non credo. La carcerazione, più o meno lunga in relazione al reato, rappresenta la punizione per il reato commesso e, forse, è anche necessaria e opportuna, ma deve sempre essere il presupposto per una crescita personale che riporti il detenuto ad essere un uomo e un cittadino; deve quindi essere affiancata a un percorso di evoluzione, senza il quale risponderebbe solo a criteri punitivi, forse comprensibili dal punto di vista del singolo cittadino, ma certamente sterili dal punto di vista di uno Stato che ha come obiettivo dei cittadini responsabili.

L’ergastolo ostativo contribuisce per le sue caratteristiche a far meglio dell’ergastolo normale? Io non credo, perché il vincolo che rende indispensabile la collaborazione con la giustizia, come elemento per giudicare attendibile il pentimento e la dissociazione dal mondo malavitoso di appartenenza, non garantisce quello che promette e potrebbe anche essere usato dal detenuto in modo opportunistico.

Egli potrebbe non avere nulla di nuovo e di utile da segnalare alla giustizia, o potrebbe temere ritorsioni contro la sua persona o i suoi cari, o potrebbe anche segnalare vecchi compagni di squadra senza davvero essersi dissociato interiormente, senza avere acquisito di nuovo una coscienza.

Parlare di ergastolo, dunque, non ha senso se si vuole davvero incidere sull’umanità che ha sbagliato e darle la possibilità di dimostrare di averlo capito. Senza questa speranza l’ergastolo, e forse in particolare l’Ergastolo Ostativo è una vendetta e non più una punizione.

A questo punto il problema potrebbe essere quello di avere gli strumenti per misurare il possesso di una coscienza. Il Gruppo della Trasgressione è stato spesso efficace in tal senso e questo è il motivo per cui si è guadagnato la stima e il riconoscimento da parte di molti, ultimamente anche delle Istituzioni carcerarie e politiche. Lo stesso, immagino, vale per altri gruppi che perseguono finalità analoghe.

Ma se questi gruppi hanno un valore, se rispondono a quanto la Costituzione e i nostri ordinamenti si aspettano dalla pena, perché non vengono sostenuti? Se quello che da questi gruppi viene fuori è un risultato effettivo e riconoscibile, è necessario che l’istituzione ne esamini l’operato, approfondisca se e come ciascuno di loro coltiva gli obiettivi cui deve rispondere la pena, ne sostenga il confronto degli uni con gli altri. E laddove vengano riconosciuti l’efficacia e i risultati del loro operato e del metodo, occorre renderli paradigmatici, dotandosi delle risorse umane indispensabili perché tutto ciò funzioni al di là dei pionieri che hanno aperto nuove strade nel campo della rieducazione.

Se anche c’è stato un tempo in cui i laboratori della coscienza nati in carcere sono stati più simili a botteghe d’arte che a officine, oggi è probabilmente giunto il momento di provare a far diventare scienza quello che in passato è stato il risultato dell’estro di qualcuno. In questo modo, molti più detenuti tornerebbero a essere uomini, le carceri sarebbero meno affollate, la società sarebbe più sicura.

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Un commento su “Per una pena non ostativa alla coscienza”

  1. Complimenti! Significative queste parole, lineari e distintivi questi concetti, che descrivono la consistenza operativa del gruppo.
    È percepibile la generosa, tenace e intensa opera di analisi, dialogo e confronto collettivo con i detenuti per attivare il risveglio della coscienza e della persona che, facendo perno sulle sue spinte costruttive, viene sollecitata ad emergere, crescere e generare una nuova scala di valori. Soltanto attraverso vari stimoli e con l’aiuto di risorse competenti, la persona può sentire la voglia di rinascere, cambiare e progettare nuovi obiettivi.

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