Stefano Mancuso e le piante

Stefano Mancuso propone una visione delle piante rivoluzionaria, che porta a proporre un cambiamento del paradigma cui siamo abituati nel definire la Terra e gli esseri viventi.

L’uomo deve arrivare a capire che è solo una delle specie viventi, che non ha senso definirsi migliore, deve invece avere cura di tutte le altre specie e delle connessioni con esse. Tutto ciò se vuole che la sua specie sopravviva.

Di sopravvivenza si parla, infatti. Sul pianeta mediamente una specie vive 5 milioni di anni. La nostra specie “homo sapiens sapiens” esiste da 300.000 anni. Ci mancano 4.700.000 anni di sopravvivenza, se fossimo come le altre specie. Ma non lo siamo, perché noi usiamo le altre specie considerandole risorse messe a nostra disposizione. Se non riuscissimo a superare i 4.700.000 anni che ci mancano vorrebbe dire che non abbiamo saputo fare buon uso del cervello.

Le piante sono la vita stessa e ne garantiscono la sopravvivenza perché hanno usato le loro capacità per affrontare i pericoli e risolvere i problemi. Secondo Mancuso le piante hanno un cervello ma non essendo strutturate come l’uomo secondo una organizzazione piramidale e verticistica molti ritengono che non abbiano intelligenza. Mancuso sostiene il contrario. L’intelligenza, secondo i parametri usati per l’uomo, è la capacità di risolvere i problemi, capacità di resistenza, capacità di percezione e di apprendimento, memoria, comunicazione.

Le piante possiedono tutto ciò, ma alcuni lo contestano, sulla base della diversità dei bisogni rispetto all’uomo: bisogno di muoversi e muoversi in fretta, che ovviamente le piante non hanno, ma hanno tutto il resto.

Le piante sono l’87% della vita, gli animali, uomini compresi, sono lo 0,3%, il resto funghi muffe e microrganismi. Davvero può essere che l’87% delle creature sia stupido?

Le piante vivono in media 50 milioni di anni, la nostra specie 5 milioni di anni. Noi pensiamo di essere migliori ma migliore che cosa significa? Che si pone obiettivi e che li raggiunge con efficacia.

Qual è l’obiettivo primario nella vita? La sopravvivenza. Tutti dipendono dalla sopravvivenza, noi lo condividiamo con tutti gli altri esseri viventi. E, a questo riguardo, basta dire che le piante producono ossigeno e fissano l’anidride carbonica, formano il clima e nella forma delle foreste primarie e garantiscono la sopravvivenza delle specie (ne accolgono il 90%).

WIKIPEDIA – STEFANO MANCUSO 

Piccole e grandi rivoluzioni nella storia dell’umanità

Violenza di gruppo

Provo a parlare della violenza operata in gruppo. Non ritengo che la violenza di genere meriti un capitolo a parte.

Comincio con l’affermare che il gruppo dà forza, fa sentire potenti, rende capaci di compiere azioni che individualmente non avremmo mai il coraggio, o la viltà, di compiere.

Nel gruppo ci si sente appoggiati, compresi, riconosciuti. Nel gruppo si ritrova un’appartenenza che fa sentire completi, che rimanda un’immagine di noi più forte e solida.

Il gruppo mette in atto una tecnica che in natura viene adottata dai predatori. I lupi cacciano in branco, i leoni pure. Circondano il gregge o la mandria, ne isolano un membro, lo inseguono, lo azzannano e poi lo sbranano.

Penso che tale comportamento apparteneva in origine a tutti gli esseri viventi, quando l’uomo si sentiva, ed era, parte della natura, guidato nelle sue azioni da pulsioni istintive, innate, considerate naturali, esenti da qualsiasi valenza morale.

Poi è subentrata la civiltà. Un po’ per volta la parte razionale dell’uomo si è affiancata alla parte istintuale e l’ha ridimensionata. La proporzione tra le due è andata man mano equilibrandosi, ma in qualche modo la parte istintuale è riuscita ad assicurarsi spazi di espressione socialmente accettati quando non elogiati. Per esempio in guerra quando la presenza di un nemico da sconfiggere e poi sconfitto autorizzava all’uso di atti efferati gratuiti al fine di raggiungere lo scopo, la vittoria. Prova ne è che dagli eventi più lontani di cui si ha memoria storica ai più recenti, lo stupro delle donne del nemico è stato perpetuato senza remore.

La civiltà si è man mano diffusa e ha dato luogo a culture diverse secondo le zone geografiche e le appartenenze religiose e linguistiche, ma non ha influito su questo modello di comportamento.

Anzi, spesso la cultura ha usato gli strumenti razionali in suo possesso per originare ideologie basate sulla violenza e propagandate come vitali.

Mi verrebbe da dire che la violenza di gruppo ha all’origine

  • la negazione di spazi dove l’uomo possa esprimere la sua appartenenza alla natura, negazione perpetrata dalla civiltà
  • il bisogno costante, più o meno consapevole, più o meno colpevole, di crearsi un nemico per andare avanti.

La domanda potrebbe essere: avanti dove?

Sulla violenza di genere

Al gruppo di Bollate, in conseguenza dei fatti recentemente accaduti, durante gli ultimi incontri si è parlato sulla violenza di genere e sugli stupri di gruppo.

Io penso sia una questione complessa in cui si intrecciano fattori diversi, alcuni individuali, alcuni sociali. Tre sono i presupposti che non vanno dimenticati, a mio avviso.

Il primo è che la violenza appartiene all’essere umano per natura; il secondo è che l’essere umano non vive come un anacoreta ma è immerso in un contesto sociale, di cui va cercando approvazione e da cui si aspetta riconoscimento; il terzo è che ogni azione viene compiuta alla ricerca del piacere.

È attraverso l’educazione che impariamo a controllare gli istinti, le pulsioni e i desideri e a dare loro un’espressione socialmente accettabile.

Secondo me, tale educazione al controllo manca, manca la condivisione di un modello umano e sociale consapevole che tale controllo è necessario.

Se parliamo di violenza di genere io credo che alla base ci sia la conquista da parte della donna di un ruolo sociale che le riconosce diritti sul piano giuridico e capacità apprezzabili in ogni ambito, magari diverse da quelle dell’uomo ma comunque preziose. L’uomo si sente sminuito, meno necessario, confuso e incerto su quale debba essere il suo nuovo contributo sociale. L’uomo ha perso potere, un potere che prima gli veniva riconosciuto a prescindere, per il fatto di essere un maschio, e che ora deve in un certo senso meritare. Dunque l’uomo ha paura.

A questo si aggiunge un cambiamento dei costumi sessuali, (qualcuno parla di liberazione io sarei più cauta nell’uso del vocabolo ) che non aiuta. La donna rivendica una parità di espressione sentimentale e sessuale paritaria e non è più disposta a sottostare all’egemonia dell’uomo. L’uomo si sente messo in discussione anche sul ruolo e sui comportamenti che attengono al rapporto di coppia. Dunque, di nuovo, l’uomo ha paura. E reagisce con la violenza.

Se a questo quadro aggiungiamo l’uso fuori controllo dei social media:

  • che danno anche ai bambini libertà di accesso a siti e contenuti pornografici (che farebbero arrossire i frequentatori di case di piacere di una volta);
  • che sono comunque basati su una rappresentazione dei ruoli sociali e sentimentali appartenenti a una cultura patriarcale, per usare un aggettivo gentile;
  • che sono anche caratterizzati da un generico ribellismo che fa credere ogni protesta legittima, giustificata e giustificabile,

otterremo a mio parere una parte della risposta.

Manca l’educazione sessuale, manca l’educazione sentimentale, ma soprattutto manca l’educazione in senso lato, un’educazione che insegni a raccogliere dati, informazioni che consentano di comprendere ciò che si legge, ciò che si vede, ciò che si ascolta, ciò che si vive, ciò che si desidera.

Uomini e donne

Il mio infinito senza stelle

L’infinito mi inquieta. Pensare a un’entità in continua espansione che non ha limiti temporali  e spaziali mi fa vacillare.

Anche l’infinito interiore che ogni uomo ospita dentro di sé mi dà un senso di vertigine: un gorgo di emozioni, sensazioni, sentimenti, pensieri, ragionamenti, desideri e pulsioni che si mescolano in un turbinio frenetico e spesso inestricabile.

Dunque che cos’è per me l’infinito senza stelle?

È l’interminabile catena di ingiustizie gratuite cui assisto ogni giorno.
È l’africano senza tetto massacrato senza ragione ma con grande gusto da due adolescenti nostrani.
Sono le vittime di Cutro che avrebbero potuto essere vive e, magari, anche felici.
Sono gli annegati di Pilos, morti per niente. Più di cento bambini i cui occhi non si spalancheranno più per la meraviglia, non brilleranno più di desiderio.
Sono gli operai pagati due euro l’ora.

Sono gli arbìtri commessi sui loghi di lavoro, dove padroni senza decenza esercitano i loro poteri di vita e di morte sugli schiavi contemporanei.
È una corruzione estesa e profonda e apparentemente inarrestabile che ostacola l’andamento lineare della vita delle persone.
Sono i mutamenti di linguaggio che facendo mostra di modernità oscurano l’indecenza delle situazioni lavorative che li generano e così il quiet quitting e il quiet firing sembrano accettabili.

Sono i richiedenti asilo che vengono respinti o ignorati.
È l’ipocrisia della UE che con convinzione sostiene che i richiedenti asilo vanno aiutati a casa loro e pagano cifre miliardarie perché a casa loro venga impedito loro di partire.
È l’ipocrisia con cui fingiamo che i campi profughi in Libia non sono l’inferno che sono, avallando così stupri, sevizie, torture di ogni genere.
È ancora l’ipocrisia per cui se i richiedenti asilo sono biondi e con gli occhi azzurri si accolgono, mentre per gli altri sono indispensabili dei distinguo.
È ancora l’ipocrisia con cui distinguiamo tra migranti economici e migranti politici come non sapessimo che in alcuni luoghi partire è l’unica possibilità per sopravvivere.

Sono i tagli alla sanità pubblica che hanno decurtato la possibilità di essere curati a coloro che sono socialmente deboli.
Sono gli inquinamenti tollerati che hanno causato e causano decessi evitabili a Casale Monferrato e a Taranto, per citare i casi più noti.
Sono i guadagni faraonici della Società Autostrade  macchiati del sangue di chi è perito per il crollo del ponte Morandi.
Sono i carcerati picchiati e umiliati senza ragione.

Sono le migliaia di permessi di costruzione concessi illegittimamente che hanno contribuito alla devastazione dell’ambiente.
È l’incessante consumo di suolo che in Italia divora ogni giorno un’area equivalente a un campo di calcio.

Sono le classi pollaio dove professori sempre più inermi tentano di insegnare, educare, includere, riuscendoci sempre meno.
Sono tutti i fragili violentati fisicamente o moralmente per come sono, per il loro orientamento religioso, politico, sessuale o a volte solo perché ci sono.

Sono i crimini e le uccisioni perpetrati a qualunque titolo.
Sono gli abusi esercitati su qualunque soggetto.
Sono i fiumi di droga che scorrono e che obnubilano le menti di chi ne fa uso.

Ogni volta che uno di questi fatti accade si spegne una stella e il mio infinito è un po’ più buio.

E poi vengo a sapere che quattro bambini sudamericani sono sopravvissuti 40 giorni in una delle foreste più impenetrabili del pianeta e sono stati ritrovati in buona salute.
E poi mi dicono che con il legno dei barconi dei naufraghi sono stati costruiti violini.

E allora accantono il pessimismo della ragione e accolgo l’ottimismo della volontà e riprendo a sperare. A sperare che l’armonia dei violini superi lo stridore degli schianti. A sperare che il mare torni a profumare di salsedine e non più a odorare di morte.

In fondo dipende da noi, da ognuno di noi fare in modo che l’infinito torni ad avere le stelle.

Nuccia Pessina

L’infinito senza stelleI violini del mare contro l’indifferenza

Il padre

I Greci antichi avevano capito molte cose. Tra le loro opere l’Odissea può ancora oggi trasmetterci messaggi preziosi che, tra l’altro, aiutano anche a chiarire alcuni concetti su cui anche noi del Gruppo stiamo riflettendo, accettando alcune interpretazioni o dubitandone.

Nell’isola di Itaca spadroneggiano i Proci, figure proterve che circondano con la loro tracotanza Penelope, regina dell’isola, rimasta sola a governare perché il marito Ulisse è partito per la guerra e, dopo anni, ancora non fa ritorno. La insidiano, si sono installati nella reggia dove passano il tempo tra gozzoviglie e alterchi. Insidiano la sua virtù di donna chiedendola in moglie e pretendendo che lei scelga uno di loro e insidiano nel contempo il suo potere, perché bramano il regno.

Penelope si difende come può, procrastinando la scelta fino al momento in cui avrà finito la tela che la vede impegnata ogni giorno. Ogni giorno diligentemente tesse e la tela si allunga ma poi la notte con altrettanta diligenza la disfa, accorciandola.

Telemaco, il principe figlio di Ulisse e Penelope, cresciuto senza padre e divenuto adolescente non sopporta più la situazione. È arrabbiato col padre perché è cresciuto senza di lui, gli sono mancati attenzione, affetto, insegnamenti, sicurezza che la presenza di un padre dovrebbe garantire. È arrabbiato, poco gli importa che suo padre sia un guerriero valoroso, un eroe di cui la società ha bisogno.

È molto arrabbiato ma capisce che senza il padre la situazione sua, familiare, dell’isola, sarebbe precipitata fino a un punto di non ritorno. E allora prende la sua prima decisione da uomo: va a cercarlo. Arma una nave, si procura l’equipaggio e lui, giovane che non si è mai allontanato da casa, inesperto di mare e digiuno di arte della navigazione, va a cercare il padre.

Reparto LA CHIAMATAGenitori e Figli

Nuccia Pessina

Un reparto d’atmosfera

In un reparto che nasce per i giovani carcerati, ritengo siano almeno due gli elementi che non possono mancare per una giusta partenza: un’atmosfera di libertà e di responsabilità, come dovrebbe essere fuori, nella società dei “normali”, se le cose andassero per il verso giusto.

La libertà dev’essere nell’aria, si deve respirare a cominciare dall’inizio: la libertà di aderire all’ingresso nel reparto. Nel reparto ci entra chi vuole e deve sapere che molte saranno le attività proposte e quelle richiedibili ma che tutte dovranno convergere verso un obiettivo imprescindibile: la costruzione della responsabilità.

Dopo la scelta iniziale, la libertà dovrà manifestarsi nella possibilità di interazione con gli interni ma anche con gli esterni. Interazioni con coetanei ed educatori, con esperti e insegnanti, con psicologi e volontari, interazioni che presuppongano ascolto e collaborazione, impegno individuale e coinvolgimento di gruppo, formulazione di obiettivi in cui riconoscersi e per cui lavorare e  valutazioni del percorso condivise.

Un lavoro immane ma anche entusiasmante! Il confronto deve essere continuo e, per essere stimolante, dovrà basarsi su attività varie: letture da comprendere, interpretare e su cui dibattere; composizioni personali spontanee o guidate; visione di filmati e osservazioni di immagini; ascolto di musiche, messa in scena di canovacci proposti o frutto delle varie discussioni o rielaborazione personale….

Chi sarà a fare le scelte e a guidarle? Un educatore? Uno psicologo? Un carcerato? Un triumvirato? Questa domanda e le risposte che le si daranno sono importanti quanto il punto di partenza.

Due, secondo me i pre-requisiti perché il progetto abbia le gambe: il desiderio di partecipare e la capacità di ascoltare sé e gli altri, da parte di tutti i soggetti coinvolti.

Sicuramente ci sarà molto da discutere e da lavorare per individuare obiettivi di breve, medio e lungo termine. Per poterlo fare bisogna sapere quali soggetti esterni e con quali competenze parteciperanno ai lavori, quali i tempi e le disponibilità delle istituzioni, quali le aspettative.

Un punto di partenza ma anche una stella polare per orientarsi nel percorso potrebbe essere l’affermazione del dottor Aparo che “si suicida chi non ha obiettivi credibili e porta dentro un rancore profondo”, giusto per non dimenticare che il percorso non potrà essere solo culturale ma anche psico-pedagogico.

Reparto LA CHIAMATA

Gli orizzonti della miseria

Vedo nelle riflessioni pseudo-sociologiche deliranti di Raskolnikov la sapiente costruzione di un nemico contro cui combattere e potersi scagliare, un nemico che legittima la sua identità.

L’usuraia è il “pidocchio” perfetto da eliminare senza porsi troppi interrogativi. Persino il caso, che fa capolino tra le righe, viene comunque piegato a beneficio delle sue teorie e dei suoi obiettivi.

Per caso entra in trattoria e ascolta la conversazione tra due sconosciuti a proposito dell’usuraia e le informazioni che riceve dal loro colloquio sempre più lo autorizzano a compiere un’azione per la quale non esiste nessuna possibile autorizzazione.

Emerge la Russia in questo romanzo, come in tutti gli scritti di Dostoevskij, una Russia, tra le altre cose, poverissima.

Si delinea una miseria che spinge le persone ad abitare in stanzucce così anguste da poter raggiungere il chiavistello della porta d’ingresso senza alzarsi dal divano.

Una miseria che fa girare Raskolnikov malvestito, sudicio perché non possiede biancheria di ricambio, con gli stivali sfondati.

Una miseria che tiene Raskolnikov a pane e acqua, per giorni senza mangiare, in preda a una febbre che lo porta al delirio, mascherando con questo quello precedente, forse innato o stimolato dalle circostanze.

Una miseria che lo spinge fuori corso, gli fa abbandonare l’Università, lo allontana da quei dibattiti nei quali amava infervorarsi e che testimoniano il bisogno di rinnovamento che come un fremito percorre la Russia del periodo.

Una miseria così nera da spingere a porre una domanda, che talvolta io ancora oggi mi pongo e a cui non è così scontato trovare una risposta soddisfacente: una persona febbricitante e digiuna da giorni quanto può essere lucida? Esiste un rapporto tra malattia e crimine? E se esiste qual è? Come lo si definisce?

Delitto e Castigo

Cosa vedo sulla tela

Che cosa vedo sulla tela, dopo aver ascoltato le riflessioni di tutti?

Vedo una luminosità non omogenea: la parte sinistra è illuminata, la parte destra è buia. La luce proviene da almeno due fonti: una collocata in alto che fa scendere la luce obliquamente, un’altra altrettanto non definibile (forse la porta  aperta da cui sono entrati Cristo e Pietro) che illumina il fianco destro dell’uomo con la spada.

Vedo uno spazio fisico anch’esso non chiaramente definito: è un interno o un esterno?

Vedo Cristo e Pietro, nella zona oscura. Sono vicini e l’uno è nascosto dal corpo dell’altro. Solo il volto del Cristo è visibile.

Vedo un gruppo di figure disomogenee per età a sinistra.

Vedo figure vestite secondo l’uso seicentesco a sinistra e figure vestite astoricamente a destra.

Vedo un gruppo di uomini nella parte illuminata. Sono uomini comuni, seduti intorno a un tavolo, ma nulla li coinvolge l’un altro. Ciascuno sembra far parte per se stesso: chi guarda dei fogli, chi guarda distrattamente in giro, chi è assorto, chi è di schiena. La vicinanza è solo fisica. E nessuno si accorge di quel che sta accadendo.

Eppure qualcosa sta accadendo, se il il viso di Matteo è caratterizzato da un’espressione di forte sorpresa. La comunicazione, assente tra gli uomini al tavolo, avviene tra Cristo e Matteo, è un dialogo a distanza mediante gesti.

Che cosa ce lo fa dire? Cristo, raffigurato nella parte destra della tela, in una zona buia, dove i lineamenti si colgono a fatica, dove il suo corpo  è quasi interamente celato dal corpo di Pietro, punta il dito verso Matteo e sembra di  sentire la sua voce “Tu!”. Matteo usa un gesto della mano per schermirsi, per interrogare, e sembra di sentire la sua risposta stupita “Chi? Io? Proprio io?”

Ma la sorpresa è gioiosa o enfatizzata ad esprimere la reticenza a rispondere all’invito? E l’invito è un’amorevole chiamata o un’accusa? E, in ogni caso, chiamata o accusa che sia, perché Cristo è al buio, seminascosto, identificato grazie a un’aureola appena accennata per rendere riconoscibile una fisiognomica molto lontana dalla norma?

Osservando meglio, qualcuno ha supposto che in realtà Matteo sia l’uomo con gli occhiali che non solleva nemmeno la testa dal tavolo, e che in realtà il dito dell’uomo sorpreso forse non si rivolge verso di sé ma indica, appunto, l’uomo alla sua sinistra e par di sentirlo dire “Matteo è lui”

E, ancora, osservando la postura della mano e dell’indice di Cristo sembra di poter escludere che si tratti di un gesto duro, accusatorio, inflessibile ma allora perché qualcuno vi ha letto così chiaramente un’accusa? Ciò riconduce alla funzione dell’arte, la cui ricchezza sta non tanto e non solo nel comunicare il messaggio dell’artista, ma nel suscitare emozioni in chi guarda anche se non  in linea con quanto l’artista intendeva.

Vedo una sola finestra sulla tela, angusta e con i vetri incrostati e polverosi, che non può proiettare nessuna luce. Il fascio di luce che illumina obliquamente le figure proviene da una sorgente luminosa collocata fuori dalla tela. E’ la luce di Dio? E’ la luce metafisica di una trascendenza in cui si crede per dar migliore significato a un’immanenza che lascia non comprese troppe cose?

Nella tela non c’è centro, non c’è armonia; il contatto avviene tra due realtà disomogenee, non è chiaro nei termini in cui viene posto. Molti sono gli interrogativi che chi guarda si pone e le risposte, se e quando ci sono, non sono certe e univoche. Comunque una cosa la sappiamo, anche se non dalla tela: Matteo ha risposto

Carcere di Opera, 26 ottobre 2022

Nuccia Pessina

Caravaggio in città

La macchia gialla

Si era più o meno di questa stagione.

Il mio papà una mattina mi portò a casa di mio nonno. Mio nonno faceva il contadino e abitava in una casa che, come quelle dei suoi vicini , anch’essi contadini, si affacciava su un grande cortile, di fatto un’enorme aia. Non mi piaceva particolarmente andare a casa di mio nonno, non saprei dire perché. Quel giorno, però, mi aspettava una sorpresa. Quando arrivai, superato il portone d’ingresso nel cortile, non riconobbi il luogo. Una magia l’aveva trasformato: l’aia era diventata color giallo sole e il contrasto col cielo azzurro era sorprendente. Ai bordi erano sedute molte persone che stavano sgranando le pannocchie di granturco. Chi canticchiava, chi parlottava, e intanto i chicchi gialli cadevano per terra e si aggiungevano agli altri, e la macchia gialla si allargava sempre di più.

La bellezza di quell’immagine mi avvicinò a mio nonno e al suo mondo e dopo quella volta ci andai  volentieri.

La bellezza di quell’immagine mi è rimasta nel cuore.

Officina creativa

Una mappa per la pena

In relazione al prossimo convegno su “Una mappa per la pena” voglio provare a riassumere  quanto ho acquisito nei miei dieci anni di volontariato col Gruppo della Trasgressione.

Tutte le settimane ho ascoltato per ore i detenuti parlare di sé, dei propri sentimenti, desideri, emozioni, frustrazioni e per ore ho ascoltato le risposte dello psicoterapeuta dottor Aparo e dei vari componenti esterni del gruppo. Per ore ho ascoltato il dialogo cui anch’io ho dato il mio contributo e ho imparato molto.

Ho imparato che l’arresto, la condanna e qualche volta la carcerazione sono necessari per fermare l’abuso. Ho sentito gli stessi detenuti dire: “Per fortuna mi hanno fermato… se non mi avessero fermato avrei continuato a delinquere

Ho imparato anche che la carcerazione, pur tante volte necessaria, non è sufficiente per adempiere pienamente al dettato costituzionale, dove si afferma che la pena non deve avere solo valore afflittivo ma rieducativo.

Alle Istituzioni, per far sì che i detenuti diventino cittadini pienamente partecipi della società che hanno offeso, chiederei di prevedere, già dal primo periodo della condanna definitiva, un progetto e percorso di evoluzione.

Gli obiettivi dovrebbero essere l’acquisizione di una coscienza e la conseguente capacità di assumersi le proprie responsabilità.

Per arrivare alla coscienza, sulla base dell’esperienza acquisita in questi anni di partecipazione attiva alle dialettiche serrate del gruppo della trasgressione, credo siano indispensabili alcuni passi:

  • indagare con metodo sull’abuso commesso, sulle modalità e sulle ragioni, aiutando l’abusante a portare alla luce sentimenti, attitudini e pensieri al momento del reato. Ciò farebbe acquisire consapevolezza di sé e della realtà;
  • esplicitare con chiarezza che l’obiettivo da raggiungere è l’esercizio della responsabilità, che è tratto tipico del cittadino adulto;
  • creare occasioni di contatto con il mondo esterno che tolgano il detenuto da un isolamento che, pur spiacevole, può diventare una comfort zone difficile da abbandonare;
  • creare occasioni in cui i detenuti riescano a individuare una funzione da svolgere e si sentano utili alla società che in precedenza hanno offeso, irrobustendo così la parte migliore di sé.

Infine, in relazione al formarsi di una coscienza, credo  importante:

  • che l’abusante arrivi a conoscere personalmente le conseguenze del gesto compiuto (materiali e morali, difficoltà, dolore, ansia), se non della sua vittima diretta, almeno di una vittima che ha subito lo stesso tipo di abuso;
  • che il percorso di evoluzione preveda la possibilità di verificare in situazioni concrete la reale acquisizione di capacità nell’esercizio e nel… piacere della responsabilità.

Tante sono le competenze che questo approccio richiede, ma sono consistenti anche i vantaggi e i risultati ottenuti nei 25 anni che il gruppo compie quest’anno. I tanti detenuti che alla distanza ne confermano l’efficacia suggeriscono che questa possa essere una giusta modalità operativa o, quanto meno, una direzione che merita di essere studiata per valutarne la portata, i pregi e i limiti.

Nuccia Pessina                              Una mappa per la pena