Emozioni e abuso

Innanzi tutto desidero ringraziare il Dott. Aparo per il testo che ci ha consegnato: “Istruire una prossimità”, scritto che mi permette di fare ulteriori riflessioni sul mio passato deviante e carico dell’umanità di chi crede realmente che risanare il tessuto sociale lacerato dall’abuso sia utile non solo a vittime e carnefici ma anche a tutti coloro che si impegnano costantemente nella ricerca della verità. Questo scritto è per me un pozzo pieno d’acqua per placare l’arsura, sete che si identifica nella continua ricerca della coscienza smarrita, cammino che ritengo non abbia mai fine e che pertanto vada nutrito quotidianamente.

Come tanti altri miei compagni, fino a pochi giorni fa io ritenevo che, all’epoca degli abusi, la vittima fosse per me solo un ostacolo da abbattere per raggiungere i miei obiettivi. E intanto pensavo di non provare alcuna particolare emozione verso “l’ostacolo”. Per anni mi sono detto che all’epoca dei reati la vittima era stata per me un oggetto estraneo senza nome. Questa mi è sembrata per anni la spiegazione della facilità con cui insultavo la vita mia e altrui, della anestesia che mi permetteva di combattere la mia guerra per conquistarmi ciò che la vita mi aveva negato.

Questa convinzione di non provare emozioni durante l’abuso si era talmente consolidata nella mia mente che mi ha accompagnata fino a pochi giorni fa! E’ stato grazie ai dubbi sollevati dal dott. Aparo in merito a questa convinzione, che tra l’altro accomuna quasi tutti gli abusanti, che ho iniziato a rifletterci a fondo.

E così mi si è aperto un mondo che avevo completamente trascurato e con il quale sto imparando a dialogare. Mi sono reso conto che non è possibile non provare emozioni, specialmente quando uccidi un uomo: sarebbe disumano!

Allora perché, inconsciamente, adottavo questo sistema? L’unica spiegazione che riesco a darmi è che anche il peggior criminale non potrebbe convivere con l’enormità derivante dall’uccisione di un proprio simile e quindi per una forma di protezione elabora un meccanismo di difesa che gli consente di non sentire prossimità con la vittima.

Prendere confidenza con le emozioni che ho seppellito all’epoca dei fatti è un processo doloroso ma catartico, che mi aiuta a mettere in comunicazione il ragazzo “che non voleva sentire” con l’uomo in evoluzione quale mi sento.

Di tutti gli attori che vengono coinvolti nella spirale dell’abuso è certamente alla vittima – o a un suo parente – che si dovrebbero indirizzare le maggiori attenzioni, perché come dice il Dott. Aparo: “perdere il proprio caro per volontà di una marionetta mossa dal delirio di onnipotenza genera un tormento che non si placa”.

Io ho avuto il privilegio di partecipare al progetto “Sicomoro”, il quale ha messo a confronto vittime e carnefici. Quando ho fatto questa esperienza, sette anni fa, avevo già iniziato da tempo il mio viaggio nella profondità del male che avevo causato. Ma quando mi sono trovato di fronte a persone in carne e ossa, con tutto il loro carico di dolore che traspariva dagli occhi ma anche da ogni gesto o parola che pronunciavano, tutti gli abusi da me commessi, come un boomerang, mi sono piombati addosso. L’impatto con la realtà mi ha destabilizzato per parecchio tempo: mi sono sentito l’essere più schifoso della terra.

Ma poiché la vita, come una madre, non smette mai di accogliermi con la sua generosità, l’aiuto che necessitavo è arrivato proprio dai familiari delle vittime, che al termine del viaggio fatto insieme e durato tre mesi, mi hanno donato un abbraccio che si è scolpito indelebilmente nel mio cuore. Ritengo che loro abbiano (naturalmente mi riferisco a quelli che sono pronti per iniziare un processo di guarigione) un vitale bisogno di vedere nel carnefice il risveglio della coscienza, forse perché la vita che è stata loro strappata sta generando una nuova vita nell’abusante e questo rende un po’ meno traumatica l’assenza del proprio caro.

Da qualche mese ho stretto un bellissimo rapporto con Elisabetta, una mamma alla quale un folle che guidava un’auto ha ucciso il figlio di soli 15 anni! Tra Elisabetta e me sta nascendo una relazione che si avvicina alla parentela; infatti, non so grazie a quale magia, quando ci sentiamo o vediamo, spesso ci chiamiamo “sorella e fratello”. Io, che sono un ex assassino, vengo chiamato fratello da una donna cui hanno ucciso un figlio… è pazzesco! Ma anche questa è una meraviglia della vita. Lei è una delle mie più fervide sostenitrici e preferirei bruciare vivo piuttosto che arrecarle altro dolore. E così avviene che invece di essere io a donarle sollievo è lei che mi aiuta a riempire di nobili contenuti la mia esistenza. Grazie Elisabetta e grazie a tutti quelli che mi stanno aiutando a riscrivere la mia storia con i colori dell’amore.

Sono pienamente convinto, per averlo sperimentato personalmente, che il primo segnale di “cambiamento di rotta” avviene dentro noi stessi. Senza questo desiderio profondo di evolvere nessuno può aiutarci perché ci si trova in una condizione di “sordità e negazione”. Dopo questo primo e fondamentale step è altresì necessario trovare delle guide che ci indirizzino verso i valori su cui poggia la civiltà, una sorta di moderni Virgilio che ci tendano la mano nell’arduo percorso di risalita dagli inferi.

Naturalmente l’apporto delle figure istituzionali è altrettanto fondamentale per riappropriarsi del valore rappresentato dalla giustizia e dalla legalità. Lassismo, menefreghismo e addirittura indifferenza delle Istituzioni, spesso sono l’ago della bilancia in negativo nel recupero del reo, perché è evidente che chi o coloro che rappresentano un punto di riferimento, se abusano del proprio potere per gestire i loro interessi, incidono in modo estremamente sfavorevole nella mente già deviata dei criminali, la quale fa un semplice ragionamento di comodo: “poiché se ne fregano loro perché dovrei impegnarmi io?” Quindi, per arginare lo sconvolgimento che provoca l’abuso è necessario l’apporto di tutti gli uomini che hanno a cuore la vita. Inoltre, ritengo che perseguendo questo nobile cammino possiamo solo arricchirci e riappropriarci della libertà che a causa di tutti gli abusi perpetrati in passato è stata svilita, violata e maltrattata, lasciandoci in una condizione di apnea.

Non c’è dubbio che la situazione delle carceri (Opera è da una decina d’anni un’eccezione) non favorisce l’evoluzione del reo, soprattutto a causa della scarsità di strumenti trattamentali atti a sostenere la rielaborazione critica del passato criminale; anche la pochezza di progetti a lungo termine non ne incoraggia il reinserimento e tutto ciò ostacola il cambiamento.

Naturalmente questo non deve diventare un alibi per scaricare le proprie responsabilità sugli altri, anche perché, a mio avviso, il processo interiore che ognuno deve compiere per migliorarsi non può arrestarsi per nessun motivo. Mi piace pensare a una futura alleanza tra detenuti e figure istituzionali: i primi con l’obiettivo di diventare cittadini, gli altri per elevare il livello di giustizia in un mondo in cui la menzogna sembra prevalere su tutto.

Alessandro Crisafulli

Istruire una prossimità

Una lunga notte

All’improvviso riapro gli occhi. È ancora buio. In un attimo realizzo che non mi trovo nella mia cella: infatti sono in permesso e quindi stavo dormendo in un luogo estraneo. Tutt’intorno regna il silenzio assoluto; allora che cosa mi ha svegliato? Una sensazione di allarme mi pervade; d’istinto allungo la mano verso il comodino a fianco al mio letto per guardare l’ora sul display del telefonino: è l’una. Nel mentre noto che ho ricevuto, quattro minuti prima, due messaggi; la sensazione di allarme aumenta e viene confermata dal testo dei messaggi.

È Zeno che mi scrive: sua madre l’ha cacciato di casa. Zeno (uso un nome di fantasia per tutelare la sua privacy) è un ragazzo ancora minorenne che sta vivendo un periodo difficile e con il quale mi sto relazionando da qualche mese. Sta vagando, incazzato ma anche un po’ spaventato, per il suo quartiere, che a quell’ora è popolato solo da sbandati in cerca di un surrogato di felicità da consumare a basso prezzo. Il rischio di commettere qualche cazzata è enorme, ma Zeno non ha ancora intrapreso la “strada senza ritorno” perché dentro di sé è consapevole di essere sul ciglio del burrone. Pertanto, dopo averci  riflettuto per un bel po’, dimostrando maturità e una buona dose di umiltà – perché alla sua età è difficile ammettere di avere bisogno degli altri -, decide di contattarmi; ma è quasi l’una di notte e quindi, per non disturbare troppo, invece di telefonarmi mi invia due messaggi, il primo a distanza di un minuto dal secondo. Immediatamente gli rispondo, e così inizia una lunga notte.

La nostra comunicazione  in principio si svolge solo attraverso messaggi; lui si sfoga esternandomi tutto il suo malessere e la difficoltà di rimanere ancorato alla vita che pare gli stia sfuggendo. Le sue parole mi allarmano sempre di più; vorrei andare  a prenderlo, ma non posso uscire di casa perché una delle prescrizioni che mi ha dato il magistrato mi impone di stare a casa dalle 22 alle 7 del mattino seguente. Allora decido, a mia volta, di chiedere aiuto ai miei compagni del Gruppo della Trasgressione.

All’appello risponde prima Eleonora e subito dopo Alessandra: entrambe conoscono Zeno. Chiedo  loro se sono disposte ad andare a prendere Zeno per portarlo da me e immediatamente si rendono disponibili. A quel punto chiamo  Zeno sperando che mi risponda poiché è restio a parlare al telefono. Gli prospetto la situazione e lui, purtroppo, rifiuta  perché non vuole dare fastidio… Naturalmente gli faccio capire che per me è un piacere e aggiungo che è normale dare una mano a un amico. Ma Zeno è irremovibile, mi dice di stare tranquillo perché ha un posto dove dormire: il box di un suo amico. Nel frattempo anche Alessandra ed Eleonora cominciano a comunicare con lui, e così, lentamente, Zeno si tranquillizza. Questa situazione va avanti sino alle quattro, finché lui stesso ci dice che sta meglio e che è il caso che andiamo tutti a dormire… Prima di lasciarci mi dice che l’indomani, o meglio, in mattinata – data l’ora – avrebbe chiesto a suo padre (i suoi sono divorziati) se lo ospitava e che mi avrebbe chiamato per darmi conferma. Alla fine mi saluta ringraziandomi e mi  dice “ti voglio bene”. Queste ultime tre parole, così potenti nella loro semplicità, penetrano nel mio cuore e… mi commuovo.

Alessandra ed Eleonora sono state due alleate preziosissime; insieme abbiamo fatto squadra e siamo riusciti a contenere una situazione che poteva degenerare. Questa è la forza del Gruppo della Trasgressione: poter contare su persone competenti, motivate e disponibili a prendersi cura di chi è in difficoltà. Sono estremamente orgoglioso di far parte di questo gruppo.

Questa vicenda mi ha fatto vivere delle emozioni che non avevo mai provato poiché mi sono trovato a dover svolgere la funzione di genitore, cosa per me nuova visto che non sono padre. Ho potuto toccare con mano cosa può provare un genitore quando è in ansia per il proprio figlio e la gioia che si prova quando sai che è in salvo, anche se non definitivamente.

Naturalmente i problemi di Zeno non sono magicamente scomparsi. Sarebbe stupido illudersi che le problematiche di un ragazzo che ha vissuto un’infanzia difficile, le cui conseguenze si stanno manifestando nell’adolescenza, vengano cancellate con un colpo di spugna. Purtroppo è probabile che si troverà in altre situazioni rischiose, in cui un passo falso potrebbe compromettere in modo rilevante il suo futuro. Pertanto, il nostro dovere di adulti è quello di accompagnarlo in questa complicata fase della sua esistenza, riconoscendolo innanzitutto come persona e infondendogli quotidianamente quella fiducia in se stesso che lo aiuti a non sentirsi inadeguato.

Io sono certo che Zeno ce la farà a non essere risucchiato dall’ambiente criminale: è troppo intelligente per farsi fottere la vita da quegli stronzi che cercano di sedurlo facendogli credere che l’esistenza stessa vada presa a morsi e che il lavoro, l’impegno, la serietà e la responsabilità sono cose inutili da coltivare.

Come promesso, la mattina successiva Zeno mi ha chiamato e mi ha detto, con entusiasmo, che sarebbe andato ad abitare da suo padre.

Abbiamo fatto solo un piccolo passo avanti, ma ciò che conta è che finalmente Zeno si è  incamminato verso la libertà, quella libertà che nasce dai valori di civiltà su cui poggia l’essenza della società e che Zeno dovrà conquistarsi giorno per giorno costruendo, assieme alle persone che fanno il tifo per lui, la piattaforma che gli consentirà di fondare il suo progetto di vita.

Opera, 12 maggio 2017

                  Alessandro Crisafull

Storie

Delitto e coscienza

Il delitto è un’azione umana. Così come umano è possedere una coscienza. Credo che il delitto porti alla erosione della coscienza fino a sopprimerla, ma tale soppressione non è un’azione compiuta solo dai criminali. La coscienza si può sopprimere per non soffrire, per non capire, per non vedere, per mascherarsi e fingere di non accorgersi del proprio malessere o del malessere legato all’ambiente che ci circonda. Il delitto amplifica e porta questo atto psichico fino allo “stadio” ultimo.

Se sopprimere una coscienza è azione innata e inconscia frutto del dolore, ritengo che sia saggio partire dal dolore. Dolore e conflitto sono intrinsecamente legati.

Vogliamo sentire il conflitto perché ci umanizza.” Ha detto Vincenzo, detenuto. E credo che questa chiave di lettura dell’argomento si intersechi profondamente in un discorso che unisce vittime di reati, autori di reati e coloro che con i reati ci lavorano.

Il conflitto ci umanizza, certo. Ma ritengo che l’autore e la vittima del reato vivano due conflitti diversi. Il primo conflitto è frutto di un dolore che non si è percepito quando viene commesso il reato; il secondo conflitto è frutto di un reato e portatore di un dolore che non si sarebbe dovuto provare di principio, un dolore ingiusto, un dolore che nasce dall’abuso. Il primo è un dolore che bisognava provare. Il secondo un dolore che non andrebbe mai provato.

La maniera di vivere il dolore poi muta e si muove su piani differenti e intersecati ma in evoluzione:

  • l’evoluzione che negli anni fa il detenuto per affrontare il peso della propria azione e soffrirne dopo la consapevolezza, desiderando diventare strumento utile per una vita migliore;
  • l’evoluzione del dolore della vittima, che si fa strumento portatore di valori quali la giustizia, la legalità e il coraggio. Il coraggio di chi dopo un percorso decide di mettersi a confronto e affrontare con dignità luoghi e persone che possono ricordare il trauma subito.

Raskolnikov è solo un genere di criminale, certo, ma non credo sia un caso che Delitto e Castigo sia uno dei libri più letti nelle carceri del mondo. Che forse il criminale sia curioso? Curioso di vedere come altri percepiscono e vivono il delitto?

Non ritengo dunque che la soppressione della coscienza sia di per sé disumana (in diversi stati e gradi, sono convinta che tutti abbiamo avuto momenti del genere nel corso della nostra esistenza) ma che lo diventi se portata all’estremo. Non provare dolore e non volerlo affrontare diventa problematico quando l’assenza del proprio conflitto e anestetizzarsi l’anima porta a un conflitto tragico nella vita altrui.

Usando le parole di Emanuele e Pasquale, il conflitto porta dolore, ma porta anche a nuove occasioni di crescita. Crescita, poi, porta a un miglioramento che si riflette in luce nuova e positiva per il soggetto, per gli affetti più stretti, per la società.

Una persona che vive il conflitto e cresce, si responsabilizza – i detenuti parlano della responsabilità dell’essere padri. Una responsabilità che si vive nei riguardi dei figli e una gioia e un impegno che non sarebbe possibile senza aver vissuto il conflitto. Perché mettersi in conflitto e comprendere consapevolmente il peso delle proprie azioni genera degli insegnamenti positivi che verranno portati fuori, all’esterno, partendo dalle proprie famiglie.

Credo che qui stia il senso del conflitto. Conflitto è maturare. Maturare significa migliorare e ogni piccolo passo di una persona verso il bene è progresso per la società intera e un passo prezioso per la guarigione di un mondo ove il crimine viene subito, il crimine viene commesso.

Angelica Falciglia

Delitto e Castigo

Thanatos a Sisifo

Thanatos a Sisifo
Alessandro Crisafulli

Sono Thanatos, Sisifo, apri la porta, il tuo tempo è finito. Vedo che la tua arroganza e la tua stupidità non ti hanno ancora abbandonato. Forse sei ancora offuscato dal delirio di onnipotenza e non ti rendi conto che con me i tuoi giochetti non funzionano; io sono la Morte e rappresento il limite supremo con cui voi mortali dovete confrontarvi.

Vedi, Sisifo, io sono qui perché devo svolgere la mia funzione, anche se ti confesso che sono in difficoltà perché devo eseguire ordini che non comprendo e non condivido. Non credere che non ti capisca; da un po’ di tempo ho preso consapevolezza che il sistema del quale faccio parte non sta svolgendo la propria funzione, ossia favorire l’evoluzione degli uomini. Anzi, vedo sempre meglio che il potere che ho servito porta i più fragili, che spesso non hanno avuto una buona guida, a perdersi nell’illusione che ignorare il limite sia la via più spedita per raggiungere i propri obiettivi.

Ormai mi sento solo un emissario del potere; la mia funzione è svilita perché non è più al servizio degli equilibri fra uomini e dei, ma di un potere fine a se stesso. Dopo secoli di esperienza ho compreso che il limite andrebbe vissuto non come imposizione ma come protezione. Capisco che il tuo senso di inadeguatezza ti ha portato a inventarti una forma di libertà che esce dagli schemi; ma ascoltami, Sisifo, l’unica libertà possibile è quella che si esercita entro i confini tracciati dal limite condiviso; il resto è follia, rottura del patto con gli uomini, non solo del rapporto con gli dei. E questo, a lungo andare, porta al delirio di onnipotenza.

Non ti nascondo che, eseguendo ordini di un potere esercitato senza responsabilità, la mia frustrazione è aumentata notevolmente, al punto che per zittire le domande che la mia coscienza riportava a galla, sono diventato un alcolizzato. Guardandoti, vedo il fallimento del sistema di cui faccio parte. Mi chiedo come avresti potuto affrontare il limite supremo, se nessuno ti ha insegnato a superare le “piccole morti quotidiane”, rappresentate dagli insuccessi, le delusioni e le frustrazioni che inevitabilmente accompagnano i mortali nel corso della vita.

So che hai avuto la sensazione di trovarti di fronte a un bivio: da una parte l’anonimato e dall’altra il delirio di onnipotenza. Purtroppo non hai compreso, e non solo per colpa tua, che esiste una terza via, quella del lavoro, dell’impegno; solo attraverso la collaborazione e la mediazione con gli altri si possono costruire progetti a lungo termine, che consentono poi di essere apprezzati e riconosciuti.

Mi dispiace, Sisifo, che tu, non riuscendo a guarire dalle ferite che ti porti dentro, abbia cercato di importi con l’arroganza. Anche tu, come me, non hai saputo riformulare le domande che hai lasciato in sospeso e così la frustrazione ti ha spinto ad abusare del potere che temporaneamente ti sei trovato in mano.

So bene che da soli è difficile restituire vita a queste domande: senza tessere nuove e costruttive alleanze, ci si impoverisce e si muore dentro. Non hai considerato a sufficienza che quanto più ci si lascia condurre dalla voglia di rivalsa, tanto più si diffonde lo stile della vendetta e si sprofonda nelle zone buie dell’esistenza.

Purtroppo le tue scelte, prese e attuate senza il sostegno di una buona guida, hanno decretato il tuo fallimento. Oggi, però, tanto tu quanto io abbiamo bisogno che la tua esperienza e la tua scelta rimangano nella storia a beneficio di Corinto. Se non vuoi essere ricordato per avere abusato del tuo potere su chi aveva trascurato il suo dovere, ti invito a consegnarti a me e a riscattarti, accettando il limite che ti porto e la responsabilità che ne consegue; in questo modo darai anche un valido esempio ai tuoi figli e ai tuoi concittadini.

Dal canto mio ti prometto che mi impegnerò con tutte le mie forze per modificare questo sistema malato e per accompagnare i tuoi figli nella loro crescita come farebbe un buon padre.

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Riconoscersi

C’è stato un tempo in cui per sentirmi vivo avevo bisogno di morire un po’ ogni giorno…

Quando ho conosciuto Elisabetta stavo camminando da oltre venti anni tra le piaghe del mio passato criminale. Un viaggio profondo iniziato in solitaria, tra le mura della mia cella. L’unico feed-back che mi tornava era un enorme disagio, una sensazione di pesantezza che mi rendeva difficoltoso respirare. Ma non demordevo: volevo iniziare a vivere.

Sono andato avanti così per molti anni, finché un giorno ho deciso di comunicare il mio dolore. Grazie al confronto con gli altri, soprattutto al tavolo del Gruppo della Trasgressione, sono riuscito a ricomporre il mosaico della mia storia, illudendomi, però, di aver raggiunto le profondità del dolore che ancora mi porto dentro. Ma mi sbagliavo: quella era la punta dell’iceberg. L’ho capito quando ho iniziato ad avere contatti con i familiari delle vittime: madri, padri, fratelli e sorelle i cui cari erano stati brutalmente ammazzati da persone come me.

Nei miei interminabili viaggi introspettivi avevo cercato di immedesimarmi in queste persone, ma quando ho visto i loro visi straziati dal dolore il senso di colpa è riemerso prepotentemente schiacciandomi alle mie responsabilità. Ci sono voluti anni per riprendermi ed Elisabetta ha avuto un ruolo importante nella mia risalita dagli abissi.

Elisabetta è entrata nella mia vita qualche anno fa; lei è una mamma a cui un folle alla guida di un’auto ha brutalmente ucciso il suo adorato figlio, Andrea, che aveva solo quindici anni. Elisabetta e io ci siamo “riconosciuti” immediatamente; due vite così agli antipodi ma intrecciate a filo doppio da un denominatore comune: il dolore. Il dolore è uguale per tutti, ma c’è un’importantissima distinzione da tenere sempre presente: io il dolore l’ho causato mentre persone come Elisabetta l’hanno subìto.

Grazie a lei ho fatto un ulteriore passo avanti verso la vita. Come una sorella mi sostiene nelle difficoltà quotidiane e mi stimola a non farmi schiacciare dai sensi di colpa. Io cerco di starle vicino quando la mancanza di Andrea le toglie il respiro, ma di fronte a quest’immane dolore mi sento impotente… Non so cosa darei per aiutarla a portare il suo fardello…

Non potrò mai dimenticare il giorno in cui mi ha chiamato “fratello”… In quel momento ho sentito qualcosa dentro di me sciogliersi, come quando si toglie un ostacolo e il cammino ritorna ad essere fluido. Io, un ex assassino, che vengo chiamato fratello da una mamma cui hanno ucciso un figlio.

Se non è un miracolo questo!

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Quale Alessandro

Fratello,

ho letto la lettera e mi sono emozionata. È bellissima davvero. Resta un mistero grande per il mio cervello troppo piccolo capire, anzi, immaginare un giorno in cui il tuo cuore è stato cattivo e le tue mani crudeli. Ecco non ce la faccio neanche se mi sforzo. Però tu dici questo, le sentenze dicono questo e devo arrendermi.

Un tempo, un Alessandro che non conosco ha compiuto il male. Quell’Alessandro è esistito, ma ora non esiste, quell’Alessandro ha premuto un grilletto e ora ripudia ogni violenza, fosse anche solo quella di una parola fuori luogo. Lui, ne sono più che convinta, ora non si ciba neanche di carne per sublimare la sua dedizione al bene. L’altro Alessandro è morto e sepolto eppure respira, vive e ama.

Se non è un miracolo questo!

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Dentro ognuno di noi


Dentro ognuno di noi“, eseguita da Juri Aparo e da Tonino Scala (che ne è l’autore) e commentata da Roberto Cannavò al Festival dell’Arte Negletta del 2017.

Fra i componenti del Gruppo della Trasgressione sono presenti anche Noemi Ottaviani, Adriano Sannino e Alessandro Crisafulli, protagonisti dell’iniziativa di cui all’articolo di Manuela D’Alessandro su GIUSTIZIAMI

Dentro ognuno di noi
Tonino Scala

Dentro ognuno di noi
c’è nascosta un’idea
servirebbe a cambiare una vita
inventarla a misura
ne varrebbe la pena
di provare a partire
si potrebbe tornare bambini
e non crescere mai

Dentro ognuno di noi
c’è nascosto qualcosa
e vorresti tenerla ed usarla
con molta pazienza
non la trovi nel banco dei pegni
nelle notti agitate
è la cosa più rara che hai
per non perderti mai

Ed io posso scoprire dov’è
nascosta dietro il mio cuore
che posso aprire e far crescere
fino a poterla sognare
proprio dentro di noi
c’è un bimbo
che ci difende e ci fa ripartire

La nicchia, la crosta e il rosmarino

tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea
tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea

Adesso immagina qui
una grande poesia
dove tutto è nascosto e proibito
dove niente è sicuro
a volte è sincera
ed inventa l’amore
nasconde i nostri cuori
dagli ostacoli

Ed io posso scoprire dov’è
nascosta dietro il mio cuore
che posso aprire e far crescere
fino a poterla sognare
proprio dentro di noi
c’è un bimbo
che ci difende e ci fa ripartire
tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea
tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea

A San Vittore per un viaggio nel futuro

La lotta con il Leviatano

La lotta con il Leviatano
Alessandro Crisafulli

Non c’è dubbio: l’uomo ha la tendenza al tradimento. Spesso lo attua per negligenza, superficialità o perché assillato da incombenze che gli sottraggono tempo ed energie da destinare, ad esempio, al proprio figlio; altre volte tradisce inconsciamente, adottando un comportamento che ha origine dal tradimento che a sua volta ha subìto. Ma c’è anche chi tradisce colpevolmente, con spirito vendicativo, nella convinzione che è arrivato il momento di far provare agli altri le sofferenze che ha patito. Come dice il dott. Angelo Aparo, “In ogni criminale c’è un bambino tradito che desidera proiettare sugli altri il proprio dolore”.

Poiché quasi sempre il tradimento è stato perpetrato da persone dalle quali ci aspettavamo amore, protezione e considerazione, tornare a fidarsi è un’impresa titanica. Ritengo, infatti, che finché non si instaura un rapporto sempre più intimo e profondo con la propria coscienza, quella sorgente luminosa che in assenza di grossi traumi ci infonde la saggezza per discernere il bene dal male, sia impossibile liberarsi dell’impronta originaria del tradimento. Se si desidera trasformare i tradimenti, bisogna farsi coraggio e aprire le porte che da troppo tempo teniamo sigillate. I traumi dell’infanzia causano cicatrici indelebili che contribuiscono alla creazione di una personalità malata, incapace di affrontare le sfide della vita tenendo conto dei limiti necessari alla convivenza civile.

Non c’è bisogno di una laurea in psicologia per comprendere che tutto ciò che ci ha fatto soffrire e che non siamo stati capaci di elaborare, non è magicamente scomparso solo perché abbiamo fatto finta di nulla; quei dolorosi pezzi di vita violati sono finiti nell’inconscio, quel mondo sotterraneo e pericoloso che sembra abbia vita propria. L’inconscio è come una polveriera, basta un evento per innescare una reazione a catena in grado di provocare danni enormi.

Dopo molti anni di introspezione, ho imparato ad ascoltare il mio dolore; qualche volta, in un atteggiamento quasi masochistico, sono arrivato a crogiolarmi nella sofferenza provocata dai ricordi della mia infanzia, nella convinzione che questa fosse la maniera per depotenziare la carica negativa che è insita in ogni tradimento. Infatti, penso che solo dialogando con il male si possa trovare la chiave per rinnovarsi, ma per farlo occorre uscire dalla spirale distruttiva che il tradimento inevitabilmente porta con sé. Come affrontare, allora, questo Leviatano che ci impedisce di vivere in armonia con noi stessi e che quotidianamente esige che gli sacrifichiamo nuove vittime?

Come dice Jung: “Non ci si illumina immaginando figure di luce ma dialogando con le tenebre”. Tanto per iniziare, occorre divenirne consapevoli. Naturalmente non ci sono formule alle quali rifarci: ognuno deve seguire la strada che gli viene indicata dalla propria voce interiore. Personalmente, dopo aver rovistato per anni in solitaria tra le macerie del mio passato, mi sono reso conto che da solo non ce l’avrei fatta a superare i miei traumi: da soli si muore dentro. Pertanto ho iniziato a cercare alleati con i quali potevo condividere il mio fardello e, contemporaneamente, ascoltare le loro storie, perché è soprattutto grazie alle relazioni con gli altri che si può fare luce su episodi della nostra vita che, a causa della sofferenza che ci hanno procurato, vengono seppelliti nell’inconscio.

Avendo deciso di smettere di vivere con superficialità, ho incontrato molte persone disposte a questo salutare scambio. Sono certo, però, che  i primi  risultati  importanti  che ho raggiunto sono stati possibili grazie al profondo supporto che molti anni fa ho ricevuto da due psicologi, la dott.ssa Pasci e il dott. Giacci, i quali mi hanno tenuto per mano in questo necessario percorso a ritroso infondendomi il coraggio che mi ha permesso di rintracciare le origini del tradimento che ho subìto da mio padre, il quale non solo non voleva che nascessi ma è arrivato al punto di non rivolgermi, sostanzialmente, la parola finché non sono diventato un criminale…come voleva lui… Non è un tradimento questo?!

Ho portato questo enorme macigno per una vita; il peso era così reale che sino a una decina di anni fa avevo un blocco al plesso solare. Naturalmente a quei tempi non ne ancora ero consapevole; tale disvelamento, come ho detto, non sarebbe stato possibile senza il lavoro, durato un anno e mezzo, fatto assieme agli psicologi, ai quali sarò per sempre grato. Solo successivamente sono stato in grado di mettere a fuoco anche i molti tradimenti da me commessi ai danni di un’infinità di persone alle quali ho tolto la gioia di vivere.

Ritengo che solo bonificando il tradimento una persona possa reinserirsi, come cittadino, nella società. Tentare di rielaborare il passato cercando di comprendere e, soprattutto, accettare i propri sentimenti e pensieri dell’epoca, è certamente un’impresa ardua, ma il sacrificio ne vale assolutamente la pena poiché in palio c’è la prospettiva di vivere un’esistenza all’insegna della costruzione e del piacere costante che da essa deriva.

Ma la svolta decisiva è certamente avvenuta nove anni fa, quando ho incontrato sulla mia strada quello che definisco il mio gruppo di appartenenza: il Gruppo della Trasgressione, il quale oggi per me rappresenta un’oasi di tranquillità in un deserto di incertezza. In questo gruppo mi sento libero di aprirmi completamente e, grazie al continuo stimolo dei miei compagni e, in particolare, del dott. Aparo, ho rintracciato vicende del mio passato che giacevano nei recessi più bui dell’inconscio. In questo gruppo ho maturato la consapevolezza che la perfezione non fa parte dell’uomo; anzi, è proprio grazie all’imperfezione che abbiamo la possibilità di crescere ed evolverci, perché accettandola ci predisponiamo ad includere nella mente le diversità che rendono ricco e variegato il nostro viaggio esistenziale.

Oggi sono cosciente che l’infanzia mi è stata negata; per sopravvivere a ciò mi sono costruito una prigione nella quale mi sono illuso di essere protetto: in realtà, ho solo seppellito le mie emozioni. Ma da quando ho deciso di riprendermi la mia vita, tutti i sentimenti che ho negato sono tornati in superfice, esigendo l’attenzione che non è stata loro dedicata a suo tempo. Continuare a negare questi bisogni sarebbe folle, perché perderei l’opportunità di continuare il cammino evolutivo che è alla base dell’esistenza e da cui scaturisce quella meravigliosa sensazione che mi fa sentire in armonia con tutto quello che mi circonda.

Io non sono padre, ma ritengo che questo cammino possa aiutare chi lo è a spezzare definitivamente la catena familiare, quella coazione a ripetere che ti zavorra e che inconsciamente ti porta a trasmettere ai figli i tradimenti subìti e i peccati commessi.

Per ricucire lo strappo

Milano: un documentario per ricucire “lo strappo” del crimine

All’Istituto Molinari di via Crescenzago, cinque scuole in rete e centinaia di studenti nella stessa aula magna per fare «quattro chiacchiere sul crimine» e per presentare il documentario

di Paolo Foschini, Corriere della sera, 23/01/08, Cronaca Milano

Fa un certo effetto vedere seduti uno accanto all’altro un ergastolano per mafia e il magistrato Alberto Nobili, che contro la mafia ha combattuto una vita, e sentire il primo che dice “è un privilegio essere qui con lei”, e il secondo che risponde “l’emozione è mia, la sua presenza qui oggi e il suo percorso di recupero sono una delle soddisfazioni più grandi che ho provato dacché faccio il mio lavoro”.

È solo uno dei (tanti) momenti intensi che hanno caratterizzato la mattina di ieri all’Istituto Molinari di via Crescenzago, cinque scuole in rete e centinaia di studenti nella stessa aula magna per fare “quattro chiacchiere sul crimine”, come recitava il titolo.

Chiacchiere si fa per dire, perché a parlarne e soprattutto rispondere alle domande dei ragazzi c’erano il fondatore di “Libera” don Luigi Ciotti, e familiari di vittime della criminalità più diversa – da Manlio Milani la cui moglie morì nella strage di Brescia a Maria Rosa Bartocci il cui marito fu ucciso in una rapina, da Margherita Asta che in un attentato di mafia perse la madre e due fratelli a Daniela Marcone a cui la criminalità uccise il padre – e poi il provveditore delle carceri lombarde, Luigi Pagano, e altri condannati per omicidio, e magistrati, giornalisti, avvocati.

Tutti lì per discutere di quella cosa che è “Lo strappo” prodotto ogni volta in cui c’è un crimine: strappo nella vittima, nella società, ma anche in chi lo compie. “Lo strappo” in effetti è anche il titolo del documentario presentato sempre ieri e realizzato su un’idea dello psicologo Angelo Aparo, del magistrato Francesco Cajani, del giornalista Carlo Casoli e del criminologo Walter Vannini, in collaborazione con il Comune, con Libera, con l’associazione Trasgressione.net, con la Casa della Memoria, con l’associazione Romano Canosa e con Agesci Lombardia. È scaricabile sul sito www.lostrappo.net.

Un motivo per farlo è già nelle parole con cui Manlio Milani lo apre: “Siamo abituati a pensare che le cose negative accadono sempre a qualcun altro, poi un bel giorno, quando colpiscono noi, ci accorgiamo che siamo parte di una realtà, che può colpire chiunque”.

La mattinata all’istituto Ettore Molinari, La locandina

Le storie, un passaporto verso il futuro

Perché gli uomini raccontano storie? Forse proprio per ricordare a se stessi di essere uomini. Probabilmente l’uomo è l’unico animale che racconta storie. E non le racconta per divertimento, ma perché le storie sono parte integrante della sua identità, il suo passaporto verso il futuro.

La storia è un insieme di emozioni che si incontrano e si scontrano, generandone altre e permettendo così alla storia di farsi più densa, più ricca, infondendole quella forza che le consente, anche a distanza di moltissimi anni, di mantenere intatto tutto il suo potenziale emotivo. Infatti, la storia va ben oltre lo spazio e il tempo in cui si è verificata; essa è un bene prezioso, che va salvaguardato con la massima cura.

C’è stato un tempo in cui mi sono dimenticato di essere un uomo! Che poi, a ben vedere, è in base ai pensieri che elabori e alle azioni che metti in pratica che acquisisci il diritto di sentirti uomo: credo che non si nasca uomini, naturalmente nell’accezione più nobile del termine; tutt’al più lo si può diventare!

Una mattina di circa trent’anni fa mi sono alzato dal letto come se fosse stato un giorno normale – che poi di normale nella mia vita non c’era nulla – e con una naturalezza sconcertante mi sono recato all’appuntamento con la morte, la morte di un uomo che avevo deciso di uccidere. Ancor prima di ucciderlo materialmente, l’avevo già ucciso con la mente. Come con una gomma cancelli la traccia lasciata da una matita, con la stessa apparente semplicità mi sono arrogato il diritto di cancellare l’esistenza di un uomo e, indirettamente, ho modificato il corso degli eventi di tutte le persone che gravitavano attorno alla sua vita. Come se non bastasse, dopo averlo ucciso ho provato soddisfazione: avevo dimostrato a me stesso, ma forse più agli altri, che ero un “uomo”!

All’epoca ero così presuntuoso che ero convinto di possedere tutto ciò che mi serviva per vivere al meglio quella vita dove, invece, rimanevo confinato a intontirmi e lottare per sopravvivere. Ma io mi sentivo diverso da quelli che sottostavano passivamente a questa ingiustizia; io credevo di avere le palle per prendermi con la forza quello che mi era stato negato!

Che stupido sono stato! e quanto sangue ho versato in nome di una guerra che in effetti ho combattuto contro me stesso! E così, dopo quel primo omicidio, anch’io sono morto …

Sin da piccolo ho negato le mie fragilità, soprattutto perché a quel tempo credevo che, accettandole, avrei minato le mie esigue possibilità di sopravvivenza. Sono cresciuto creandomi l’illusione di essere un bambino forte, in grado di produrre autonomamente gli elementi vitali di cui un essere umano necessita: amore, considerazione, protezione.

Naturalmente questa illusione ha avuto vita breve. Infatti, quando ho abbandonato quel luogo desolante in cui sono cresciuto e dove ho coltivato la mia rabbia, la maschera dell’indipendenza si è frantumata, dando luogo a quella dell’arroganza che, come un fiume che esonda, si è trasformata successivamente in delirio di onnipotenza, provocandomi uno scollamento dalla realtà.

Non essendo stato capace di affrontare le mie fragilità, mi sono nutrito, attraverso la violenza, di quelle degli altri. Ma l’abuso costante, che all’inizio rappresentava la mia rivalsa, come un boomerang mi si è ritorto contro, aumentando il mio senso di smarrimento e facendomi sprofondare sempre più in una spirale distruttiva che mi ha portato ad essere completamente sordo ai bisogni degli altri.

L’infanzia l’ho vissuta quasi esclusivamente con mia madre, e poiché eravamo in simbiosi ho assorbito tutto il suo male di vivere. Quello che rammento maggiormente di lei sono i suoi grandi occhi azzurri, che purtroppo rappresentavano un cielo privo di sole.

Penso che solo chi ragiona in modo superficiale può credere sia facile giungere a uccidere un uomo. Credo, infatti, che ogni macro-scelta sia figlia delle micro-scelte che quotidianamente compiamo; poco importa quanto tali scelte siano consapevoli: le conseguenze arrivano comunque! È per questo che, sin dalla più tenera età, è importantissimo comprendere che ogni nostra decisione, anche quella che sembra più banale, influirà più o meno profondamente sul nostro e sull’altrui futuro.

Essendo cresciuto senza una guida positiva, indispensabile per proiettarsi nel mondo in maniera costruttiva, intorno ai dodici anni, quando ho iniziato a commettere reati e a drogarmi, mi è venuto naturale credere che quella fosse l’unica strada che potevo percorrere; quello che avevo saputo ricavare da mio padre, con il quale ho instaurato un rapporto solo quando sono divenuto un vero criminale (prima non mi considerava), andava verso l’illegalità più assoluta. Per lui non c’era spazio per regole e sentimentalismi: un uomo doveva prendersi a ogni costo quello che desiderava. Con questi presupposti era alquanto improbabile che potessi percorrere un cammino diverso, anche se questo non può e non vuole costituire un alibi per il male che ho causato.

Quindi tutti i giorni, per anni, non ho fatto altro che nutrire la rabbia, l’unica risorsa che pensavo di possedere, compiendo quelle micro-scelte che mi hanno condotto all’atto estremo di uccidere. Quello è stato sicuramente il momento nel quale l’ultimo barlume di umanità che ancora cercava strenuamente di resistere mi ha abbandonato, lasciandomi completamente nelle mani del mio delirio. Ormai ero ammaliato dalla sensazione di potere, dal delirio di disporre della vita degli altri!

Senza più nulla che potesse arginarmi, come un treno senza macchinista lanciato a folle velocità, ho continuato a scendere sempre più negli abissi; ormai sapevo che solo la morte o la galera potevano fermarmi: il mio karma prevedeva la galera. L’arresto è stato la mia liberazione.

Sin dall’inizio ho sentito un senso di pace che mi avvolgeva: finalmente avevo smesso di correre senza meta, alla ricerca di una identità che stupidamente pensavo di conquistare con la violenza. E così ho cominciato a cercare tra le macerie di questa mia vita svenduta al primo stronzo. Che fatica è stata guardare dentro ai segreti della mia anima: troppa era la sofferenza che custodiva.

Nonostante ciò, più gli anni passavano e più sentivo l’urgenza di dialogare con me stesso. Finché nel 2000 sono giunto a Opera, luogo nel quale è iniziata la mia catarsi. Mi sono subito reso conto che avevo bisogno di elevare il mio scadente livello scolastico e pertanto mi sono iscritto a scuola. Devo molto ai miei professori, i quali con impegno, pazienza e professionalità mi hanno supportato, dandomi il coraggio per migliorarmi e per recuperare l’autostima.

Lo studio ha ampliato notevolmente la mia visione globale della vita, insegnandomi che la consapevolezza dei nostri mezzi può farci raggiungere traguardi insperati. Il punto dal quale ripartire è senz’altro l’introspezione, indispensabile per focalizzare nuove mete, rette da valori per i quali valga la pena vivere; tutto ciò con passione e creatività, ma soprattutto nel rispetto verso gli altri, con i quali ricercare una comunicazione vera e profonda, capace di scaldarci il cuore e di cogliere il messaggio che si cela dietro alle parole.

C’è voluto tantissimo tempo per ristabilire un contatto con me stesso. Ho lottato con tutte le mie forze per sradicare la concezione distorta che mi ha portato ad alienarmi dagli uomini e da Dio. Con tenacia e costanza sono sceso nelle profondità del mio inferno e ho guardato in faccia il male che ho procurato; ritengo che riconoscere il proprio male sia l’inizio di un ritrovato bene.

È stato doloroso prendere consapevolezza che la devianza si era impossessata della mia coscienza; inoltre ho compreso che, se volevo riconquistarla, avrei dovuto fare pace con il ragazzo che ero e traghettarlo verso un futuro da costruire insieme.

Oggi ho accettato le mie fragilità; esse fanno parte di me e in un certo senso mi sento in dovere di proteggerle, perché è anche attraverso il loro riconoscimento che ho cominciato a coltivare le mie qualità e a dialogare con i miei limiti.

Il passato non è qualcosa da cui possiamo congedarci, cosa che del resto sarebbe sbagliata; quello che sto cercando di fare è cucire la prima parte della mia esistenza con quella che sto costruendo da ventitré anni a questa parte, dimodoché l’una venga assorbita dall’altra. Per fare questo è necessario un collante che le unisca, che dia fondamenta solide a questa nuova fase della mia vita.

Ebbene, questo collante l’ho trovato nel Gruppo della Trasgressione, con il quale ho l’opportunità di costruire progetti a lungo termine nei quali mi riconosco e vengo riconosciuto. Il più importante di questi consiste nell’andare nelle scuole per prevenire bullismo e tossicodipendenza; inoltre ritengo che per gli studenti instaurare una relazione seria con persone con un passato come il mio possa fornire loro le coordinate per riconoscere meglio i tranelli di cui si servono i “falsi miti”  dai quali bisogna tenersi alla larga.

Mettermi a nudo di fronte ai ragazzi mi ha permesso innanzitutto di farmi riconoscere come una persona con la quale è possibile costruire qualcosa di positivo. Questa interazione mi ha dato inoltre la possibilità di valorizzare le mie fragilità e ricavarne ogni giorno nuova linfa per recuperare il bambino che c’è in ognuno e alimentare la creatività che ci rende liberi.

Non posso esimermi dal parlare della recentissima collaborazione che il Gruppo della Trasgressione ha instaurato con la Croce Rossa Italiana. Da qualche tempo, assieme ad alcuni miei compagni, ho il privilegio e l’onore di far parte proprio dell”‘unità di strada” della Croce Rossa. Andare per le strade con l’obiettivo di occuparsi delle persone bisognose è qualcosa di indescrivibile. È pazzesco rendermi conto che un tempo consideravo gli uomini delle pedine da spostare o “mangiare” a mio piacimento! Quanta dignità ho scorto nei loro volti! Ascoltare le loro storie mi ha permesso di mettere a fuoco passaggi della mia storia. Non posso che ringraziarli per avermi concesso di entrare nel loro mondo e per avermi permesso, in questo modo, di comprendere meglio chi sono stato.

E così la mia storia ha preso una piega inaspettata; io stesso non avrei scommesso un centesimo se qualcuno avesse ipotizzato che sarei rinato! E se ce l’ho fatta io, allora significa che nessuno è mai definitivamente perduto.

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