Di cuore e di coraggio

Dai primi di settembre è in libreria “Di Cuore e di coraggio“, un libro di Giacinto Siciliano, attuale direttore del carcere di San Vittore. Le pagine scorrono veloci e inducono il lettore a porsi mille domande.  Riporto di seguito alcune delle mie.

Diversamente da chi dice che “il carcere non serve a niente“, se ho capito bene, il dott. Siciliano afferma che il carcere può servire, ma a condizione che non lo si viva e non lo si usi come un carcere. Cosa vuol dire? Cosa fa un carcere che non funziona come un carcere?

Qui e là, fra le pagine del libro, viene fuori l’idea di uno Stato, che dovrebbe diventare idealmente parte integrante del pensiero e dei princìpi di chi vive in carcere da detenuto. Bello, ma è possibile che chi ha praticato sistematicamente l’abuso per scopi meramente personali possa interiorizzare l’idea di un principio collettivo come quello dello Stato?

Quali sono gli strumenti di cui oggi dispone il carcere per portare a questa rivoluzione interna chi ha vissuto secondo principi di tutt’altro genere?

Quali sono i punti fondamentali del modello grazie al quale il carcere potrebbe diventare una palestra per interiorizzare l’idea e i principi dello Stato?

L’esperienza reale di chi lavora in carcere da anni conferma che è possibile? E, se sì, quali sono delle prove attendibili di ciò?

Ancora, gli operatori e le modalità in uso attualmente nelle carceri italiane sono compatibili con gli obiettivi che il dott. Siciliano assegna al carcere?

In Italia, c’è una corrente di pensiero generale che va in questa stessa direzione?

Cosa è desiderabile che accada nella cultura, nella politica e nella economia italiana affinché il carcere reale si avvicini all’idea di carcere che propone Siciliano?

Infine, si sa che Siciliano è figlio d’arte. Sarebbe bello sapere da lui stesso se l’idea di carcere che egli auspica è nata nel corso della sua esperienza professionale o se aveva già questi contorni ancora prima che egli acquisisse il ruolo che ha oggi.