Vittime e Carnefici a confronto

Da “La Repubblica”: “Guardarsi dentro aiuta a cambiare vita

SANDRO DE RICCARDIS

«ERAVAMO sordi, vuoti, ragazzi che non capivano e non ascoltavano, facevamo quello che ci ordinavano », dice l’uomo che sconta l’ergastolo per aver ucciso un poliziotto in Sicilia. «Adesso mi sento meno povera, meno sola. Mia figlia mi è stata strappata quasi ventisette anni fa, mi sembra ancora più importante perché mi ha fatto incontrare tanti altri figli. E oggi la sento viva come non l’ho mai sentita dal giorno in cui è stata uccisa», gli dice la madre di una vittima della Sacra corona unita, la mafia salentina.

Al carcere di massima sicurezza di Opera, vittime e carnefici sono gli uni accanto agli altri. Un centinaio di detenuti per gravissimi fatti di sangue, e una decina di parenti di vittime delle mafie. Dopo un incontro tra un familiare e un gruppo di detenuti lo scorso settembre, nell’ambito delle attività del “Gruppo della trasgressione” e con il supporto del “Centro per la mediazione penale e la giustizia riparativa” del Comune, è nata l’idea di leggere in carcere l’elenco delle vittime innocenti di mafia. La direzione del carcere si è fatta promotrice dell’iniziativa, e Libera ha inserito Opera nell’elenco dei luoghi in cui si dà lettura dei nomi.

Al centro del teatro, c’è un leggìo. Sopra, i fogli con oltre novecento nomi. Per oltre un’ora, chiunque tra i presenti può alzarsi e leggere. Il primo a farlo è un detenuto. Raggiunge i piedi del palco e inizia coi primi nomi. «Emanuele Notarbartolo, Emanuela Sansone, Luciano Nicoletti..». Altri si alzano e aspettano al lato della sala il loro turno. Ognuno legge una pagina, poi porta con sè il foglio. «Abbiamo lavorato con fatica perché questo momento di confronto potesse avvenire qui, il primo in un carcere in Italia — dice il direttore di Opera, Giacinto Siciliano — . La sicurezza è anche questo: che le persone s’incontrino e si dicano quello che c’è da dire, con l’obiettivo di restituire a ogni uomo il significato profondo della responsabilità delle proprie azioni. La vera sicurezza nasce quando si abbandona la contrapposizione e si restituisce spazio alla persona. Guardare dentro se stessi è difficile, ma se si capisce che si può cambiare vita, facciamo un servizio alla sicurezza, ma anche qualcosa di più duraturo per la società».

A rappresentare il coordinamento lombardo dei familiari che si riconoscono in Libera, ci sono i parenti di diverse vittime: la madre di Marcella Di Levrano, la sorella e il fratello di Gaetano Giordano, la nipote di Giuseppe Tallarita. Dopo la lettura dei nomi, ascoltano i detenuti che da tempo riflettono sul proprio passato. «Mi sento in dovere di regalare alle persone che hanno avuto i loro congiunti uccisi alcuni beni sequestrati alle mafie — dice Angelo Aparo, lo psicologo che coordina il “Gruppo della trasgressione” — Sono beni che hanno voce per parlare, che non possono restituire la vita a chi è morto, ma possono dare ai parenti delle vittime una gioia, quella di dire che chi ha ucciso è ancora vivo. Dopo aver affogato se stessi nella palude dell’odio e del rancore, oggi sono vivi. Sono beni che i clan hanno usato per uccidere, ma che i clan non sono stati capaci di uccidere: dopo aver cancellato la loro coscienza, l’hanno recuperata».

«Mentre leggevo quei nomi, mi sono tornati in mente quelli che ho ucciso io — confida uno di loro —. La prima volta ho provato soddisfazione, finché sono stato fuori non me ne sono più ricordato. In carcere la nebbia lentamente si è diradata, sono venuti fuori l’uomo che era, i suoi figli. La sofferenza è venuta fuori, ora è un dolore che purifica, ogni giorno ci faccio i conti. Il dolore è di voi vittime e di noi carnefici, ma sono diversi: uno è stato subito, l’altro causato. Voi dimostrate grande coraggio a stare qui a dialogare con noi».

Accanto al detenuto, è seduta una ragazza. «Ho sempre vissuto a Milano, la mafia era qualcosa di lontano, quando mio nonno è stato assassinato in Sicilia, ero piccolina. I miei genitori hanno impiegato un sacco di tempo a spiegarmi cos’era successo. In questi anni ho sentito spesso parlare di perdono, sentivo molta retorica ed ero molto intransigente, perché chi uccide stravolge la vita di una famiglia, di chi c’era e di chi ci sarà. In un incontro ho conosciuto un ex camorrista. Mi ha raccontato la situazione di Scampia, storie a cui non credevo. Sono andata a vedere e ho capito cosa voleva dire quando mi spiegava che i ragazzini lì non hanno scelta. Ho cominciato a capire che il mio dolore non è molto lontano dal vostro. Che nella vita sbagliamo tutti. Forse mio nonno non apprezzerebbe quello che sto facendo. Ho pensato spesso: lui è morto, loro sono vivi. Ma sono venuto per conoscervi, per sentire il dolore di tutti, perché il mio lo conosco abbastanza. Non so se saprò perdonare. Ma sono sicura che ho fatto la scelta giusta».