Istruire una prossimità

Qualche tempo fa il Gruppo della Trasgressione aveva preso parte nel carcere di Opera a un incontro sul rapporto fra vittime e autori di reato. Il confronto, cui avevano preso parte anche magistrati e giornalisti, era stato giudicato da tutti i presenti interessante, ma più di una persona aveva osservato con bonaria ironia che… “mancavano i carnefici”.

Non potevo non convenirne! Anche se erano loro stessi a dire che “… all’epoca dei reati, non avevamo lo spazio dentro per sentire la vittima”, i detenuti che avevano preso la parola sembravano ben altro da quello che avevano dichiarato di essere stati all’epoca dei loro crimini. Dicevano apertamente che “quando non si dà valore alla propria vita, non si può avere coscienza del dolore della vittima”, ma il loro modo di parlare sembrava guidato proprio dalla coscienza e dal gusto di viverla e di ricercarla.

D’altra parte, essi erano tutti parte di un gruppo di studio dove si cerca di comprendere: 1) come si diventa criminali; 2) il modo confuso con cui il principio della giustizia è presente anche nel predatore; 3) se e come si può rinunciare gradualmente all’eccitazione dell’abuso per il piacere della relazione; 4) quanto sia difficile stabilizzare l’equilibrio psico-sociale del neo-cittadino proveniente da un’adolescenza vissuta nella devianza.

Dopo avere ascoltato per anni i loro contributi, oggi credo che dietro ogni gesto criminale ci sia un genitore al quale il reo fantastica di restituire un tradimento subito. Ma la trama storica e psicologica che dà origine a queste fantasie e gli atti criminosi che ne discendono sono difficili da ricostruire; e così, spesso si trascura che rancore, reato e fantasie di rivalsa fanno parte di un impasto tumultuoso, spesso artificiosamente glaciale, nel quale l’abuso e la violenza hanno per chi li esercita il sapore del risarcimento.

Ma proviamo a entrare in questa oscura selva di fantasie negate! Da più di un detenuto era stato detto che nell’atto del reato “… la vittima non è una persona, ma soloun ostacolo da eliminare”, in altre parole, un oggetto col quale non si vive alcuna relazione affettiva. Pur se in presenza di diverse vittime di reato, parlando dei loro crimini, i detenuti avevano confidato che “… è brutto dirlo, ma io alla vittima non ci pensavo, non provavo nulla”.

A me pare però che le loro affermazioni corrispondano solo a un frammento di verità… e mi sembra, piuttosto, che fra chi commette il reato e chi lo subisce esista una relazione molto più intensa, pur se sotterranea, che somiglia a quella che il bullo ha con la sua vittima e, prima ancora, a quella che la bambina ha con la sua bambola quando la sgrida. Mi sembra, insomma, che la vittima sia per il reo un “oggetto” molto meno estraneo di quanto egli senta coscientemente e sia, come per il bullo, il supporto sul quale egli proietta in modo espulsivo la sua fragilità e il suo senso d’impotenza, cioè un fratello al quale far pagare il tradimento subito (o che fantastica di aver subito) dalle persone deputate a proteggerlo e gli stati d’animo che ne discendono: rancore, senso di emarginazione, difficoltà a muoversi nella legge del padre, implicita autorizzazione alla pirateria.

Ma recuperare la coscienza della parentela negata fra il reo e la vittima è per tutti un percorso in salita, che equivale a perdere i vantaggi dell’abuso, senza la certezza di guadagnare qualcosa in cambio! L’abuso, per il reo, corrisponde a una rivolta contro il tiranno, a un delirante flash di libertà, a un’affermazione della propria onnipotenza; per il comune cittadino, a un sistema per identificare i tratti del persecutore e tenerlo distante; per i giornalisti, a un banchetto cui invitare quante più persone possibile; per il tribunale, a una violazione di cui restituire il peso a chi l’ha commessa e i conteggi ai cittadini; per la vittima, a un trauma che toglie il fiato e placca il pensiero.

Insomma, interpretare l’abuso come l’indicatore di una parentela (e non solo di un conflitto fra estranei) è un’operazione difficile, costosa, temeraria. Eppure, dopo qualche tempo dallo shock, qualcuno si mette in cerca di questa parentela; e a farlo, è proprio la vittima o i suoi congiunti più cari… forse, semplicemente perché sono proprio loro ad avere il bisogno più sentito di “istruire una prossimità”.

Quando un bullo umilia un suo coetaneo estorcendogli un panino, lo sottomette per avere il panino o gli prende il panino per umiliarlo? E il suo bisogno di umiliare la vittima da cosa nasce?

La scena dell’abuso, nella gran parte dei casi, può essere riassunta come quella di una vittima costretta all’impotenza da chi, pilotato dall’odio verso chi lo ha reso a sua volta impotente, ha bisogno di espellere la propria vulnerabilità. Il bottino, che nell’opinione comune è la meta del reato (ma che non a caso viene consumato in un baleno), credo sia soprattutto un diversivo per coprire che l’obiettivo del reato è ottenere un’ennesima conferma (che però non basta mai!) d’essere così invincibili da non potere essere sottomessi, tanto duri da potere sfidare il fantasma di un genitore castrante e/o latitante, tanto indipendenti da potersi lasciare alle spalle la propria impotenza, delegandola, una volta per tutte, alla vittima. Qualcuno lo fa umiliandola, qualcuno offrendo un bicchiere d’acqua a chi sbianca per la paura nel corso di una rapina, ma è ancora un sintomo… e i sintomi, si sa, ritornano mille volte proprio perché non se ne riconosce il messaggio, costringendo il loro “esecutore” a girare dentro un loop da fare invidia a Sisifo.

Le persone detenute che avevano offerto le loro considerazioni nel corso dell’incontro, invece, sembravano motivate a interrogarsi sull’origine dei loro sintomi e sull’humus dei loro reati quanto gli altri protagonisti della ricerca, vittime e magistrati compresi. Fra di loro, uno confidava che un tempo pensava di essere diventato adulto il giorno in cui ha picchiato suo padre, e che in tempi più recenti si era invece reso conto che essere adulti è una meta verso la quale, nella più sorridente delle ipotesi, si procede intrecciando il piacere della libertà con il piacere della responsabilità verso l’altro.

Finalmente possiamo rallegrarci, almeno con alcuni, del fatto che le stesse persone che in passato sono state carnefici oggi ci aiutano a ricostruire il mosaico dell’identità deviante e a toccare con mano che, quando l’arbitrio e l’eccitazione diventano il principale strumento per zittire il proprio senso di marginalità, il reato può investire chiunque, come chiunque può essere investito da un autista ubriaco o da un burattino intontito dal delirio di un’indipendenza posticcia.

Ma se perdere un figlio per un incidente, per una disgrazia priva di intenzioni, causa dolore e sgomento, perderlo per volontà di una marionetta mossa dal delirio, comprensibilmente, genera un tormento che non si placa. Chi perde un congiunto rimane legato per tempi lunghissimi all’omicida. Quasi sempre, in un primo momento, la vittima sviluppa verso il colpevole odio e voglia di vendetta; poi, molte volte, passa al desiderio che il processo gli “restituisca” la giusta punizione; infine (ma qualche volta anche in tempi molto brevi), soprattutto per chi a causa del reato ha perso un congiunto, accade che il desiderio di giustizia si trasforma nel desiderio che il reo possa sviluppare la coscienza della perdita causata. Ricordo le parole straziate della moglie di una delle vittime della strage di Capaci al funerale: “Io li perdono, ma loro si devono inginocchiare… ma lo so, loro non si inginocchiano”. Perché questo bisogno così intenso che la persona che ci ha ferito abbia coscienza del nostro dolore? Perché questo bisogno di far pace con gli assassini del marito?

Probabilmente, anche dopo che il male ha ultimato il suo corso, nessuno quanto la vittima ha bisogno che nel carnefice nasca la coscienza dell’altro. Sembra paradossale, ma molto spesso chi ha subito una perdita così grave ha bisogno di pensare al congiunto che ha perso la vita insieme con la persona che gliel’ha tolta, qualche volta persino di sentirla parte della sua stessa cerchia affettiva. Chi patisce il dolore ha bisogno che dal dolore nasca qualcosa e di orientarlo in una direzione… e questa direzione non può essere quella dell’odio… perché nel tempo la vittima capisce che la prigione dell’odio consuma la sua stessa vita senza restituirle nulla. La vittima capisce, potremmo aggiungere, quello che il carnefice ha difficoltà a riconoscere e che tiene distante da sé grazie all’eccitazione compulsiva di droghe e abusi di potere.

Si intuisce che aiutare chi subisce un reato a emanciparsi dalla ragnatela che quasi sempre ne avviluppa i pensieri è doveroso e funzionale per la salute sociale almeno quanto favorire l’evoluzione del reo. Ma perché chi ha subito il male ha così tanto bisogno che chi lo aveva causato ne abbia coscienza? Spessissimo vediamo le vittime spendere a tale scopo incredibili quantità di energia. Ricordo che circa 20 anni fa Luciano Paolucci, padre del piccolo Lorenzo, ucciso da un pedofilo, venne una domenica da Foligno a San Vittore senza altro compenso che la possibilità di riflettere col Gruppo della Trasgressione sul perché del male subito da suo figlio.

Credo che la lacerazione dovuta a una grave perdita affettiva, giunta traumaticamente e senza una comprensibile ragione, per potere essere tollerata, debba diventare seme di una storia: il terremoto non ha volontà, traumatizza, ma non chiude i sopravvissuti nella prigione del rancore; quando la morte viene determinata intenzionalmente, invece, i parenti più stretti della vittima, per poterne sopportare la perdita, hanno bisogno che la volontà dell’omicida cambi direzione, che l’odio mortifero diventi coscienza della prossimità e origine di nuove relazioni. Ma perché questa “gravidanza” possa essere avviata, occorre la ricostruzione di una storia che, di fatto, non conosce nemmeno il carnefice, se non nei suoi risvolti più superficiali e comunque non nei nodi che sono all’origine delle sue scelte; occorre una storia che conduca chi ha commesso l’abuso alla libertà di entrare in relazione con l’altro.

Con questo non si vuol dire che il reato viene commesso in una condizione di “illibertà”; è assiomatico che chi commette un abuso ne è responsabile. Ma se per la società non è possibile fare a meno del presupposto della responsabilità e se per la Legge è ragionevole misurare soprattutto la responsabilità nel reato, per la psicologia è importante interrogarsi sui meccanismi in virtù dei quali la persona allarga o restringe ogni giorno i confini della propria libertà. Per chi indaga sui retroscena della scelta, l’area della responsabilità riguarda anche la cura o l’incuria con cui ci si occupa della propria libertà di scelta e degli stati d’animo che ne costituiscono il liquido amniotico. Al Gruppo della Trasgressione, dove l’esplorazione di questi territori è pratica quotidiana, recentemente uno dei componenti diceva che “recuperare la coscienza del proprio delirio e del male perpetrato corrisponde a restituire alle vittime il dolore e il rispetto che meritano e a noi stessi il risveglio dall’anestesia nella quale abbiamo vissuto”.

Ascoltando le parole dei magistrati, dei giornalisti, delle vittime e di chi a suo tempo è stato carnefice, si percepisce, chiaro, il desiderio di tutti di recuperare coscienze esiliate; da parte mia, credo che per farlo occorrano storie che permettano alla “banalità del male” di disvelare la sua intelaiatura nascosta e corrosiva.

Per riuscirci, però, non basta perdonarsi e abbracciarsi; è indispensabile, tra l’altro, che l’immagine cristallizzata dell’autorità che di solito ha il criminale (quella di un tiranno che esercita il potere esclusivamente a proprio beneficio) venga rielaborata e bonificata. Ma questo diventa del tutto impossibile senza programmi mirati e se non si tiene conto del fatto che personaggi pubblici e, a volte, perfino figure istituzionali si lasciano sovrapporre al prototipo di autorità che chi commette abusi ha interiorizzato già nei primi anni di vita. Affinché una punizione e la restrizione della libertà possano essere tollerate senza diventare per il ristretto un’ulteriore autorizzazione alla pirateria, occorre che il condannato possa imparare a nutrirsi della relazione con l’altro, e questo è possibile solo se il dolore della punizione e la fatica di recuperare la coscienza esiliata vengono condivisi dall’autorità stessa (particolarmente interessante sul tema la relazione della dott.ssa Cosima Buccoliero al Teatro Dal Verme lo scorso 15 ottobre).

Per fortuna, pur se il rinnovamento del clima istituzionale avviene con lentezza, questa è la direzione degli ultimi anni. Avviare studi e aprire spazi strutturati in cui ci si possa servire della motivazione che hanno in tal senso le vittime di reato non può che giovare alla causa. È vero che la vittima ha bisogno di recuperare la prossimità col suo carnefice per tornare a vivere libera dal rancore, ma questo, oltre a essere un valore morale, è in definitiva ciò di cui abbiamo bisogno noi tutti (l’amicizia fra Claudia e Irene)

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La seconda chance

La seconda chance
Pasquale Fraietta e Angelo Aparo

In previsione degli incontri con gli allievi del Bertarelli, abbiamo cercato di riflettere sulla cosiddetta “seconda possibilità”. In carcere si parla spesso di una “seconda chance” per chi ha sbagliato e, quando se ne parla, si fa implicitamente riferimento al fatto che la prima è stata malamente sciupata.

A tale proposito, però, va detto che forse già all’origine è mancata una “prima valida possibilità”. Un adolescente, con le sue instabilità e le sue confuse aspirazioni, non ancora padrone di un suo personale spirito critico, assorbe inconsapevolmente e combatte confusamente quanto la propria famiglia e la società gli trasmettono; in questo modo, la “prima possibilità” rimane tendenzialmente confinata dentro orizzonti ridotti, delimitati dai sentimenti di cui sopra, dai conflitti e dai modelli di soluzione più facilmente accessibili.

Si potrebbe parlare di “seconda possibilità” se tutti noi nascessimo in condizioni equivalenti, se tutti noi all’origine avessimo condizioni simili… come accade per gli atleti di una gara. Ma è così? Veniamo tutti equamente educati e sostenuti per giungere a un ruolo adulto sano e costruttivo? Da bambini, avvertiamo intorno a noi tutti allo stesso modo le attese e le attenzioni di genitori e insegnanti che ci guidano verso la realizzazione del meglio di noi stessi? Cresciamo tutti in ambienti dove ci sentiamo parte significativa della società in cui viviamo?

L’atleta che punta a superare l’asticella in gara, dopo il primo errore, ha una seconda e una terza possibilità; alla fine, a conquistare la medaglia sarà l’atleta che, dopo averle sfruttate tutte, sarà giunto più in alto. Ma la pedana e la rincorsa possibile nelle gare sportive sono uguali per tutti! E’ così nella vita?

D’altra parte, il paragone con l’atleta ci mette nella condizione di fare anche un’altra osservazione: il saltatore, se sbaglia, ha altre due possibilità per dimostrare i risultati del suo impegno e affermare il proprio valore, ma in quel caso noi tutti siamo certi che l’atleta ha come aspirazione proprio quella di superare l’asticella posta il più in alto possibile! Possiamo essere altrettanto certi che chi ha commesso dei reati volesse realmente arrampicarsi fino all’asticella più alta senza barare? Sappiamo bene che molti di noi sono passati sotto, sperando che nessuno se ne accorgesse… e questo è successo ben più di una volta.

Ma allora parlare di “seconda chance” è un inganno sia perché non tutti hanno avuto la “prima chance” sia perché non tutti l’hanno veramente cercata; con la complicazione aggiuntiva che non si sa se non la si è cercata perché non c’era, perché era troppo difficile vederla o perché la si è deliberatamente ignorata.

Come possiamo intendere il concetto di “seconda occasione” di fronte a chi, come me, ha violato le regole fin da quando aveva 12 anni e si ritrova oggi a 45 anni, con oltre metà della vita trascorsa in carcere?

Devo riconoscere che, ogni volta che violavo le regole, avevo la possibilità di farlo o non farlo… dunque non si tratta semplicemente di seconda possibilità, ma forse dell’ennesima possibilità. D’altra parte, essendo nato e cresciuto in un paesino della Calabria, fotografata dalla cronaca come terra di faide e di famiglie malavitose, quelle che mi mancavano erano le condizioni morali per percepire come e quanto fosse giusto o sbagliato perseverare nel reato.

Comportarsi e agire in modo antisociale, in assenza di una solida ossatura morale, era per me naturale e, da un certo punto in avanti, è stato quasi inevitabile.

Ovviamente la mia, non può e non vuole essere una giustificazione, tuttavia quando mi sono ritrovato in carcere a scontare una lunghissima condanna per reati gravissimi, non ho avuto l’impressione che le mie prospettive morali potessero mutare.

Oggi arrivo a pensare che, se mi fossero stati forniti gli strumenti necessari, come è accaduto negli ultimi anni col Gruppo della Trasgressione e come sta accadendo con i cambiamenti radicali che vediamo in questo periodo all’interno dell’istituto di Opera, forse non mi sarei ritrovato ancora in carcere per l’ennesimo reato grave.

Non saprò mai come sarebbe andata, ma concedetemi di dire, forse in modo provocatorio, che non aver mai avvertito da parte dell’istituzione e della società alcuna partecipazione alla punizione inflittami ha giocato non poco. La condanna era certamente legittima ma, più che una punizione, ho sentito un senso di vendetta nei miei confronti. La punizione può offrire al condannato degli stimoli positivi solo se accanto alla punizione della persona è riconoscibile il dolore di chi punisce, ovvero della società.

La pena, nella logica attuale, di sicuro ferma colui che continuerebbe a commettere reati se non venisse rinchiuso, forse ha anche qualche funzione deterrente, ma di certo non risolve i danni arrecati, non cancella la colpa, non favorisce la comprensione del male praticato né il riconoscimento del proprio senso di colpa, infine ma non meno importante, non riconosce le corresponsabilità sociali. Molte volte si parla di comportamenti delinquenziali, criminali, deliranti… ma noi sappiamo che una pianta non cresce se non in un terreno che la nutre.

In conclusione, ritengo si possa parlare seriamente di “seconda possibilità” solo quando l’individuo, con un passato e uno stile di vita deviante, abbia realmente la possibilità, nel luogo e con la pena che sconta, innanzitutto di accrescere la propria consapevolezza, di nutrirsi con i valori morali che non sentiva all’epoca dei reati, di vivere e maturare in un “terreno” (strano chiamare il luogo della pena così!) che gli offra dei riferimenti grazie ai quali sentirsi protetto ed entrare in relazione con gli altri.

In tal caso, dalle macerie del suo passato, potrà venire fuori il materiale utile per sviluppare gradualmente un nuovo modo di sentire: una seconda possibilità, quindi, collegata a un nuovo modo di guardare il mondo e se stessi, collegata soprattutto a un nuovo modo di vivere la relazione con gli altri.

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Volti e voci

Volti e voci, parole e silenzi per aprire gli occhi
Una giornata al carcere di Bollate con il Gruppo della Trasgressione
Gli studenti del Pietro Verri di Busto Arsizio.
Coordinamento di Patrizia Canavesi

Il 7 aprile le classi 5B, 5S e 5V si sono recate al carcere di Bollate. Noi studenti immaginavamo il carcere come una struttura grigia e spoglia, con detenuti in divisa, invece siamo stati accolti in un ambiente colorato con scritte e dipinti, con detenuti vestiti come noi e così, l’ansia e i pregiudizi si sono stemperati. Nel corso della visita al carcere, abbiamo potuto vedere i luoghi dove alcuni detenuti svolgono attività: la serra, i box con i cavalli, il teatro dove i carcerati fanno un’importante preparazione psicofisica e loro stessi diventano attori e poi la lavorazione del vetro, il laboratorio di musica e di arte da cui escono veri capolavori.

Durante la visita la guida ci ha anche mostrato lo spazio in cui i detenuti passano l’ ”ora d’aria”, un’enorme gabbia di cemento che, per risultare meno opprimente, è stata decorata sui muri col disegno di un grande pentagramma, con delle note vuote, completate da frasi belle e profonde.

Lo stabile non accoglie solo detenuti di sesso maschile, ma una piccola ala della struttura è riservata a un centinaio di donne, che vivono con un carico di tensione maggiore rispetto agli uomini la detenzione.

Finita la visita ci siamo riuniti con il Gruppo della Trasgressione guidato dal Dott. Angelo Aparo, tutti in cerchio, mischiati, studenti, detenuti, docenti e universitari.

E’ giusto che i soldi dello Stato vengano spesi per dei carcerati?”…

Così si è aperto il dibattito e un detenuto ha subito risposto sottolineando che la stessa Costituzione italiana dice che il carcerato deve avere un giusto trattamento, in vista poi di un più “facile” reinserimento sociale. Maurizio, uno dei detenuti, ha letto un suo testo che ha colpito molti di noi; non è l’unico che scrive, perché, in questo gruppo scrivere aiuta a pensare, riflettere, tenere impegnata la testa!

Si è parlato di una caratteristica in cui spesso si riconoscono i detenuti: LA FRAGILITA’. Per compensare questa fragilità, vissuta come limite, vergogna e debolezza, manifestavano prepotenza e arroganza nei confronti di chi era più debole di loro. “Mi comportavo da arrogante per poter vedere la fragilità negli altri. Io mi sentivo nel giusto a essere prepotente, non ho mai avuto la sensazione di sbagliare. Ero convinto di fare la cosa giusta. La consapevolezza non è automatica.. deve essere “stanata” Schiacciare la fragilità dell’altro ti fa sentire forte e onnipotente, anche se, in realtà sei solo pre_potente

Rinchiudere e abbandonare a se stessi i detenuti rischia di incattivirli e predisporli a ulteriore violenza e rabbia nei confronti della società. A Bollate, dove si attivano percorsi e attività di recupero, la recidiva è decisamente più bassa: si parla del 17% contro il 67% degli altri penitenziari italiani. Chi esce dal carcere senza “aver pensato” è ancora più pericoloso.

Molti di noi, avrebbero voluto conoscere il passato e il cambiamento dei detenuti, per sapere cosa è migliorato in loro. In questo modo avremmo anche saputo perché si trovano lì, ma forse molti di noi non si sarebbero voluti fermare a parlare con loro perché non avrebbero accettato di condividere dei momenti con chi ha ucciso, stuprato….

L’esperienza è stata comunque positiva per aiutarci a riflettere: la brutta strada porta solo in un brutto posto e all’interno del carcere si può anche non pentirsi e rimanere convinti che ciò che si è fatto è stata la cosa giusta. Alcuni pensano che tenerci nascosto il motivo della loro condanna sia stata una scelta meschina, altri credono che, al contrario, non sia stato fatto perché forse i detenuti non si sentono ancora pronti a confessarsi e si vergognano ancora, oppure per non far scaturire in noi troppi pregiudizi.

L’esperienza è stata forte: chi pensa ‘voglio diventare volontario del carcere’, chi curiosa nei siti, chi dice mai cadrò nella trappola delle tossicodipendenze e nel ‘Virus delle gioie corte’, chi non ha tutta questa sicurezza.

Insomma in classe c’è fermento, si parla, si discute… Abbiamo bisogno anche di questo per crescere. Intanto qualcuno andrà allo spettacolo “ PSYCHOPATIA SINPATHICA” che verrà messo in scena dagli stessi detenuti giovedì 21 aprile alle 21:00.

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Sulla pena – Bollate 07/04/2016

Incontro sulla pena con gli allievi dell’Istituto Verri di Busto Arsizio Patrizia Canavesi

Studente: E’ giusto che lo stato spenda soldi per recuperare persone che hanno causato disastri e dolore o addirittua morti?

Giampaolo: Innanzitutto è previsto dalla costituzione; in secondo luogo, rinchiudere e abbandonare a se stessi i detenuti rischia di incattivirli e predisporli a ulteriore violenza e rabbia nei confronti della società. A Bollate, dove si attivano percorsi e attività di recupero, la recidiva passa dal 67% al 17%. Chi esce dal carcere senza “aver pensato” è ancora più pericoloso.

Isaia: Sono soldi investiti nella prospettiva di un reinserimento. E’ una spesa che può essere considerata un “investimento sociale”

Alberto: La persona, come individuo, può anche non preoccuparsi di aiutare chi è in difficoltà o chi si è macchiato di un delitto; una società civile no, non può esimersi dal provare a recuperare chi ha rotto il patto sociale. La società civile deve costantemente tentare di realizzare modelli positivi dove sia possibile percorrere strade di costruzione della libertà.

Studente: Esistono modi che possano “garantire” l’emancipazione, l’evoluzione del detenuto? E, se esistono, quali sono e come riconoscerli?

Studente: Quali sono le condizioni che permettono alla persona di orientarsi nella direzione giusta, delle gratificazioni emancipative e non cadere nella trappola della seduzione?

 Alberto: Innanzitutto sono importanti il rapporto con la guida e la fiducia che si pone nella figura di riferimento. Cercare una guida e poi provare a sceglierla. Riconoscere la fragilità e provare a orientarla nella giusta direzione, valorizzando le spinte costruttive e non dare spazio a quelle regressive. Solo in presenza di una guida valida è possibile scovare e “fare i conti” con la propria fragilità.

Antonio: Io ero fragile, molto più dei miei fratelli. Mi vergognavo di scoprirmi debole e imperfetto, quindi diventavo prepotente e arrogante. Mi comportavo da arrogante per poter vedere la fragilità negli altri. Io mi sentivo nel giusto a essere prepotente, non ho mai avuto la sensazione di sbagliare. Ero convinto di fare la cosa giusta. La consapevolezza non è automatica.. deve essere “stanata

Maurizio: solo se hai una guida sicura che ti sostiene, la fragilità viene contenuta.. e sei meno attratto dalla seduzione della via più facile per risolvere la sofferenza… della vita.

Alberto: La fragilità è una risorsa.. permette di cercare alleanze e collaborazioni per una progettualità costruttiva. Riconoscere la propria fragilità, permette di cercare tra le persone che hai accanto alleati per poter costruire qualcosa insieme.. ti permette di non vedere nelle persone “deboli” delle vittime designate, da umiliare e schiacciare per esercitare il tuo falso potere. Schiacciare la fragilità dell’altro ti permette di sentirti forte, potente, anche se in verità sei solo pre_potente e arrogante… nella tua stessa fragilità e insicurezza.

Massimiliano: mi sento brutto, debole, incapace.. inconcludente… per non stare male, mi ribello, reagisco con violenza, abuso, droghe, senso di onnipotenza.. non è possibile stare male con se stessi e non fare niente per reagire. Riconoscere la propria Fragilità è necessario per poter riconoscere anche il bisogno degli altri. Negare la propria Fragilità è negare il bisogno dell’altro.

Diouf: avevamo molti dubbi sul carcere e sui detenuti… adesso ci sembra di capire che siete delle persone normali, che hanno sbagliato ma che ci stanno pensando su.

Isaia: avete visto dei delinquenti, che in realtà sono persone non poi tanto diverse da voi.. persone che hanno bisogni, desideri, emozioni.. il suggerimento è “non avere paura di accettare la vostra fragilità e imparare a viverla come una risorsa e non come un problema”, una spinta per cercare aiuto, alleanze e collaborazioni.

Massimo: se la famiglia ti dà delle basi solide.. riesci a stare in piedi. Io non posso dire di non aver avuto una buona famiglia.. Mi ha sedotto la ricchezza, la bella vita, la vita facile..

Manar: mi sembra di capire che in fondo anche i detenuti sono delle brave persone..

Aparo: I detenuti sono brave persone? Forse. In ogni caso, anche le “brave persone” possono perdersi e danneggiare il prossimo. E’ necessario affinare strumenti per far emergere il lato positivo che c’è in ciascuno di noi, costruire relazioni positive e provare a realizzare progetti comuni. Per rieducare è necessario identificare e dare spazio a percorsi che siano riconoscibili, attendibili, verificabili.

Jin Lai: E’ più facile punire una persona che recuperarla! La consapevolezza di sè e del reato commesso, è una conquista, non si realizza automaticamente con la reclusione! La privazione della libertà non basta, non è sufficiente a innescare il cambiamento e la consapevolezza del proprio errore.

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Purgatorio

Una pena per chi è punito, un dolore per chi la commina
Nuccia Pessina

Giovedì scorso, nel corso dell’incontro fra il Gruppo della Trasgressione e l’Istituto Verri di Busto Arsizio,  ho sentito Jin Lai paragonare il carcere a un luogo di transito che può dare l’opportunità sia all’individuo sia alla società di riflettere sulle proprie imperfezioni e di giungere a una mediazione che possa costituire per entrambi una crescita. E allora non ho potuto fare a meno di pensare che anche nella Commedia dantesca esiste un luogo di transito in cui provare pena e riflettere per arrivare all’emancipazione: il Purgatorio. Il percorso è faticoso: prevede la scalata di una montagna; è lungo: ogni balza conquistata testimonia il superamento di un comportamento fallace, di una convinzione sbagliata, di un’inclinazione discutibile. La meta è il Paradiso: la felicità assoluta.

Le parole di un cinese sono a loro modo espressione dello stesso convincimento della religione cattolica, di cui la Commedia è un potente riflesso. Come è possibile? Forse, se questo accade, è perché in ogni parte del globo, qualsiasi sia la cultura, l’essere umano percepisce la sua esistenza come un transito e vede come meta la felicità.

Tale transito, diversamente dal carcere, è obbligatorio per tutti. Ma questa non è l’unica differenza: chi è in carcere ha una meta macroscopicamente riconoscibile, un riferimento certo, la fine della detenzione; chi vive da libero il riferimento lo deve cercare, individuare, costruire e, prima ancora, deve avvertirne la necessità in sé e per sé. Ma forse questa meta, non è solo una necessità e non solo un dovere, forse si tratta di un privilegio al quale per varie ragioni non tutti giungono.

Da ciò che ho sentito dire, molti detenuti non ci sono riusciti. Poiché le imperfezioni degli esseri viventi e delle relazioni da questi poste in atto sono molteplici e variegate e assumono le forme più diverse e spesso non sono né prevedibili né controllabili, le spinte regressive hanno avuto il sopravvento e si sono generati comportamenti deleteri.

Dunque è mancato qualcosa. O si sono imposte presenze non sopportabili. Quali le mancanze all’origine del percorso deviante? Sicuramente la mancanza di una guida autorevole. Un genitore, un insegnante, un allenatore, un prete, qualcuno che si accorge che esisti e che sei tu, proprio tu, diverso dagli altri; qualcuno che presta attenzione a te, proprio a te; qualcuno che dimostra di conoscerti e che ti dà il consiglio giusto, adatto a te. Altre mancanze poi possono segnare la strada: la mancanza d’amore, la mancanza di senso.

Le mancanze sono anelli che si congiungono e formano una catena che imprigiona la libertà morale dell’individuo, soprattutto se tra di essi manca l’anello della punizione. Non una punizione qualsiasi e a qualunque costo. La punizione giusta, adeguata allo sbaglio, comminata al momento giusto e da una persona amata. Una punizione che sia pena, che porti dentro di sé il concetto del risarcimento e del dolore provato da chi la subisce ma anche da chi la commina.

Solo da una punizione così scaturisce il senso morale, il concetto di giusto e sbagliato, il maggior avvicinamento possibile tra legge e giustizia, insomma l’introiezione della giustificazione della pena a garanzia del rispetto del diritto. Se questo non accade la sofferenza dilaga e nella percezione del soggetto diventa legittimazione ai suoi abusi e quasi viatico per il suo percorso deviante.

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L’autorità: le nostre domande

Buccinasco: le domande dei ragazzi sul tema dell’autorità

  • Quali richieste legittime può farmi un’autorità?
  • Quando il limite imposto è un argine necessario?
  • Quando è uno sbarramento alle mie possibilità di crescita?
  • Quando è necessaria una punizione?
  • Cosa distingue una punizione da una vendetta?
  • Quanto è importante essere imitabile per una guida che vuole essere credibile?
  • Quanto una guida deve essere vicina a colui che vuole guidare?
  • Quale importanza positiva e negativa può avere il complesso di inferiorità rispetto alla guida?
  • Che ruolo ha l’affettività nel rapporto con una guida?
  • Chi limita l’autorità?
  • Qual è il rapporto tra l’autorità e il limite?
  • La trasgressione è un atto di accusa contro l’autorità?
  • Come faccio a diventare adulto e guida credibile se non ho avuto una guida che mi mostrasse il percorso da seguire?
  • La mancanza o incapacità dell’autorità può giustificare la trasgressione?
  • Qual è il confine tra la responsabilità del singolo e di ciò che gli sta intorno?

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Il rapporto con l’autorità, elaborati

Buccinasco: 2017 – Gli elaborati degli allievi dell’Istituto “Via Aldo Moro”
relativi agli incontri sul tema della Trasgressione

Gli allievi della 3° C

 

Gli allievi della 3°

 

Gli allievi della 3°

 

Gli allievi della 3°

 

Gli allievi della 3° G

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Letteratura, punizione e vergogna

Ascoltare le testimonianze dei tossicodipendenti mi ha ricordato il romanzo di Stevenson “Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde”
Nel romanzo, un rispettabile dottore della Londra benestante di fine secolo XIX inizia ad assumere una sostanza a titolo sperimentale, per vedere “l’effetto che fa”, come scherzosamente recita una popolare canzone di Jannacci e molto più macabramente la cronaca dei giorni scorsi sul delitto Varani a Roma.

Ma, iniziata per essere studiata scientificamente, l’assunzione della sostanza sfugge di mano al dottor Jekyll, che a un certo punto, anche senza più volerlo, si trasforma nell’essere ripugnante e senza freni morali che la sostanza risveglia in lui. Ciò lo porterà alla morte, ma ancor prima all’abdicazione di sé.

Il romanzo viene scritto in epoca vittoriana, in cui la moralità viene perseguita ad ogni costo fino a diventare un’ossessione, al punto da rivestire tavoli e sedie fino a terra in quanto le gambe degli stessi potevano essere percepite come simboli fallici. La rigidità delle regole cui attenersi genera una pressione tale da suscitare insofferenza e stimolare il desiderio di trasgredire e di vivere più liberamente. Il personaggio simbolo di tale moralità è mister Utterson, il legale, uomo ligio e ordinato per eccellenza, ma non privo di tentazioni cui talvolta indulge.

Le due anime che albergano nel dottore, Jekyll e Hyde, sono entrambe percepite come trasgressive dal perbenismo della società vittoriana. Infatti, anche il dottor Jekyll ha impulsi trasgressivi, pur se il più delle volte tenuti a freno.

Uno degli aspetti salienti, nel romanzo, è che la trasgressione viene messa in atto da uno scienziato, a scopo di studio. E non è un aspetto da poco, perché ben rappresenta il dibattito culturale che la diffusione del Positivismo aveva generato nella seconda metà del XIX secolo. Alcuni intellettuali, attribuendo alla scienza un primato culturale che fino a pochi anni prima era stato esclusivo appannaggio di una cultura religiosa e dogmatica e sui cui paradigmi si erano modellate la società e la morale vigente, si attirano le critiche di coloro che sono rimasti ancorati a una cultura tradizionale e che ritengono che la scienza non debba superare certi limiti, pena una punizione esemplare. Lo scienziato Jekyll, osando una sperimentazione oltre i limiti considerati consentiti, muore.

Su che cosa induce a riflettere il romanzo di Stevenson?

  1. Sul fatto che in ogni uomo ci sono componenti buone e cattive. La legge e la morale hanno il compito di tenerle a freno.
  2. Sul fatto che dare spazio alle componenti cattive può instaurare un meccanismo di progressivo potenziamento delle stesse a scapito delle buone, rompendo in modo irreversibile (?) l’equilibrio.
  3. Sul fatto che la caduta dei freni inibitori ad opera di strane sostanze libera nell’uomo comportamenti ancestrali senza che ci siano motivi o giustificazioni per metterli in atto. E così si assapora la crudeltà di un delitto completamente gratuito. E poi di nuovo. E poi ancora, e ancora.
  4. Sul fatto che i valori o i disvalori della cultura dominante svolgono un ruolo primario nell’indirizzare i comportamenti dell’essere umano, soprattutto se ancora giovane e in formazione.

Che cosa ricavare da queste riflessioni?
Comincerei col dire che le problematiche sollevate da Stevenson mantengono inalterata la loro validità anche ai giorni nostri. Alla luce delle testimonianze dei tossicodipendenti, pare che dare spazio al male effettivamente riduce spazio al bene e porta al potenziamento dell’uno e all’indebolimento dell’altro.

L’altra riflessione importante riguarda i freni di cui la società si serve per favorire un’armoniosa convivenza: la morale e la legge. Entrambe funzionano se, almeno in parte, vengono sollecitate da un’emozione umana di cui ultimamente si parla assai poco: la vergogna.

Che fine ha fatto la vergogna? Quella che dopo il morso al frutto proibito ha spinto Adamo ed Eva a coprirsi, loro che erano sempre stati beatamente nudi? Senza provare vergogna si può smettere un comportamento malvagio? E mi viene da pensare che, forse, il peccato originale sia importante non solo per la pretesa dell’uomo di divenire uguale a Dio appropriandosi della conoscenza, ma per insegnare che alla trasgressione fa seguito la vergogna. Oggigiorno non siamo più nell’Eden (ci siamo mai stati?), di trasgressioni se ne commettono tante ma non si sente parlare di vergogna. Perché non se ne parla? Perché la si cela o perché non la si prova? Credo che se la risposta fosse quest’ultima il genere umano avrebbe un problema.

L’altra direzione presa dalle mie riflessioni riguarda la punizione.
In molte testimonianze si legge che l’essere stati arrestati ha reso possibile un inizio di percorso di salvezza. Allora ciò che manca oggigiorno alla nostra società è la capacità di punire la mancanza commessa, nei tempi e nei modi adeguati.

La punizione è un argomento rovente. Ricordo molto bene che a scuola durante una discussione con gli allievi di una quarta (17 anni circa) a seguito delle lamentele dei docenti del consiglio di classe per un comportamento inappropriato durante la proiezione di un film nell’auditorium comunale, mi sono sentita chiedere: perché non ci punite?

Dunque è l’essere umano in formazione che sente la necessità di essere punito. Dunque è vero che porre delle asticelle da non superare serve, e che se vengono superate è opportuno punire. Se non si punisce, il livello della trasgressione aumenta e diventa incontrollabile, deleterio sia per l’individuo che per la società. Nella nostra società la certezza della pena è una chimera, nel nostro sistema scolastico la punizione non è usata o è usata in modo inappropriato, in famiglia sempre meno spesso accade che i genitori insegnino ai figli a far fronte alle proprie responsabilità e che li puniscano quando i loro comportamenti lo richiedano.

Anni di insegnamento hanno generato domande cui non è facile dare una risposta. Però ho maturato la ferma convinzione che un giovane in formazione ha bisogno, anche se non lo sa, di un punto di riferimento, di una figura con cui scontrarsi per scoprire se stesso, di una guida che lo aiuti a… rendere gli orizzonti meno vaghi, a individuare mete credibili raggiungibili con vie lineari e non contorte, a scegliere ideali che non si rivelino illusioni antiche e non risolte, a ricercare piaceri che non si riducano solo a gioie corte. A volte, quando si è giovani, tutto questo da soli non si riesce a farlo.

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Trasgressioni e conquiste

Trasgressioni e conquiste, Buccinasco 02-02-2016, Gemma Ristori

L’incontro di martedì 1° Marzo nella scuola media di Buccinasco ha un antefatto. Ore 8:40, casa del dott. Aparo, tre ragazze ancora assonnate, subito dopo il buongiorno, vengono colte di sorpresa da domande del tipo:
Prof: quando è stata scoperta l’America?
Noi: 1492
Prof: e.. quando è stato scritto l’infinito?
Noi: Ah, boh!
Prof: Beh, cercatelo!

E così, passando dal salotto di casa Aparo al viaggio in macchina, cominciamo a prendere appunti su alcuni passi cruciali della storia dell’uomo. Arrivati a scuola, ci viene svelato il piano: lo scopo della giornata è effettuare una ricerca sul rapporto con il limite di studenti e detenuti. Come per ogni ricerca che si rispetti vengono dichiarate le fasi e le modalità che la caratterizzano:

  1. Esposizione di alcuni passaggi significativi nella storia dell’uomo;
  2. Collaborazione attiva fra studenti della scuola che ci ospita e detenuti e studenti universitari del gruppo;
  3. Esplorazione dei sentimenti verso la trasgressione, la conquista, lo sconfinamento nella mitologia e nella letteratura;
  4. Confronto fra le emozioni più comuni fra studenti e detenuti;
  5. Eventuali correlazioni tra atteggiamenti verso il limite e stile del rapporto con l’autorità.

Inizia l’incontro e il dott. Aparo fa accomodare sul palco studenti e detenuti del Gruppo della Trasgressione insieme ad alcuni studenti della scuola. Siamo nella prima fase e la domanda che apre le danze è: “Cosa vi viene in mente in relazione al superamento del limite nella storia o nella mitologia?”, poi richiama, a mo’ di esempio, la mela di Adamo ed Eva e chiede cosa suggerisce.

A questa sollecitazione risponde Matteo, un metro e 50 di curiosità e dolcezza condita da un pizzico di timidezza; il suo intervento è integrato da quello di Roberto Cannavò, che sottolinea come Adamo ed Eva caddero in tentazione perché ottenebrati dal desiderio di diventare come Dio.

Il dott. Aparo si rivolge nuovamente ai piccoli e ai meno piccoli presenti sul palco, chiedendo altri esempi di superamento del limite. E’ ancora Matteo a intervenire citando il viaggio di Ulisse oltre le colonne di Ercole, limite estremo del mondo conosciuto. Il prof., dopo aver sottolineato la pertinenza dell’esempio, ricorda che anche Dante Alighieri nella Divina Commedia cita il viaggio di Ulisse in relazione al desiderio insaziabile di conoscenza, ma condanna l’eroe in relazione all’arroganza con cui amministra tale desiderio.

E così, la ricerca condotta da studenti e Gruppo della Trasgressione assume sempre più le forme di un viaggio spinto dal vento della curiosità, un itinerario che coinvolge mitologia, letteratura, arte, scienza e storia, la cui mappa viene tracciata grazie al contributo di persone con età e vissuti molto distanti tra loro.

Viene citato dal Dott. Aparo il mito di Prometeo, che rubò il fuoco (strumento di conoscenza ed emancipazione) a Zeus per permettere agli uomini di avere la luce; Manuela, un metro e trenta di tenerezza e curiosità, ricorda come tappa importante nel cammino dell’umanità i primi voli in aereo e illustra, su sollecitazione del Prof, il mito di Icaro. Alberto Marcheselli sottolinea come inizialmente Icaro usi le ali di cera per emanciparsi, per fuggire dal labirinto di Dedalo, ma poi, preso dall’ebbrezza del volo, si spinge sempre più vicino al sole (avvicinarsi a Dio), così che le ali si sciolgono e Icaro precipita.

Viene così raggiunta la prima meta del viaggio: ogni volta che l’uomo punta a superare un limite, coesistono in lui due spinte, una miscela fra: da una parte, il desiderio di emancipazione, di crescita, di autonomia; dall’altra, quello di sfidare l’autorità, con la conseguente vertigine data dall’illusione di superare colui che ha posto il limite o addirittura di ucciderlo.

Il tragitto continua… Mohamed cita il nostro mito di Sisifo e il suo disprezzo per le divinità dell’Olimpo; un ragazzino della scuola cita il Simposio di Platone e la divisione dell’uomo in due metà costrette a cercarsi per tentare di recuperare l’antica forza che era stata tolta all’androgino da Zeus per timore che potesse minacciare lo status degli dei; Alessandra cita il ritratto di Dorian Grey e il desiderio dell’eterna gioventù; Gemma parla di Edison e dell’invenzione della lampadina; Alberto parla del delirio del dott. Frankestein di Shelley.

Conclude la carrellata il Dott. Aparo che sottolinea come anche nel progresso scientifico e nello sport ci sia un confine labile tra il desiderio di crescere e migliorarsi e la vertigine di sentirsi in cima al mondo. E cita la voglia di conoscere di Marco Polo e Colombo; il Faust di Goethe che, in nome della conoscenza, stipula un patto col diavolo per riceverla tutta e subito; la tragica spedizione sull’Everest dove, a causa della voglia di esibire e consumare risultati ed emozioni, persero la vita 19 persone; infine ricorda il primo uomo sulla luna, con il senso di trionfo, ma anche con il lavoro e le allenze necessarie per arrivarci.

E siamo alla seconda tappa del nostro viaggio: il desiderio di superare il limite, la spinta verso l’infinito è una caratteristica insita nell’essere umano; ma solo se questa spinta è accompagnata dal progetto, dal lavoro, da alleanze appropriate potrà portare a traguardi costruttivi e duraturi. Edison, Franklin (l’inventore del parafulmine) e molte altre personalità che hanno scolpito la storia, hanno raggiunto traguardi e contribuito all’evoluzione dell’uomo e al nostro benessere odierno; ma cosa permette di raggiungere mete così straordinarie senza farsi vincere dalla vertigine del senso d’onnipotenza?

Il Dott. Aparo suggerisce, a questo proposito, un confronto fra due modi di procedere: uno puntato al miglioramento di sé e/o al perfezionamento dell’oggetto cui ci si dedica; l’altro basato sulla ricerca del potere e/o dell’eccitazione. Nel primo caso, ogni gradino è un’esperienza e un arricchimento; nell’altro, si punta a conquistare trofei, che spesso vengono consumati molto velocemente, senza saziarne la fame.

Questa differenza nel rapportarsi con i limiti non prescinde dall’immagine dell’autorità che ciascuno di noi ha interiorizzato. La relazione emotiva con il limite, infatti, cambia significativamente se il viaggio verso la meta viene effettuato all’insegna del rancore e dell’opposizione o se, invece, viene sostenuto da un’autorità accuditiva.

Come il mito, la letteratura e le storie di molti componenti del gruppo della trasgressione documentano, raggiungere la meta per chi sente dentro di sé che ogni conquista equivale a una battaglia vinta contro un genitore castrante porta con sé la fantasia di distruggere il genitore stesso (e questo induce a rimettere perennemente in scena atti di sopraffazione e di autodistruzione); procedere invece in sintonia con una guida che indichi la strada permette di orientarsi, di crescere e di nutrirsi di quanto si incontra nel cammino e dei propri risultati.

La conclusione del nostro itinerario, partito da Adamo ed Eva e giunto all’allunaggio, viene suggellata dagli interventi del piccolo Matteo e della piccola Manuela che ribadiscono l’importanza della guida per raggiungere mete appaganti.

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La punizione e i suoi protagonisti

Ieri, durante l’incontro al carcere di Opera fra gli scout e il Gruppo della Trasgressione, il dott. Francesco Cajani, in occasione della domanda “Cosa possono fare le istituzioni per restituire o per portare chi ha violato la legge alla nomina di cavaliere?”, ha parlato del “diritto alla punizione“, cioè dell’importanza per il reo di ricevere una risposta appropriata da parte della Legge.

Fra i detenuti, Pasquale Trubia chiedeva se e quando chi ha la condanna all’ergastolo può, attraverso l’attuale sistema punitivo, guadagnare tale nomina e poi metterla a frutto.

Da parte mia, osservo che quando si parla di punizione, si parla implicitamente dei soggetti coinvolti nella punizione: da una parte, colui che con la deroga dalla prescrizione si “guadagna” il diritto alla punizione; dall’altra, colui che, preso atto della violazione, decide ed eroga la punizione. Di solito i due personaggi sono un figlio e un padre; nella nostra mente, infatti, parlare di punizione equivale a parlare del rapporto fra genitori e figli, ma anche dei sentimenti e degli obiettivi della punizione.

A me sembra dunque che il nostro problema principale sia costituito dal fatto che:

  • mentre il genitore cui si pensa quando si parla di punizione è una persona che desidera e si ingegna per promuovere l’evoluzione del figlio ed è, ai suoi occhi, una figura dotata della credibilità necessaria per esercitare la funzione paterna, dunque una figura cui si deve dar conto di quale profitto viene ricavato dalla punizione;
  • viceversa, le figure che si occupano della punizione nella prassi istituzionale, con la frammentazione che la risposta punitiva subisce nel corso della sua erogazione, lasciano la persona da punire senza un interlocutore riconoscibile e con il quale monitorare a che punto si è con gli obiettivi e i sentimenti che della punizione sono parte integrante (ovviamente parliamo della punizione prevista dalla nostra costituzione, non della condanna che esclude una volta per tutte il reo dal consorzio civile e che, proprio per questo, non può meritare l’appellativo di “punizione”).

Se a questo si aggiunge che il condannato, nella grande maggioranza dei casi, è una persona che non ha mai superato i sentimenti turbolenti e oppositivi dell’adolescente verso l’autorità, il problema diventa ancora più grave. Sappiamo, infatti, che l’adolescente che agisce in modo da essere punito è, all’inizio e prima di ogni nefasta deriva, una persona che chiede, pur se in modo contradditorio, di poter tornare a credere nella funzione dell’autorità.

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