Numeri

“Noi siamo numeri”. Così ad un certo punto Romeo, studente del Pia Marta, ci dice di sentirsi. Ci dice che in certe situazioni lui si è sentito considerato un numero e non una persona. Appena Romeo ha comunicato questa sua sensazione le persone presenti hanno provato a capire in che senso si sentisse un numero, cercando di proporgli un’alternativa a questa sensazione, con riletture varie che potessero convincerlo a modificare il suo sentire.

Io ho ascoltato per un po’, ma intanto dentro di me riaffioravano i ricordi di quando anch’io mi sono sentita un numero, un voto, una media, un presente o assente sul registro. Ho deciso di prendere la parola e di dire a Romeo: “hai ragione!” In tantissimi momenti gli adolescenti si sentono un numero e non un individuo, con le sue paure, insicurezze, rabbie e frustrazioni, con la sua sensazione di solitudine.

Ricordo che alle superiori erano considerate persone quelle che erano sempre brave, non si ribellavano mai, facevano i sorrisi agli insegnanti. Io non ero una di queste, non studiavo, ero sempre in conflitto con la maggior parte degli insegnanti, li consideravo degli incapaci che facevano quel lavoro solo per avere uno stipendio a fine mese, non ho mai sorriso gratuitamente a nessuno di loro, il mio sorriso o il mio sguardo lo avevano solo quelli che se lo guadagnavano e credo che in 5 anni si possano contare sulle dita di una mano le volte in cui mi sono lasciata andare ad un sorriso. 

Sono stata un’adolescente abbastanza arrabbiata e rancorosa, ci sono diversi momenti che ricordo in cui gli “adulti” hanno contribuito a far crescere quel sentimento di non stima nei loro confronti, che in parte vivo ancora, ma voglio raccontarvene uno in particolare: eravamo in gita scolastica in terza superiore, stavamo facendo una passeggiata sulla via dell’amore alle 5 terre, io ero con due mie amiche, davanti avevamo il professore d’inglese di una delle altre classi e dietro la nostra professoressa di fisica.

Non ricordo perché ma ad un certo punto io ho cominciato a discutere con l’insegnante d’inglese sul significato della frase “ti amo tanto”. Lui sosteneva che non si può amare tanto o poco, o si ama o non lo si fa. Io sostenevo che l’amore ha diverse forme e diverse fasi e che si può amare tanto, tantissimo o semplicemente amare. Comunque non è questo quello che voglio raccontare.

Tornati dalla gita, mia madre è andata ai colloqui, ovviamente per me il giorno dei colloqui era terribile, venivo sempre sgridata e messa in punizione, anche quella volta andò così… ma mia madre mi disse anche che la professoressa di fisica era rimasta piacevole colpita da come io fossi matura e in grado di tenere una discussione con un “adulto” e che, se avessi usato la metà delle mie capacità anche nello studio, sarei stata sicuramente tra le migliori.

Mia madre mi riferì questa cosa convinta di motivarmi e di darmi uno stimolo per impegnarmi di più, io invece mi arrabbiai così tanto che cominciai a urlare le peggio cose nei confronti dell’insegnante, il fatto che quella che avrebbe dovuto essere una mia professoressa si era accorta dopo tre anni che la Noemi non era la media del 4 che aveva nella sua materia, ma era una ragazza che aveva qualcosa da dire a chi le permetteva di dirlo, fu per me la conferma e l’autorizzazione a continuare a non stimare quelle persone. Ovviamente a me la professoressa non disse mai nulla, né mai cambiò il suo comportamento nei miei confronti, continuò a rimproverarmi e a sfottermi per i miei risultati.

Purtroppo a distanza di 11 anni da questo episodio e da molti altri, mi rendo conto che l’unica ad essere stata punita sono io, ho vissuto male, ho sofferto e ho dovuto fare verifiche su verifiche per recuperare i voti e non essere bocciata, la professoressa ha continuato a vivere e a lavorare nella più completa tranquillità, e al fianco della sua totale incapacità di fare il suo mestiere.

Siamo numeri, lo siamo stati e lo saremo in moltissime situazioni, ma non lo siamo per tutti. La vita ci dà tantissime possibilità di essere riconosciuti come persone, con qualità, difetti, risorse e conflitti. Oggi mi sento un numero in molte situazioni, ma in altre tante mi sento Noemi.

Torna all’indice della sezione

Il Gruppo Trsg al Piamarta

Milano, 6 Marzo 2017

Oggi è stata una giornata particolarmente importante e ricca di emozioni per il nostro gruppo. Ci siamo infatti cimentati in nuova sfida, con detenuti e studenti coinvolti in prima persona nella conduzione del Gruppo della Trasgressione senza la presenza del prof. Aparo.

Il tutto si è svolto questa mattina all’Associazione Formazione Giovanni Piamarta, un’associazione senza fini di lucro che ha lo scopo di svolgere attività di educazione e formazione, con particolare riguardo ai giovani e ai lavoratori, curandone la crescita umana e professionale. L’Ente realizza Corsi di Istruzione e Formazione Professionale, destinati a ragazzi in obbligo formativo; Corsi di Formazione Superiore, destinati a diplomati e laureati; Corsi di Formazione Continua e Permanente, destinati a soggetti occupati, inoccupati e disoccupati.

La collaborazione tra il Gruppo della Trasgressione e l’Associazione nasce dalla necessità di intervenire in una realtà difficile ma purtroppo sempre più comune: l’adolescente inserito in un contesto familiare e sociale precario, in cui i fattori di rischio superano di gran lunga quelli di protezione.

Questo progetto ha avuto luogo grazie alla fiducia del Rotary Club Milano Duomo, che ha completamente finanziato il progetto, credendo nell’utilità del confronto e dialogo tra detenuto/studente e studenti della suddetta scuola.

Pe noi è stata una grande vittoria. È bello toccare con mano che il nostro gruppo va consolidando giorno dopo giorno un metodo di intervento che va oltre le mura del carcere. La nostra vittoria non è stata solo con gli studenti ma è stata, soprattutto, l’esperienza di viverci come gruppo, con un metodo di lavoro e con un obiettivo.

Ecco come abbiamo impostato la giornata. Fra studenti del Piamarta e componenti del gruppo Gruppo della Trasgressione eravamo una trentina; ci siamo divisi in due gruppi composti da circa 15 persone. L’obiettivo ultimo di questi incontri è quello che ciascuno di noi riesca a narrare la storia dell’altro.

Nel gruppo dove ero presente anch’io, i ragazzi erano particolarmente “ermetici”. La prima parte dell’incontro è stata difficile da gestire. Massimo Moscatiello, detenuto del gruppo, ha cercato, in diversi modi, di oltrepassare il loro muro, ma la loro risposta era sempre la stessa: “non ho voglia di raccontare i fatti miei a degli sconosciuti!”

Ci guardavamo tra di noi e dai nostri occhi traspariva la difficoltà. Dopo circa 90 minuti, in accordo con l’educatrice, si decide di fare una “pausa sigaretta”. Quello è stato il momento in cui abbiamo avuto la possibilità di avvicinare i ragazzi singolarmente ed è stato molto meno difficile di quanto immaginato: ciascuno di loro fremeva dalla voglia di raccontarsi ma aveva paura del giudizio del gruppo; singolarmente, invece, è stato molto più semplice. Una volta rientrati dalla pausa, abbiamo deciso di cambiare metodo d’azione; anziché interrogare loro, abbiamo iniziato, noi del gruppo, a raccontare parte della nostra storia.

Ho percepito dal gruppo un estremo interesse e una partecipazione che prima non era così palpabile. Hanno iniziato a interagire attraverso domande e dubbi. Dopo hanno anche iniziato a raccontare parte delle loro storie, vite così giovani ma già così segnate da ingiustizie e sofferenze.

Mascia è stata la prima a rompere quel muro, la prima a dar l’esempio agli altri, la prima ad ammettere che per lei raccontarsi è estremamente difficile perché ha la costante sensazione di non essere adeguata, di essere sbagliata e, dunque, di essere giudicata. Ma oggi è stata bravissima; si è raccontata nella maniera più sincera e profonda che poteva, senza preoccuparsi che quelle persone che aveva davanti avrebbero potuto giudicarla. No, invece era orgogliosa di ciò che stava facendo e si sentiva libera di poter essere se stessa.

Quasi tutti i ragazzi hanno raccontato pezzi della loro storia. L’unico che lo ha fatto in modo originale e alternativo al resto del gruppo è stato Aldo. Personalmente, sono rimasta molto colpita da questo ragazzo. Aldo ha 17 anni, si presenta come un ragazzo sorridente e sicuro di sé ma, allo stesso tempo, strafottente e arrogante. Il suo “racconto” è stato: “non racconto mai nulla di me perché gli altri non capiscono nulla. Io sono il migliore e le poche persone che abitano la mia vita sono le uniche degne di rispetto; il resto, in quanto esseri inferiori a me, merita di essere maltrattato!”

A me, con il suo intervento, ha comunicato tantissimo. Come raccontavo anche a lui, mi ricorda l’adolescente che ero io. Anch’io, come lui, mi atteggiavo con sicurezza e superiorità, il mio motto appena entravo a scuola era: “io sono la migliore!” solo pochi meritavano il mio rispetto e quei pochi solitamente coincidevano con le persone che mi “rispettavano”.

Ai tempi il mio concetto di rispetto era un po’ diverso da quello di oggi. Il rispetto, come Aldo, lo pretendevo attraverso l’unico strumento che avevo: la mia aggressività. Allora non capivo che il modo di interagire con gli altri, altro non era che un bisogno smodato di trovare un mio spazio nel mondo, che evidentemente non sentivo di avere. Era la mia fragilità che mi obbligava a ricoprire il ruolo della bulla, di colei che doveva sempre intromettersi nelle situazioni irrisolte che non mi riguardavano; eppure la cosa mi divertiva e mi faceva sentire realizzata.

Non sapevo cercare il mio spazio né dar voce alla mia intelligenza, alle mie capacità relazionali. Come Aldo, anch’io avevo pochi amici, non perché gli altri non fossero abbastanza per poter stare con me, ma perché erano gli altri che non volevano stare con me. Chi vuole come amica un’adolescente sempre incazzata che sottomette gli altri?

Credo che la vittoria più grande per il gruppo si chiami anche Aldo. Siamo riusciti a instillare nella sua mente delle domande, dei grandi punti interrogativi che sono certa che si porrà anche quando tornerà a casa e tutte le volte che avrà voglia di riflettere su di sé. Spero che nei prossimi incontri cerchi insieme a noi delle risposte a questi interrogativi che adesso abitano la sua mente. Ma qualora questo non avvenisse, credo che il suo sia stato comunque un grandissimo passo.

Torna all’indice della sezione