Categoria: Prevenzione
Una mappa per la pena
In relazione al prossimo convegno su “Una mappa per la pena” voglio provare a riassumere quanto ho acquisito nei miei dieci anni di volontariato col Gruppo della Trasgressione.
Tutte le settimane ho ascoltato per ore i detenuti parlare di sé, dei propri sentimenti, desideri, emozioni, frustrazioni e per ore ho ascoltato le risposte dello psicoterapeuta dottor Aparo e dei vari componenti esterni del gruppo. Per ore ho ascoltato il dialogo cui anch’io ho dato il mio contributo e ho imparato molto.
Ho imparato che l’arresto, la condanna e qualche volta la carcerazione sono necessari per fermare l’abuso. Ho sentito gli stessi detenuti dire: “Per fortuna mi hanno fermato… se non mi avessero fermato avrei continuato a delinquere”
Ho imparato anche che la carcerazione, pur tante volte necessaria, non è sufficiente per adempiere pienamente al dettato costituzionale, dove si afferma che la pena non deve avere solo valore afflittivo ma rieducativo.
Alle Istituzioni, per far sì che i detenuti diventino cittadini pienamente partecipi della società che hanno offeso, chiederei di prevedere, già dal primo periodo della condanna definitiva, un progetto e percorso di evoluzione.
Gli obiettivi dovrebbero essere l’acquisizione di una coscienza e la conseguente capacità di assumersi le proprie responsabilità.
Per arrivare alla coscienza, sulla base dell’esperienza acquisita in questi anni di partecipazione attiva alle dialettiche serrate del gruppo della trasgressione, credo siano indispensabili alcuni passi:
- indagare con metodo sull’abuso commesso, sulle modalità e sulle ragioni, aiutando l’abusante a portare alla luce sentimenti, attitudini e pensieri al momento del reato. Ciò farebbe acquisire consapevolezza di sé e della realtà;
- esplicitare con chiarezza che l’obiettivo da raggiungere è l’esercizio della responsabilità, che è tratto tipico del cittadino adulto;
- creare occasioni di contatto con il mondo esterno che tolgano il detenuto da un isolamento che, pur spiacevole, può diventare una comfort zone difficile da abbandonare;
- creare occasioni in cui i detenuti riescano a individuare una funzione da svolgere e si sentano utili alla società che in precedenza hanno offeso, irrobustendo così la parte migliore di sé.
Infine, in relazione al formarsi di una coscienza, credo importante:
- che l’abusante arrivi a conoscere personalmente le conseguenze del gesto compiuto (materiali e morali, difficoltà, dolore, ansia), se non della sua vittima diretta, almeno di una vittima che ha subito lo stesso tipo di abuso;
- che il percorso di evoluzione preveda la possibilità di verificare in situazioni concrete la reale acquisizione di capacità nell’esercizio e nel… piacere della responsabilità.
Tante sono le competenze che questo approccio richiede, ma sono consistenti anche i vantaggi e i risultati ottenuti nei 25 anni che il gruppo compie quest’anno. I tanti detenuti che alla distanza ne confermano l’efficacia suggeriscono che questa possa essere una giusta modalità operativa o, quanto meno, una direzione che merita di essere studiata per valutarne la portata, i pregi e i limiti.
Nuccia Pessina Una mappa per la pena
Due poesie a confronto
Per chi scrivo: due poesie a confronto
con la cronaca di un auto-apprendimento
di Giovanna Stanganello
Gli incontri tra studenti e detenuti sono pratiche di cittadinanza e spazio di conoscenza; costituiscono occasione che fa della pena strumento educativo per il recupero alla società di chi ha commesso gravi crimini; sono momento di riflessione sui nostri destini e possibilità di scampare ad essi, scartando da una storia che sembrava scritta, senza scampo.
Non è tutto scritto, si può cambiare.
La forma promossa dal gruppo della trasgressione diventa comunicazione intima, radicale che ci interroga in quanto esseri umani, non c’è discorso obliquo né giustificazione, c’è recupero di un senso dopo l’annegamento, un possibile risveglio dal sonno della coscienza.
Cosa abbiamo tratto dagli ultimi incontri del nostro pluriennale rapporto con il Gruppo della Trasgressione? Quello che il presidente del gruppo chiama viaggio di andata e ritorno: dalla terra al pianeta in cui, marziani della loro esistenza, si sono persi a truffare e assassinare: pianeta ricco di potere, denaro, macchine, donne da possedere, pianeta arido da cui raramente si torna.
E quelli che tornano? Erano lì, con i ragazzi del liceo di Brera che li hanno conosciuti in due incontri a scuola, dopo tanta distanza e reclusione nella reclusione della pandemia. Erano lì, senza fronzoli, il dott. Aparo non dà scampo, non lascia scantonare di lato, se sei tornato dal pianeta del male parli in modo diretto, non ti racconti la realtà parallela delle giustificazioni o del diritto di calpestare diritti altrui. Sei lì, inerme davanti ad una verità ripescata a fatica uscendo dall’azzeramento del non sentire l’altro. L’animo è nudo.
Mi ha colpito particolarmente una parte del lavoro che nel gruppo della trasgressione viene sviluppato: la relazione tra genitori e figli. Figli trascurati, ricoperti di denaro e diseducazione, figli male adorati che nutrono un rapporto amore-odio verso genitori “sbagliati”. I destini sono diversi: qualcuno con il sudore ha recuperato la relazione, qualcun altro è stato rifiutato nonostante sia oggi una persone differente da quella che i figli piccoli hanno conosciuto.
Tante emozioni. Ne riporto alcune:
Adriano ha una compagna che si è innamorata di lui, marziano ritornato ad essere uomo. C’è una ragione in questo amore: quello che ha davanti è una persona che si alza alle 4,30 per lavorare in una cooperativa di ortofrutta, che assiste durante la pandemia gli anziani che non possono uscire e li rifornisce di quanto hanno bisogno; è un uomo quello che gioca con i suoi bambini, delicato di una delicatezza inedita.
Pino ha una figlia, è lì: qual è il momento in cui è iniziato il viaggio di ritorno? Quello in cui, a casa in permesso, chiede alla sua ragazza adolescente: “dove vai?” e lei. “T’interessa dove vado? Ma tu non lo hai mai saputo, cosa t’importa adesso?”. Quando rievoca questo momento davanti a lei, gli si spezza la voce. Un dettaglio apparentemente secondario è stato la leva per tornare ad essere uomo. Potrai mai dimenticare? No, ma capire, nel tempo, questo sì.
Nuccio: infanzia arrabbiata nelle pieghe della Sicilia infiltrata dalla mafia. I più svegli e vivaci vengono notati dai signori della criminalità organizzata e “allevati”da essa, dunque sono “spediti” su Marte. Ed ora, scontata una lunghissima pena, i figli sono inarrivabili. Una malattia si è portata via il suo ragazzo con cui aveva ripreso ad avere una relazione significativa e che gli aveva detto un giorno in cui Nuccio, mortificatissimo, era arrivato in ritardo: “non m’importa se è tardi, m’importa che tu ci sei”. Ricordando quel momento si commuove, fa silenzio. La figlia non vuole vederlo, lui tenta e ritenta, resta a guardarla da lontano, dove lei lavora, dall’esterno dell’Esselunga.
Roberto ci ha messo tanto tempo per tornare ad essere credibile, le figlie sono diverse e diversamente si relazionano. Racconta così quello che chiama: “il mio slittamento verso la devianza”:
il mio paesaggio ha subito una desertificazione,
la mia anima ha albergato in una pozzanghera”.
Nuccio, Rosario, Mario, Adriano, Roberto, Sergio, Mohamed, Antonio…
scorrono le storie davanti allo sguardo dei ragazzi: attentissimi. Che cosa ne hanno ricavato lo diranno gli studenti stessi nei testi che invieranno.
Io ho fatto della letteratura una ragione, non solo perché la insegno, ma perché credo che l’arte abbia il potere di svelare e questo potere lo ritrovo negli incontri così intensi tra gli studenti e i detenuti. Quando il cosa si dice e il come lo si dice si corrispondono, scatta la scintilla dell’arte, che sta nella capacità che hanno gli umani di incantarsi a vicenda con le storie narrate quando queste parlano davvero di noi. Se accade quella scintilla possiamo dire che la letteratura si fa vita. Due volte ho conosciuto questo potere: tra i marziani tornati dal pianeta della devianza e nel Brasile degli ultimi.
Riporto il primo esempio a riguardo:
Nuccio legge le poesie che mai avrebbe pensato di comporre nella sua vita precedente, le legge con intensità struggente; i suoi testi sono inscindibili dal modo in cui li interpreta, nella lingua madre siciliana, senza recitare, con la commozione che li spezza.
Se a vita fussi scrittu ‘nda fogghiu i catta
unni pi cangiari i cosi
bastassi na gomma
lassassi sulu tanticchia
da me vita
Quali?
Quannu era picciriddu
u restu u scancillassi […]
Mi ha fatto venire in mente Tolstoj in Morte di Ivan Il’ic. Il protagonista è perso nelle apparenze borghesi, nella vacuità di una non esistenza priva di senso profondo, senza quel nocciolo che ha avvertito unicamente nell’infanzia e nella prima giovinezza. In fondo anche lui ha abitato il pianeta del vuoto e torna alla vita vera paradossalmente quando, per una grave malattia, la sta perdendo e ne ricostruisce il senso in estremo:
Tutto ciò di cui vivesti e vivi non è che menzogna,
inganno che ti nasconde la vita e la morte.
E Nuccio non sta parlando, forse, di questo significato profondo tornato in superficie, quando dice: l’adrenalina, l’eccitazione mi venivano solo dal potere e dalla sopraffazione, ma oggi, quando tremo e sento gli studenti emozionarsi perché ho letto una mia poesia, mi dico che ero cieco, che cosa conta il resto al confronto di questo gusto di oggi, nuovo, di questo sentire pieno?
Il secondo esempio di letteratura come vita viene dal Brasile, lo riporto in comparazione con un’altra poesia di Nuccio: il cui titolo è assai simile a quello scelto da Denise, menina de rua; ciascuno di essi si chiede, in fondo: Per chi scrivo? e ciascuno muove dalla sua esperienza per dare un senso al proprio atto di comunicazione: Nuccio lo fa per riconquistare il cuore di sua figlia. Denise (a cui vengono attribuiti i diritti d’autore per le sue poesie e che, tornata sulla strada, vi scompare) scrive per i ragazzi della strada, per i mendicanti, gli accattoni e i drogati, che mai arriveranno a leggerla e che faranno del suo libro un appoggio per la loro testa durante il sonno.
I due testi sono attraversati da una grande potenza per la loro verità e per uno stile diretto, efficace e toccante. Non so perché, ma mi hanno riportato alla mente una bella storia con cui voglio terminare: è la cronaca di un autoapprendimento. Eccola: un povero del Brasile, non alfabetizzato, che non rivela la sua deprivazione culturale per vergogna ed orgoglio, matura caparbiamente una tecnica di associazione delle lettere a partire dal suo nome sulla carta d’identità, dai cartelloni che vede per strada, dai nomi delle vie e da stralci di giornale… in cui riconosce i segni delle parole che ricorrono. Dopo mesi e mesi di sforzi per tentativi ed errori, la scrittura gli si palesa, come una specie di rivelazione: “e alla fine fu come un soprassalto: stavo leggendo tutto, tutto!” Un ‘intelligenza acuta volta a un’intenzione al cambiamento.
Le energie più vivaci possono essere sfruttate per le ragioni più abiette dalla criminalità organizzata, uscirne è impresa ma se, con uno scarto individuale o con un gruppo di appoggio ti dai una possibilità, allora “nel fermarti la mente riprende a respirare, allora ti vengono i pensieri e riesci a farti delle domande”: così conclude Antonio Tango (detenuto e omonimo del protagonista brasiliano di questa cronaca di un autoapprendimento) parlando del teorema di Pitagora che si è messo a studiare. Da questa riflessione sull’importanza dell’interrogarsi sulle cose prendendosi il tempo per farlo è nato il film Il teorema di Pitagora realizzato nella collaborazione tra il liceo e il laboratorio della trasgressione.
Picchì scrivu puisii?
Picchì scrivu puisii?
Fossi picchì no nti sappi
teneri nde razza?
O fossi,
picchì no gnucai
mai cu tia?
O picchì
no ndi sappi rari
u megghiu ri mia?
Macari ka c’era,
Era iù ka no vireva.
Passai troppu anni o scuru,
Era accussì scuru
ka no mireva
Mangu chiddi chiù vicinu.
Picchì vogghiu
addivindari pueta?
Fossi picchì sulu l’animu
di mpueta è degnu
di riqunguistari
u to cori.
Perché scrivo poesie?
Perché scrivo poesie?
forse perché non ti ho saputo
tenere in braccio
O forse
perché non ho giocato
mai con te
O perché
non ti ho saputo dare
il meglio di me
Anche se c’era,
ero io che non ti vedevo
ho passato troppi anni al buio
Era così buio
che non vedevo
neanche quelli più vicini
Perché voglio
diventare poeta?
forse perché solo l’animo
di un poeta è degno
di riconquistare
il tuo cuore
Nuccio di Mauro, Opera, 26 ottobre 2016
Para quem escrevo
Hoje perguntara-me
para quem esu escrevo.
Tentaram-me interrogar com a questão:
para quem escrevo os meus pensamentos.
Com um olhar distante e um jeito um tanto tímido
respondi…
escrevo para os que nunca chegarão a ler;
escrevo para os que nunca frequentarão uma escola,
escrevo para não tem um tostão
nem ao menos para comprar um pão
ou um livro de poemas,
escrevo para os mendigos, pedintes,
drogados ou viciados
que um dia encontrerão em meu livro
um apoio para suas cabeças durante o sono.
Escrevo para os que come eu
são ou já foram meninos de rua,
escrevo para você, e para você,
para que o mundo conheça nossas alegrias
e sofrimentos.
Per chi scrivo
Oggi mi hanno chiesto
per chi scrivo.
Mi hanno interrogato con la domanda:
per chi scrivo i miei pensieri.
Con uno sguardo distante e un fare un po’ timido
ho risposto…
scrivo per quelli che non arriveranno mai a leggermi;
scrivo per quelli che non frequenteranno mai una scuola,
scrivo per chi non ha un soldo
nemmeno per comprare un pane
o un libro di poesie,
scrivo per i mendicanti, gli accattoni,
i drogati o i viziati
che un giorno troveranno nel mio libro
un appoggio per le loro teste durante il sonno.
Scrivo per quelli che come me
sono o già furono ragazzi di strada,
scrivo per te, e per te,
perché il mondo conosca le nostre allegrie
e sofferenze.
Denise Christine Fernandes, S. Paulo, 16 giugno 1994
Tirocinio in Psicologia Sociale
Micol Sini, Matricola: 8786772
Tirocinio professionalizzante post lauream 500 ore
Periodo: dal 15/10/2021 al 14/04/2022
Caratteristiche generali dell’attività svolta: istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento
Il Gruppo della Trasgressione è un progetto ideato dal Dott. Angelo Aparo alla fine degli anni ‘90, che ha come obiettivo principale la costruzione e il mantenimento di un ambiente nel quale detenuti, ex detenuti, studenti, famigliari delle vittime e liberi cittadini possano riflettere insieme sul rapporto individuo-società, dando ognuno il proprio contributo.
Dal Gruppo sono state successivamente create un’associazione e una cooperativa che si occupano di diverse iniziative, grazie alle quali si cerca un’interazione diretta con le istituzioni e con altri gruppi/associazioni, con lo scopo di aiutare i detenuti a raggiungere un percorso di emancipazione e integrazione durante la propria detenzione o nel periodo dell’applicazione di misure alternative, ma anche nell’immediato “dopo pena”.
L’idea di fondo è che una reale inclusione e il superamento della sensazione di marginalità e di estraneità alle regole possa avere luogo solamente se si partecipa attivamente ad attività e a esperienze concrete, in modo tale che il singolo e la società crescano e si rinnovino.
Durante gli incontri settimanali con i detenuti, gli ex detenuti, i famigliari delle vittime di reato, gli studenti e i cittadini, si affrontano diverse tematiche, come il rapporto con l’istituzione carceraria, il delirio di onnipotenza, la relazione tra detenuto e figli/famiglia, l’abuso, la libertà, la responsabilità, la prevenzione alla devianza e al bullismo.
Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte
Gli incontri del Gruppo della Trasgressione si tengono presso la sede di Via Sant’Abbondio o tramite piattaforma online. Durante queste giornate ho avuto l’opportunità di conoscere diverse persone, partendo dai detenuti e dagli ex detenuti, arrivando a liberi cittadini, tra i quali spesso partecipavano anche parenti delle vittime di reato.
Durante il mio percorso ho avuto modo di ascoltare diverse storie, soprattutto di detenuti ed ex detenuti appartenenti al mondo della Mafia (ma non solo). Attraverso i racconti ciascun componente del gruppo cercava di analizzare la propria vita, le scelte del passato, le fragilità che lo hanno portato sulla strada della devianza. Ad ogni incontro c’era sempre qualcuno che riusciva a “mettersi a nudo” e uno degli obiettivi principali del gruppo è aiutare i propri componenti a raggiungere consapevolezza dei propri errori e riconoscere, di conseguenza, le proprie fragilità, scavando dentro sé stessi per riuscire a ritrovare quella libertà persa ormai da tempo. Libertà non solo fisica ma soprattutto dell’anima.
Quindi, in quanto tirocinante di psicologia, ho avuto modo e piacere di poter osservare da vicino come le fragilità e i vissuti passati dei detenuti vengono affrontati e analizzati dagli stessi; come certi avvenimenti, come esperienze di abuso o di abbandono, li hanno portati alla scelta di perseguire una strada piuttosto che un’altra; come l’assenza di un genitore possa creare in un bambino, o in un adolescente, incertezze riguardo la propria identità e al proprio ruolo nel mondo. Ma, allo stesso tempo, ho potuto ammirare l’acquisizione di coscienza dei detenuti, la loro voglia di rinascere e di costruire una vita nuova per sé stessi e per i propri cari, la consapevolezza della propria libertà, di quella altrui e della responsabilità che ne consegue.
Attività concrete/metodi/strumenti adottati
Ho sempre partecipato agli incontri settimanali del Gruppo, per la maggior parte delle volte tramite piattaforma Zoom, insieme agli altri tirocinanti e ai vari componenti del gruppo, tra i quali i detenuti ed ex detenuti che fanno parte del Gruppo ormai da anni.
In diverse occasioni, al termine degli incontri, il Professore chiedeva a noi tirocinanti di redigere delle relazioni su quanto emerso durante gli incontri. Inoltre, ad ogni tirocinante era richiesto di diventare vero e proprio componente del gruppo, farne parte partecipando in maniera attiva e contribuendo attraverso i propri pensieri e le proprie idee.
In più, in questo semestre di tirocinio, ho avuto l’occasione di poter partecipare a diversi incontri nelle scuole. Durante questi incontri i detenuti portano in prima persona le proprie esperienze davanti a studenti di 15-18 anni e l’obiettivo è quello di riuscire a fare prevenzione alla devianza ma anche al bullismo, fenomeno che si presenta in svariate forme soprattutto durante gli anni del liceo. Questi incontri sono stati un’esperienza splendida e, a mio avviso, rispecchiano esattamente lo scopo del Gruppo della Trasgressione, ossia rendere partecipe in maniera attiva tutta la collettività, per fare in modo che insieme si possa creare un ambiente all’interno del quale ciascuno possa crescere, imparare, essere libero.
Non da meno, il Gruppo, con l’associazione e la cooperativa, organizzano diversi incontri con le istituzioni (a fine maggio si terrà un importante convegno a Roma davanti alla ministra Cartabia) e collaborazioni con altre realtà. Per esempio, attualmente si sta cercando di creare una trasmissione radiofonica presso una stazione radio del Comune di Rozzano.
Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte
Durante tutto il mio percorso presso il Gruppo della Trasgressione, la presenza del Professor Aparo è stata fondamentale. Il coordinatore, nonché fondatore del Gruppo stimola tutti i componenti e i partecipanti a condividere i propri pensieri, le proprie idee e le proprie emozioni in merito alle diverse tematiche che vengono affrontate durante i vari incontri. L’obiettivo del prof è di spronare tutti i tirocinanti a esporsi partecipando in maniera attiva e concreta, pur accettando le fragilità di ciascuno di noi e le diverse personalità.
Ovviamente il Dott. Aparo leggeva e correggeva tutte le relazioni e i verbali redatti da noi tirocinanti.
Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative) e abilita acquisite (tecniche, operative, trasversali)
Grazie alla mia permanenza presso il Gruppo della Trasgressione ho avuto la possibilità di conoscere il mondo carcerario e la realtà che vivono i detenuti e gli ex detenuti e di confrontarmi con loro e con gli altri componenti del gruppo riguardo a tematiche importanti; ho sicuramente migliorato e sviluppato la mia capacità di ascolto, anche se il dott. Aparo mi ha criticato per i miei silenzi perché prediligevo l’ascolto rispetto all’intervento durante gli incontri. Ma penso che, come futura psicologa, sia una tra le capacità più importanti da potenziare; inoltre, ho implementato sicuramente le capacità di condivisione e di collaborazione di gruppo; infine, ho imparato l’importanza di riconoscere e accettare le fragilità altrui e, partendo da queste, aiutare chi si trova in difficoltà a ritrovare la propria strada, cosa che penso rispecchi esattamente l’obiettivo del mio futuro lavoro.
Caratteristiche personali sviluppate
Per quanto magari abbia fatto prevalere la mia parte più ascoltatrice, credo comunque di aver imparato ad esporre le mie idee e le mie impressioni, anche grazie alle relazioni che ho redatto, soprattutto nell’ultimo periodo, in seguito agli incontri nelle scuole, i quali hanno sicuramente lasciato un segno importantissimo dentro di me, o agli incontri ordinari del Gruppo.
Ringrazio il Gruppo per avermi dato la possibilità di poter far parte di un mondo che mi sta molto a cuore, di avermi aiutato ad aprire la mente e ampliare la mia visione della realtà, di avermi spronato ad affrontare anche le mie fragilità e le mie timidezze.
Marte – Andata e ritorno
L’incontro di oggi, 30 Marzo 2022, presso il Liceo Artistico Statale “di Brera” è stato davvero molto emozionante e diverso rispetto ai precedenti incontri con gli studenti, ai quali avevo partecipato i mesi scorsi.
Il viaggio di andata
Il “discorso di presentazione”, chiamiamolo così, del Prof Aparo mi ha piacevolmente stimolato e stupito. Ha usato una metafora semplice ed efficace: il percorso di un detenuto può essere paragonato un po’ ad un viaggio nello spazio, che comincia sulla Terra ma ha come destinazione il pianeta rosso, Marte. Durante questo viaggio avviene un cambiamento, ossia il singolo inizia ad allontanarsi sempre di più, a causa delle sue scelte/azioni, dalla collettività, fino a diventare irriconoscibile agli occhi dei suoi simili, quasi come un extra-terrestre.
In buona sostanza, una persona nasce e cresce in un certo contesto, dove si presentano, ogni volta in percentuali diverse, opportunità per fare le proprie scelte. Qualcuno, a causa di tutta una serie di condizioni e vissuti, intraprende la strada verso la criminalità. Da lì, inizia il vero e proprio distacco: da adolescente insicuro, incerto, senza una propria identità si passa ad un adulto la cui identità si plasma nell’inseguimento di illusioni e di fantasticherie di potere.
Il viaggio di ritorno
Nonostante ciò, arrivati su Marte, avendo goduto per anni di quel famoso delirio di onnipotenza di cui tanto si parla, al quale è inevitabilmente seguito il carcere, ad un certo punto ci si rende conto che forse su quel pianeta rosso come il fuoco e come il potere non si sta poi così tanto bene e che forse è il caso di rientrare sul pianeta Terra.
Ma per tornare a convivere con gli altri bisogna crescere, imparare e fare proprie le conoscenze necessarie affinché si possa costruire qualcosa di buono insieme. Insomma, bisogna tornare riconoscibili come esseri umani, attraverso un impegno personale ma anche e soprattutto della società. Questo perché bisogna necessariamente prevenire che adolescenti di 14, 15 o 16 anni si
rovinino allo stesso modo, il che, a mio parere, rappresenta un onore e un dovere verso la collettività.
Le testimonianze
Oggi abbiamo potuto ascoltare le testimonianze di diversi detenuti ed ex detenuti e io, personalmente, mi sono commossa nel vedere delle persone così consapevoli di sé stesse, delle proprie azioni ma soprattutto degli obiettivi futuri. E mi sono spesso guardata intorno per vedere se gli studenti avessero avuto la stessa reazione. Con mia grande, anzi grandissima sorpresa i ragazzi erano tutti attenti ad ascoltare Roberto, Nuccio, Mario, Salvatore, Adriano e tutti gli altri presenti. Non avevano telefoni in mano, non parlavano tra di loro, non alzavano gli occhi al cielo. Erano li, fisicamente e mentalmente. E penso che questo sia il più grande dei traguardi, cioè riuscire a coinvolgere, attraverso la propria storia e la propria esperienza, i più giovani e catturarne l’attenzione e lo sguardo.
Tra qualche mese, spero, diventerò psicologa a tutti gli effetti e mi rendo conto di avere un’emotività che va immensamente oltre la mia professione, sono consapevole che prima o poi dovrò imparare a dosarla. Ma oggi, davanti a uomini, padri che si emozionavano al punto da avere la voce strozzata parlando del rapporto con i propri figli, non ce l’ho fatta e qualche lacrima di commozione mi è scesa. Sono storie toccanti, è straordinario sentire certi racconti uscire dalla bocca di persone che hanno vissuto quel tipo di vita.
Ed è altrettanto straordinario vedere nei loro occhi la consapevolezza, l’accettazione di sé e delle proprie azioni, che non rinnegano, ma sanno di non doversi rinchiudere all’interno delle scelte sbagliate del passato. Sono consapevoli di aver fatto un percorso che ha permesso loro di arrivare oggi ad essere fieri e orgogliosi delle persone che sono diventate e tutto ciò ha permesso anche ai loro familiari, amici, conoscenti di essere altrettanto fieri dei loro traguardi come esseri umani.
Come racconteresti la tua storia ai tuoi figli?
Con questa domanda si è concluso l’incontro. Alcuni hanno cercato di rispondere nella maniera più esaustiva possibile, altri, invece, non ci sono riusciti perché non hanno figli.
Penso che questa sia una domanda molto difficile, alla quale solo un genitore possa rispondere. Per questo motivo, ho pensato di girare questa domanda a mia mamma, chiedendole come avrebbe risposto lei se si fosse ritrovata in una situazione analoga, per esempio come è successo alla compagna di Adriano.
La sua risposta, come tutte quelle che mi ha sempre dato nella mia vita, mi è sembrata molto centrata: i bambini, gli adolescenti o più in generale i ragazzi compiono degli errori, ai quali seguono sgridate o punizioni, con annesse spiegazioni del perché l’azione X viene considerata errore; allo stesso modo, anche i grandi di qualunque età possono commetterne. La cosa importante è riconoscere i propri errori e soprattutto essere consapevoli che questi hanno delle conseguenze, perché ogni nostro gesto, che può anche essere fatto con ottime intenzioni, può causare effetti dolorosi per sé stessi e per gli altri.
E il carcere dovrebbe avere questo ruolo, ossia far capire che ciò che si è commesso è stato un errore, ma dovrebbe anche aiutare, dando la possibilità di riabilitare e reinserire i detenuti all’interno di una società, di formarli, di permettere loro di studiare, per poter tornare ad affrontare la vita quotidiana e le responsabilità che ne seguono in maniera più forte e consapevole rispetto a prima.
Micol Sini Marte, andata e ritorno
Il fallimento
Ci sono parole che evocano disagio solo a pensarle. Parole che vengono evitate, sussurrate. Parole che vengono lasciate sospese, parole non dette.
La parola “fallimento” è una di queste. Si cerca di evitare poiché evoca una sensazione sgradevole, sia in chi la pronuncia sia in chi l’ascolta. A volte viene usata in modo impersonale: “è stato un fallimento”. Un fallimento di chi? Mio? Tuo? Nostro?
Fallire è un verbo che non ci piace, ci ricorda che siamo umani e che possiamo sbagliare. È difficile anche solo pensare di aver fallito, figurarsi dirlo. E quando si trova il coraggio di ammetterlo, spesso gli altri tendono a trovare parole di conforto: “non preoccuparti, ti rifarai, avrai un’altra occasione, non pensarci”. Spesso è vero, in molti casi il fallimento ci permette di riprovarci, con sforzi ancora maggiori, e, nella maggior parte delle volte, così dicono, dopo il fallimento arriva il successo. È raro che si parli della sensazione di fallimento. Spesso si preferisce cercare le cause, oppure trovare soluzioni.
Il fallimento si affronta da soli, non se ne parla a cena con gli amici o al bar con i colleghi. Eppure la maggioranza di noi, prima o poi, fallisce almeno una volta nel corso della sua vita. Fallisce in amore, in famiglia, nella carriera, nello studio. Si può fallire in qualsiasi cosa, eppure non si riesce a confrontarsi con gli altri. Non si riesce a rendersi responsabili del fallimento.
Da quando frequento il Gruppo della Trasgressione, spesso parlo volentieri con amici e conoscenti di quello che faccio e delle sensazioni che il gruppo mi crea. Tuttavia a volte vengo liquidata con un “mah si, tanto i detenuti sono il fallimento della società”. Ma noi facciamo parte della società giusto? Ognuno di noi è la società. E allora perché riusciamo a parlare a cuor leggero di un fallimento generale, ma fatichiamo a pensare ad un nostro fallimento personale? Forse, se parlassimo di più dei nostri fallimenti riusciremmo ad accettarli più facilmente. E una volta accettati, potrebbe essere più facile cercare soluzioni e comportarsi in modo che non capitino di nuovo.
Di una cosa sono abbastanza certa: parlarne con qualcuno, senza vergogna o sensi di colpa, può aiutare a comprendere che qualcuno ha già vissuto e, nella maggior parte dei casi, anche superato quello che noi crediamo sia un fallimento insuperabile.
Il fallimento fa parte della natura dell’essere umano e, a volte, è giusto ricordarci che possiamo anche fallire.
Anita Saccani
Interrogarsi sulla trasgressione
Anita Saccani, Matricola: 792514
Tirocinio professionalizzante – Albo A, Area Sociale
Tipo di attività: Stage esterno
Periodo: 15 Aprile 2021 – 14 Ottobre 2021
Titolo: Interrogarsi sulla trasgressione
Caratteristiche generali dell’attività svolta
Ho svolto il secondo semestre del mio tirocinio professionalizzante presso il Gruppo della Trasgressione, una realtà composta da studenti, detenuti e liberi cittadini, fondata e coordinata dal Professor Angelo Aparo, psicologo e psicoterapeuta. L’associazione opera nelle case di reclusione di San Vittore, Bollate e Opera, e nel territorio milanese, con l’obiettivo di favorire la collaborazione e il dialogo tra detenuti e cittadini.
Il Gruppo della Trasgressione utilizza la devianza, in tutte le sue forme e sfaccettature, come punto di partenza per generare riflessioni sull’essere umano e sulla società in generale. Lo scambio reciproco di pensieri e idee favorisce la costruzione di un rapporto sincero tra i membri del gruppo, vengono abolite le etichette, non ci sono più detenuti, studenti, ex-detenuti o parenti di vittime, ma ci sono cittadini che insieme lavorano per costruire una società in continua evoluzione e miglioramento. È fondamentale ricordare che la trasgressione è una componente presente nell’animo umano e non basta “rinchiuderla” in una cella e dimenticarsi della sua esistenza per far sì che cessi di esistere, al contrario è necessario interrogarsi su di essa, formulare domande sulle sue origini e i suoi sviluppi e, in seguito, proporre risposte che possano aiutare a comprenderla e, nel possibile, a contrastarla.
Il particolare tipo di approccio del Professor Aparo consente ai membri del gruppo di interrogarsi su loro stessi, sulle proprie fragilità e certezze, sulle esperienze di vita e sui valori in cui ognuno crede, consentendo così un percorso di crescita e di conoscenza del sé atto a comprendere e riconoscere le responsabilità che ogni persona possiede nei confronti della società, sia come individui che come collettività. Le iniziative del Gruppo della Trasgressione mirano quindi a costruire relazioni e dinamiche di gruppo che consentano a un detenuto, o ex-detenuto, di sentirsi parte integrante della società e, di conseguenza, di sentirsi responsabile di essa.
Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte
Nel Gruppo del Trasgressione il tirocinante è prima di tutto un membro del gruppo; quindi, è richiesta la sua partecipazione attiva a tutte le attività e iniziative del gruppo. A livello pratico, inizialmente ci si occupa della stesura dei verbali degli incontri; in seguito, man mano che si prende confidenza e conoscenza della filosofia del gruppo, si partecipa ai vari progetti in corso. Nel mio caso ho partecipato alle Interviste sulla Creatività e alla costruzione di progetti di prevenzione della devianza da attuare nelle scuole di Rozzano. Inoltre, lo studente è invitato a contribuire alle riflessioni trattate dal gruppo producendo degli scritti argomentati e coerenti, che verranno in seguito pubblicati sul sito.
Personalmente, ho avuto anche la possibilità di partecipare agli ultimi mesi di vita della Bancarella di Frutta & Cultura che si teneva il sabato mattina al mercato di Viale Papiniano, dove studenti e detenuti lavoravano insieme per promuovere le attività e ampliare le reti di conoscenze del gruppo, oltre che per vendere la frutta.
Infine, ho partecipato ai vari eventi organizzati dal gruppo durante il periodo del mio tirocinio, quali:
- Il Concerto della Trsg-Band a Parabiago (24 Giugno)
- L’evento di Pulizia del Parco delle Memorie Industriali di Milano e la messa in scena dello spettacolo “Il mito di Sisifo” (17 e 18 Luglio)
- L’incontro tra Scout e detenuti nella casa di reclusione di Opera (18 Settembre)
Attività concrete/metodi/strumenti adottati
Gli incontri tradizionali del Gruppo della Trasgressione si tengono il Lunedì e il Martedì (14-17). Durante gli incontri vengono trattati diversi temi e ognuno può contribuire alla discussione, arricchendola con le proprie riflessioni. Quando ho iniziato il tirocinio, l’incontro del Lunedì verteva sulla “Banalità del Male”: ogni settimana si sceglieva un film da vedere e durante l’incontro si sviluppavano riflessioni intorno al film scelto. È stato molto arricchente, soprattutto perché sono state analizzate varie strade che portano al “male”: dall’abuso di sostanze stupefacenti alla carenza di affetto da parte dei famigliari, dalla nascita in contesti socioculturali sbagliati alle micro-scelte che portano sulla via della perdizione. Gli incontri del Martedì invece erano focalizzati sul rapporto “Genitori e Figli”: venivano quindi discusse le dinamiche famigliari che portano alla costruzione di rapporti difficili tra genitori e figli, soprattutto quando il genitore è un detenuto e, di conseguenza, è impossibilitato ad esercitare il proprio ruolo di genitore.
Successivamente, con l’attenuarsi della situazione pandemica, mi è stato possibile frequentare anche gli incontri interni alla casa di Reclusione di Opera, sia con i detenuti in alta sicurezza che con i detenuti comuni. Gli incontri interni sono molto simili come “modus operandi” agli incontri esterni: detenuti e tirocinanti si confrontano sui vari temi che tratta il Gruppo della Trasgressione e in questo modo contribuiscono alla crescita reciproca. Il detenuto, che spesso ha il doppio dell’età del tirocinante, condivide pezzi della sua vita ed elabora riflessioni sulle possibili origini della propria devianza e in che modo il percorso fatto all’interno del carcere lo abbia aiutato a prendere coscienza di sé stesso e delle proprie azioni; il tirocinante, d’altra parte, offre un punto di vista giovane, sincero e da esterno ai fatti, cercando di silenziare i pregiudizi e di mettersi in gioco attivamente.
Inoltre, ho partecipato anche al progetto delle “Interviste sulla Creatività”: sono state progettate interviste da rivolgere ad artisti, figure istituzionali e giornalisti, utilizzando la creatività come tema centrale. Lo scopo di questo progetto è duplice: da una parte, si vogliono evidenziare le funzioni che la creatività può avere nella prevenzione della devianza e nelle attività di recupero di un detenuto, dall’altra si cerca di suscitare un maggiore interesse da parte del “pubblico” verso il mondo della devianza anche per fare prevenzione e per poter divulgare ed ampliare le relazioni sociali del gruppo.
Infine, ho avuto la possibilità di partecipare alla stesura di un progetto di prevenzione della devianza nel comune di Rozzano. I membri del gruppo, insieme ad altre associazioni e a figure istituzionali, hanno progettato attività utili a informare i cittadini sulle varie forme di devianza e a comprendere come prevenirla, con particolare riguardo ai più giovani. A questo proposito, è stato organizzato un ciclo di incontri con due scuole superiori che partirà a Novembre e vedrà collaborare studenti, detenuti ed ex-detenuti nel cercare di comprendere le varie definizioni di devianza e, soprattutto, come contrastarle.
Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte
Il professor Angelo Aparo è il fulcro del Gruppo della Trasgressione. È presente ad ogni incontro e sprona continuamente gli studenti tirocinanti a togliersi di dosso fin da subito la definizione di “tirocinanti” e ad essere membri attivi del gruppo, invitandoli a contribuire con riflessioni e scritti personali. Si mette personalmente in contatto con i tirocinanti e chiede aggiornamenti continui sulle attività svolte e sull’andamento dei progetti.
Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)
Trovo estremamente difficile definire e catalogare tutte le conoscenze che ho acquisito durante questo tirocinio. In linea generale, ho compreso l’importanza e le funzionalità di un lavoro di gruppo: le relazioni tra i membri devono essere incentrate sul rispetto, sull’ascolto reciproco e sulla presenza costante, in questo modo si crea un clima positivo e stimolante.
Inoltre, ho compreso come sia necessario utilizzare le proprie energie mentali per costruire, analizzare ed elaborare una linea di pensiero che sia coerente con la persona che si crede di essere. Ho passato molte ore a rielaborare le varie discussioni avvenute durante gli incontri, cercando di analizzarle attraverso diversi punti di vista per arrivare a formulare un mio pensiero personale. Il Gruppo mi ha insegnato che ad analizzare le situazioni mettendosi nei panni dell’altro: questo permette di non cadere nell’errore di cercare verità assolute e consente di elaborare al meglio ogni aspetto di una determinata situazione.
Infine, mi sono avvicinata al mondo carcerario e ho avuto la possibilità di conoscere meglio sia le nozioni prettamente tecniche, sia i percorsi educativi che sono presenti all’interno. Credo che la cosa più significativa che ho imparato sia l’importanza di non parlare del carcere durante gli incontri con i detenuti: in questo modo, loro possono sentirsi liberi anche dentro il carcere; parlare troppo delle ingiustizie subite all’interno, come sostiene il dott. Aparo, rende i detenuti più rabbiosi verso le istituzioni e, spesso, dispensa dall’impegno su riflessioni e strategie volte al miglioramento del sé.
Abilita acquisite (tecniche, operative, trasversali)
In primo luogo, l’esperienza al Gruppo mi ha permesso di sviluppare un ascolto empatico e “puro” dell’altro. La condivisione di storie di vita così diverse dalla mia mi ha aiutato ad abbattere i pregiudizi e a cercare di sviluppare relazioni fondate sul rispetto reciproco. In secondo luogo, partecipare alla stesura dei verbali e alla trascrizione di interviste e testi di detenuti, mi ha consentito di migliorare la mia capacità di scrittura, aiutandomi nella rielaborazione dei contenuti. Infine, mi sono anche avvicinata al mondo organizzativo, imparando come si costruiscono progetti di prevenzione e di miglioramento del benessere.
Caratteristiche personali sviluppate
Questo tirocinio mi ha permesso di crescere professionalmente mostrandomi la psicologa che vorrei diventare, ma soprattutto mi ha aiutato nella crescita personale. Ho imparato che ci vuole del tempo per conoscere le diverse realtà e che non sempre la prima impressione è quella giusta.
Il Gruppo mi ha spinto a prendere conoscenza di me stessa, spronandomi ad uscire dal mio guscio e ad affrontare le mie fragilità senza vergognarmi di essa. Trovo enormemente soddisfacente l’essere riuscita a combattere la mia ritrosia a parlare in pubblico ed essere riuscita ad intervenire senza il bisogno di stimoli esterni.
Il lavoro prodotto dal Gruppo della Trasgressione dimostra come ognuno di noi può e deve avere un ruolo nella società e, di conseguenza, come siamo tutti responsabili nella costruzione di un percorso volto al miglioramento. La società ha il dovere di stimolare chiunque a sentirsi parte di essa, partendo da chi è sul gradino più basso e coinvolgendolo attivamente nello sviluppo di una responsabilità collettiva: solo così saremo in grado di costruire un futuro migliore, per tutti.
Andrea Gianni
Andrea Gianni – Intervista sulla creatività
Andrea Gianni è un giornalista e si occupavdi temi diversificati inerenti alla cronaca giudiziaria, al mondo del lavoro e all’economia. Secondo l’intervistato, nel suo lavoro è fondamentale la capacità creativa, in quanto tutti i giorni deve trovare il modo per scrivere una notizia che altri giornalisti non hanno intercettato o, al contrario, una notizia largamente diffusa che deve essere riportata in maniera originale rispetto ad altre testate giornalistiche. Ogni giorno ha davanti a sé una pagina bianca di giornale da riempire e deve andare alla ricerca di una notizia interessante da raccontare, con l’obiettivo di attirare il lettore con un articolo sensato e non ripetitivo. Secondo Andrea Gianni però, la creatività nel suo lavoro si esprime anche nella capacità di risolvere problemi, come può essere, per esempio, l’andare alla ricerca della fonte più credibile di informazioni su cui poi scrivere la notizia.
Anita: Che cos’è per te la creatività?
Andrea Gianni: Definirei il concetto di creatività riportando ciò che fanno i miei due figli piccoli, uno di due anni e l’altro di sei mesi. I bambini sono pieni di creatività e tutto ciò che fanno è da intendersi come azione creativa. La creatività quindi, secondo me, è un’attitudine con cui si nasce, ma che tuttavia si perde crescendo. Sarebbe utile per ciascuno di noi cercare di prendere parte ad iniziative creative e sviluppare progetti che ci permettano di coltivarla durante l’intero arco della vita.
Elisabetta: Cosa fa scattare, come si sviluppa la creatività e in quali condizioni?
Andrea Gianni: La creatività scatta, in primo luogo, in una situazione di bisogno o in un contesto che in qualche modo riesce a rompere gli schemi della quotidianità. Per esempio, per quanto concerne la mia persona, credo che la creatività scatti dal mio soggettivo bisogno di esprimere qualcosa, attraverso metodi, strumenti e linguaggi che già possiedo, oppure andando alla ricerca di nuove forme di espressione. Anche per quanto riguarda lo sviluppo della creatività penso che esso sia favorito da contesti e situazioni di bisogno. Inoltre, per far sì che la creatività si sviluppi in modo prolifico, non è per forza necessario un ambiente ricco di stimoli. Infatti, una persona si può trovare anche in un ambiente sterile dal punto di vista creativo e proprio questo particolare contesto potrebbe indurla a cercare di renderlo fecondo. Questo diverso approccio all’ambiente circostante dipende dall’atteggiamento soggettivo di ogni singola persona.
Anita: Quali immagini possono ben rappresentare l’atto creativo?
Andrea Gianni: Pensando al mio settore, mi viene in mente l’immagine di un foglio bianco da riempire e credo che la creatività possa essere rappresentata come la capacità di collegare insieme diversi spunti e riflessioni e riuscire a dargli un senso.
Elisabetta: Che conseguenze può avere l’atto creativo nel rapporto con se stessi e con gli altri?
Andrea Gianni: La conseguenza principale di un approccio creativo alla vita è sicuramente un miglioramento della propria autostima e della propria immagine. Questo perché, dopo aver portato a termine un atto creativo, è inevitabile che la persona si senta meglio, in qualche modo più soddisfatta e appagata. Ciò vale sia nel rapporto con se stessi, sia con gli altri e, come se ciò non bastasse, l’azione creativa può portare benefici sia alla persona che la compie, sia all’individuo che la riceve o la osserva.
Se penso al mio lavoro di giornalista è chiaro che ogni atto creativo ha delle conseguenze benefiche per me in quanto, una volta terminato di scrivere il pezzo, mi sento appagato, soddisfatto e capace, ma provoca dei riscontri positivi anche nel caso del lettore, il quale apprende una notizia a lui sconosciuta o, se non altro, scritta in maniera originale e comprensibile. Io penso che la creatività abbia sempre delle conseguenze positive.
Anita: quanto è importante il riconoscimento degli altri per chi realizza un prodotto creativo?
Andrea Gianni: il riconoscimento degli altri è sicuramente molto importante per l’autore. L’atto creativo è difficilmente fine a se stesso ed è sempre rivolto ad una fruizione da parte di qualcuno. Il riconoscimento degli altri ricopre certamente un ruolo considerevole all’interno del processo creativo, da cui le frustrazioni di un artista che non si sente riconosciuto e di uno scrittore che non si sente apprezzato.
Elisabetta: esiste un modo ideale di fruire del prodotto creativo e chi sono i suoi principali destinatari?
Andrea Gianni: mi risulta difficile pensare ad un modo universale di usufruire del prodotto creativo, in quanto dipende dai singoli ambiti. Se penso per esempio al mio campo professionale, credo che il metodo migliore di fruizione di un articolo creativo si riferisca non tanto alle caratteristiche peculiari della persona che lo legge, quanto a quelle dell’ambiente in cui esso viene letto, il quale deve permettere al lettore di mantenere l’attenzione. Sicuramente è meglio leggere un articolo di giornale interessante e creativo in riva al mare, in silenzio e con la possibilità di avere il tempo necessario per riflettere su ciò che si è letto. Oppure seduti ad un tavolo di un bar mentre si beve un caffè, che sicuramente è una modalità di fruizione migliore rispetto a quella che si verifica quando un articolo di giornale viene letto di fretta in metropolitana.
I destinatari sono tutte le persone in generale, il pubblico in toto, in quanto credo che, quando un autore compie un atto creativo, difficilmente lo immagina come rivolto solo ad uno specifico settore del pubblico. Per esempio, quando uno scrittore realizza un libro, la sua ambizione è quella di raggiungere e di comunicare con una fetta della popolazione il più ampia possibile. Deve per forza essere così, altrimenti rimane un gesto creativo e artistico confinato ad una nicchia specifica e all’interno di un percorso già tracciato.
Anita: la creatività ha o può avere una funzione sociale e, se sì, quale?
Andrea Gianni: sì, sicuramente ha una funzione sociale. Tanto per citarne alcuni, molto importanti sono i progetti con i disabili o con gli alunni all’interno delle scuole. In questi contesti è facile trovare numerosi progetti e attività che si pongono come obiettivo quello di sviluppare la creatività fin dai primi mesi di vita.
La creatività ricopre una funzione sociale importantissima, in quanto senza di essa saremmo dei robot che si limitano a lavorare, mangiare e dormire. Inoltre, ha una funzione sociale utile non solo per gli utenti che fanno parte categorie svantaggiate ma, al contrario, per tutti i cittadini.
Elisabetta: Parliamo dell’atto creativo nelle diverse età. Cos’è per il bambino, per l’adolescente, per la persona adulta?
Andrea Gianni: Secondo me, per il bambino tutto è creativo: se penso alla mia esperienza pratica con i bambini, il fatto di riuscire a gattonare o di riuscire a superare un ostacolo per arrivare ad un giocattolo è tutto un atto creativo perché rappresenta un modo di risolvere i problemi nella maniera più efficace possibile. L’adolescente invece si trova in una fase di mezzo tra la perdita della creatività “pura” del bambino e il bisogno di ricercare una creatività che possa poi accompagnarlo nell’età adulta. Io credo che per la persona adulta sia più difficile sviluppare la creatività perché non si hanno strutture intorno che aiutino a incentivare la propria creatività e si è lasciati un po’ a sé stessi.
Anita: E in che modo può incidere nelle relazioni sociali del soggetto?
Andrea Gianni: Secondo me, l’incidenza della creatività nelle relazioni sociali è molto importante. L’atto creativo è sempre rivolto all’altro, quindi è parte fondamentale della costruzione della percezione che gli altri hanno di te. Inoltre, è sicuramente un modo per mettersi in comunicazione con gli altri, trasmettendo le proprie emozioni e sentimenti. Per esempio, la stesura di un articolo di giornale ha sempre lo scopo di trasmettere al lettore determinate sensazioni e vi è un lavoro creativo nella ricerca delle parole o della sintassi da utilizzare.
Elisabetta: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?
Andrea Gianni: Io credo che possa essere entrambe le cose: per un artista è un dono innato, che lo spinge durante lo sviluppo della propria arte; tuttavia, credo che chiunque possa svilupparla e coltivarla.
Anita: A scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?
Andrea Gianni: Sicuramente degli effetti positivi: è importantissimo secondo me iniziare a sviluppare la creatività da bambini; quindi, la scuola dovrebbe dare a tutti la possibilità di avere spazi comuni e ore dedicate allo sviluppo di essa.
Elisabetta: Pensi che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?
Andrea Gianni: Si, avendo la creatività un effetto sempre positivo, può essere utilizzata nelle attività di recupero sia all’interno che all’esterno del carcere. Credo che sia soprattutto un modo per educare alla creatività persone che magari non hanno mai avuto la possibilità di interrogarsi su di essa e quindi di scoprirne il potenziale.
Intervista ed elaborazione di
Anita Saccani ed Elisabetta Vanzini
Margherita Lazzati
Margherita Lazzati – Intervista sulla creatività
Margherita Lazzati è una fotografa, nonché volontaria in carcere da circa dieci anni. Racconta che ha sempre fotografato, malgrado non abbia mai fatto un corso di fotografia a causa della sua dislessia, scoperta durante gli anni del liceo; per lei un manuale è sempre stato qualcosa di inaccessibile rispetto alla realtà e all’utilizzo della macchina fotografica.
Nel 2009 un giornalista e critico d’arte ha visto i suoi scatti e le ha suggerito di pubblicarli. Con l’insosituibile lavoro di raccolta di scatti, di selezione e progettazione da parte degli amici della “Galleria l’Affiche” di Milano, è stato possibile realizzare esposizioni collettive e personali. Quindi ha iniziato a fare una serie di mostre a tema creativo. In occasione dell’Expo le è stato chiesto di fare una serie di scatti sugli homeless di Milano: una ricerca fotografica di visibili, le architetture nuove per l’Expo, e gli invisibili che vivevano le strade sotto queste architetture. In seguito a questa mostra Margherita Lazzati è stata contattata dal direttore della Sacra Famiglia di Cesano Boscone che desiderava effettuare un servizio fotografico sulle persone gravemente disabili, in occasione dei 120 anni dell’Istituto. Per sei mesi ha fotografato luoghi e volti di queste persone e ne sono nate due mostre. La prima dal titolo “Sguardi”, esposta nella Fondazione Ambrosianeum, la seconda dal titolo “Un paese aperto”, esposta in via Dante e in piazza a Cesano Boscone.
Dal 2011 Margherita Lazzati ha iniziato il suo lavoro di fotografa in carcere diventando volontaria nel laboratorio di lettura e scrittura creativa del carcere di Opera. Nel 2015 ha chiesto al direttore del carcere Giacinto Siciliano il permesso di fotografare quello che avveniva all’interno del laboratorio: il tavolo intorno al quale ci si trovava e i volti delle persone. Il progetto è talmente piaciuto al direttore che ne è nata una mostra: “Ritratti in carcere”. La sfida era riconoscere chi fosse il volontario e chi la persona detenuta. Il lavoro è stato presentato al MIA ed è stata installata una mostra nella casa di Rigoletto durante il Festival della poesia di Mantova.
In seguito, il direttore Siciliano ha chiesto a Margherita Lazzati di fotografare tutto il carcere di Opera e lei ha trascorso più di sei mesi a fare scatti nel carcere di settimana in settimana. Quando il dottor Siciliano è diventato direttore della casa circondariale di San Vittore Margherita ha iniziato qui un nuovo progetto di viaggio fotografico durato altri sei mesi, durante i quali ha conosciuto Carla Chiappini e Laura Gaggini, le quali avevano presentato un progetto di biografie delle persone che vivono in carcere: i detenuti e gli agenti penitenziari, ma anche una moltitudine di persone che gravitano nella casa circondariale per i motivi più disparati: lavoro, volontariato, missione. Con l’approvazione del dottor Siciliano, Margherita Lazzati ha usato parte delle fotografie raccolte durante il viaggio fotografico a San Vittore per questo progetto, ma con una determinazione assoluta nel non voler mostrare le persone. Infatti, desiderava che le persone emergessero dalle biografie raccolte e chi vedeva la mostra chiamata “San Vittore, quartiere della città”, vedesse i luoghi dove queste persone vivono, lavorano, operano. L’immagine dei luoghi che Margherita ritrae non vogliono essere né un racconto retorico del carcere né una denuncia, ma semplicemente una raccolta di immagini lungo un viaggio.
Michela: Che cos’è per lei la creatività?
Margherita Lazzati: per me la creatività è un capitale di magia. Io credo che sia qualcosa iscritto nel DNA e solo in un secondo momento questa capacità può trovare il modo di esprimersi.
Asia: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?
Margherita Lazzati: innanzitutto trovare il linguaggio per esprimere questa creatività, che io considero un atteggiamento, uno sguardo sulle cose, sulla vita e su ciò che accade, compreso il modo di porgersi nei confronti delle persone, il vestirsi, il cucinare, la scelta dei colori, delle letture. È tutto un atteggiamento creativo.
Michela: Cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?
Margherita Lazzati: la mia creatività credo che nasca da una difficoltà, cioè dalla mia dislessia. Ai miei tempi non si sapeva assolutamente di che cosa si parlasse. Mi ricordo di essere stata considerata una pessima scolara, quando invece ci mettevo tutta la mia volontà possibile.
Durante le lezioni di matematica guardavo le cartine geografiche che erano dietro la cattedra e viaggiavo guardando queste mappe, per cui non imparavo i numeri.
Un’altra grande difficoltà era la scrittura: mi chiamo Margherita e nel mi nome c’è la H che non sapevo mai dove mettere. Per me la scrittura era un disegno e cercavo di ricordare la composizione delle lettere per scriverle. Quindi per me la creatività è riuscire a fare uno slalom nelle tue difficoltà.
Asia: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e il suo stato d’animo la produzione creativa?
Margherita Lazzati: se per produzione creativa parliamo solo della fotografia, questa è una cosa che mi piace da pazzi. La fotografia è il mio modo di raccontare, che sia per le strade di Milano o stando coi miei nipoti o in carcere o in un viaggio, la fotografia è il mio linguaggio di espressione silenzioso. Questo linguaggio ha un impatto molto positivo sulle mie emozioni.
Michela: Nel rapporto con gli altri il suo atto creativo cosa determina? Per esempio, nel lavoro in carcere con i detenuti, la sua creatività cosa determina con gli altri?
Margherita Lazzati: in carcere è una cosa bellissima, è successo qualcosa di veramente sorprendente quando mi hanno visto arrivare in laboratorio con la macchina fotografica. C’è stata un’accoglienza molto fiduciosa: io non avrei mai usato le fotografie che scattavo se non per mostrare una realtà nella quale anche io ero immersa alla pari. Loro donano le proprie composizioni poetiche e io ricambio con i miei scatti. La cosa sorprendente è quella del lavoro con i ritratti perché la maggior parte delle persone non si è riconosciuta perché non è abituata a vedersi allo specchio. Tutti, compresi i più giovani, vedendo il proprio ritratto si sono visti vecchi o si immaginavano diversi in quanto la loro immagine interiore corrispondeva a vent’anni prima. È stato un lavoro che mi ha fatto molto riflettere. Alcune persone invece si sono talmente riconosciute da mandare felici il proprio ritratto a casa come se fosse un trofeo.
Asia: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso o dell’autore in genere?
Margherita Lazzati: io lo considero il mio modo di esprimermi. L’unico social che uso è Instagram, ma non sono solita inserire commenti: inserisco il luogo e poi sottopongo il lavoro allo sguardo degli altri.
Michela: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?
Margherita Lazzati: diciamo che fino al 2009 erano le persone alle quali regalavo le fotografie che sceglievo come dono… possiamo chiamarle cartoline di viaggio o ritratti. Questo instaurava un rapporto privato tra me e chi riceveva questi doni. Ho una raccolta di album tematici con foto stampate… poi dal 2009 ci sono le mostre. Mi stupisco sempre molto dell’accoglienza che ricevono i progetti nel pubblico e anche in alcuni giornalisti sensibili.
Asia: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?
Margherita Lazzati: non saprei. Credo che centri in un qualche modo nello star bene con sé stessi. C’è chi scrive un diario, c’è chi raccoglie immagini, io raccolgo immagini.
Asia: Siccome ha parlato dell’importanza di raccogliere immagini, quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?
Margherita Lazzati: non ce n’è solo una. Posso dire che io lavoro con una macchina fotografica semplice, una Leica, in modo quasi automatico e uso tantissimo il telefonino. Questi due mezzi sono molto diversi nella raccolta delle immagini. Oltre al fatto che in carcere non si possa portare il telefonino, capisco che la raccolta di foto da me scattate con la Leica richieda un’elaborazione, una archiviazione complessa. Invece la raccolta di immagini per mezzo del telefonino è come un “prendere appunti” sulla vita. Alla fine della giornata seleziono sempre la mia scelta ma vedo, per esempio, i miei nipoti prendono spesso in mano il mio telefonino e guardano le foto che scatto loro…quasi come se le foto che scattassi raccontassero dei momenti di vita insieme. Per me è il modo di rivedere una giornata.
Asia: Quindi, se dovesse paragonare l’atto creativo a una fotografia, a un’immagine o a un dipinto, quale potrebbe rappresentarlo al meglio?
Margherita Lazzati: per me è una fotografia. Rubo una frase del grandissimo Giovanni Gastel, il quale diceva “la più bella fotografia è quella che non ho ancora scattato”.
Michela: Pensa esista una relazione tra depressione e creatività?
Margherita Lazzati: su questa domanda ho riflettuto parecchio. Secondo me dipende dal tipo di espressione artistica. Io se ho delle preoccupazioni o dei pensieri importanti, non vedo e non fotografo. Lo sguardo è come rivolto a me stessa e al mio vissuto. Io fotografo nel momento in cui sto bene, in cui mi accorgo del sole. Credo che, invece, un poeta abbia molta più confidenza con l’espressione della propria depressione rispetto all’emozione di un atto felice che forse considera più banale.
Asia: Quando un prodotto creativo è per lei davvero concluso?
Margherita Lazzati: io credo mai. Anche quando si progetta una mostra, è sempre tutto un divenire, non si riesce mai veramente a mettere un punto e dire “non potrebbe esserci altro”.
Michela: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?
Margherita Lazzati: sì, è importantissimo. La scuola difficilmente aiuta questa sensibilità o fa crescere questo capitale di magia. Per lo meno, questo avviene fino alle scuole materne, dopo è l’apprendimento ciò che prevale e non si cerca di capire se la difficoltà nell’apprendimento può essere invece espressione di creatività. Io sono molto preoccupata di questo…concedere ai bambini o ragazzi più grandi di creare o produrre qualche cosa di diverso dall’apprendimento stesso, è un dono di pochi insegnanti.
Asia: Quindi, collegandoci anche a questa domanda, la creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata in qualche modo?
Margherita Lazzati: entrambe le cose. Ci sono persone che hanno nel proprio DNA qualche capitale di magia in più, ma in tutti va educato il senso creativo del vivere. E, soprattutto nelle persone che possiedono questo capitale di magia, va sostenuto, va fatto crescere e va riconosciuto.
Michela: Già in precedenza abbiamo parlato del ruolo della scuola nello sviluppo della creatività e dell’importanza della stessa per il condannato. Vorrei chiederle se, secondo lei, lo sviluppo della creatività potrebbe essere gestito in modo migliore sia all’interno delle scuole che nelle carceri?
Margherita Lazzati: sicuramente, in entrambi i casi, ma è qualcosa che dipende molto dagli incontri. É chiaro che se una persona detenuta dovesse incontrare la poetessa Silvana Ceruti, il poeta e giornalista Alberto Figliolia o il Professor Aparo, avrebbe un’occasione di espressione e di scoperta delle proprie doti creative al di là del crimine commesso, a differenza di chi, non avendo il dono di questi incontri, rimane recluso nella propria condanna. Lo stesso discorso vale per la scuola. Dalle elementari fino all’università, la fortuna di incontrare un buon insegnante a tutto campo che, oltre all’apprendimento riconosca nello studente qualche cosa su cui puntare e su cui far crescere l’interesse per lo studio, è quanto di più importante si possa fare. Io penso che questa scuola “a crocette”, di risposte a test, sia un massacro dell’educazione.
Intervista ed elaborazione di
Asia Olivo e Federica Turolla
La differenza tra me e loro
C’è una vecchietta seduta davanti a me. È molto minuta e sembra quasi scomparire dentro la sedia gialla delle metro milanesi. Osservandola attentamente, però, è facile notare come la sua fragilità sia solo un’apparenza: il piede della gamba destra continua a fare avanti e indietro, ad un ritmo regolare e veloce, che ad osservarlo a lungo si rimane quasi ipnotizzati, e dietro i piccoli occhiali viola, due grandi occhioni vispi e allegri osservano il mondo intorno.
Il suo sguardo interrogativo e vivace si posa su ogni persona e cosa e, a un certo punto, arriva anche il mio turno diventando così un altro oggetto della sua curiosità. A mia volta la osservo, di sottecchi però, con fare intimidito, cercando di non farmi notare, ma mi ci vuole poco per capire che, anche se la guardassi dritta negli occhi, lei non se ne accorgerebbe, tanto è l’interesse con cui analizza ogni centimetro della copertina del libro che sto leggendo.
Di lì a pochi istanti, mi rivelerà che non è stato tanto il titolo ad attirarla, “Di cuore e di coraggio”, quanto l’associazione insolita tra questo titolo, il quale le ricordava i romanzi rosa che amava leggere da ragazzina, con l’immagine di una stereotipata uniforme arancione da detenuto, tuttavia vuota, senza un corpo che la riempia, e dalla quale si libra uno stormo di uccelli bianchi che attraversano gli interstizi tra le sbarre di una prigione.
“No, non è un romanzo” le rispondo facendo viaggiare a cento all’ora la sua curiosità. “È il racconto di un direttore di carcere e della sua esperienza decennale all’interno di numerosi istituti di pena italiani”.
E via subito che inizia ad incalzarmi ed interrogarmi: perché una ragazza giovane come me dovrebbe interessarsi di argomenti così complessi e ispidi? Perché mai una studentessa ventitreenne dovrebbe aver voglia di frequentare degli uomini che sono reclusi da anni a causa di condanne e sentenze gravose, come ad esempio spaccio, rapina, associazione mafiosa e omicidio? Quale può essere il giovamento di una ragazza derivante dall’incontro con delle persone, in definita, tanto diverse da lei?
E io inizio a chiedermi: ma io e “loro” siamo davvero così tanto diversi?
Durante la mia preadolescenza sono stata protagonista di un evento molto doloroso, il quale mi ha catapultato, senza tanti preamboli, nel mondo dei grandi e mi ha costretta a confrontarmi faccia a faccia con la Giustizia. Sono rimasta segnata profondamente da questo episodio e, durante tutti gli anni successivi fino ad oggi, ho dovuto imparare a combattere contro il retro pensiero immobilizzante che fossi una persona cattiva, maligna, sbagliata e inadeguata.
Tuttavia, più che l’evento tragico in sé, sono state le conseguenze ad essere ancora più distruttive. Le prese in giro dei compagni, l’isolamento sociale perpetrato dagli altri come se fosse una punizione della comunità allargata per ciò che (non) avevo commesso, il continuo giudizio, i pettegolezzi di paese, le dispute tra gli avvocati e la sofferenza dei miei genitori (a nulla erano valsi i loro immensi sforzi per difendere la propria figlia), hanno reso il mio terreno sempre più fertile per la rabbia e l’odio.
Percepivo continuamente una spada di Damocle al di sopra della mia testa, pronta ad infliggermi una punizione da un momento all’altro, e la cosa peggiore era che, in fondo, sentivo di meritare il castigo che di lì a poco sarebbe sicuramente arrivato. Dopo due anni di costante pressione e sofferenza psicologica mi sono convinta che, per essere accettata e lasciata in pace, avrei dovuto incarnare l’immagine della cattiva ragazza che gli altri mi avevano cucito addosso. Ho cominciato così ad uscire con una compagnia di “amici” molto più grandi di me, che non frequentavano mai la scuola ed erano impegnati in attività al limite del lecito.
Oggi mi rendo conto che cercavo di soffocare il dolore di non essere creduta e accettata, anche se vi sommavo altro dolore imponendomi di essere chi non ero, auto-punendomi, come se spargessi il sale su ferite già aperte. Tuttavia, l’enorme sofferenza che provavo reclamava una via d’uscita, e quindi mi ferivo per punirmi e sostituire il dolore fisico al dolore psicologico.
Intorno ai 15 anni, la trama della mia vita ha subito una brusca inversione. Mi sono iscritta in un liceo, pur se a scuola non studiavo mai. Ho cominciato a coltivare nuove amicizie, pur se non mi fidavo di nessuno. Ho incontrato dei professori che mi hanno fatto capire l’importanza di avere una guida credibile e autorevole, pur se fino a quel momento avevo odiato e avevo avuto paura di tutto ciò che rappresentava l’autorità e le istituzioni.
Oggi sono passati un po’ di anni, mi sono laureata con il massimo dei voti, ho al mio fianco una persona fantastica e degli amici che considero la mia famiglia, non di sangue ma per scelta, i quali spesso mi hanno letteralmente salvata nei miei momenti bui.
Ma se non avessi avuto la possibilità di andare in un’altra città a studiare in una scuola attenta al rispetto delle regole? E se non avessi incontrato professori capaci di non farmi più sentire sbagliata, malata, incapace di raggiungere qualsiasi obiettivo e se non mi avessero insegnato ad apprezzare valori importanti come la disciplina, il rispetto e la perseveranza? Se non avessi trovato un gruppo di amici capaci di farmi sentire parte di qualcosa, quando mi credevo non meritevole delle relazioni e del riconoscimento altrui?
Da piccola avevo una sorella gemella. Qualche mese prima che mia mamma portasse a termine la gravidanza, l’Altra Me non ce l’ha fatta e sono nata solo io. Spesso faccio questo gioco nella mia mente, in cui mi immagino che lei si trovi in un universo parallelo e che sia la me che non ha compiuto quella grande inversione a U a 15 anni. La immagino prima come un’adolescente allo sbando, lasciata a se stessa e provata dalla mancanza di guide che la riportino sulla strada giusta, e poi come una tossicodipendente fallita o una delinquente.
È un po’ come il film Sliding doors, non so se ce lo avete presente. È quello in cui, in base alla porta del treno su cui sale il protagonista, il corso della sua vita cambia completamente. Forse è proprio per questo che la voce della signora della sedia gialla ha continuato a domandarmi per giorni quale fosse la differenza tra me e “loro”. Forse si tratta solo di condizioni di vita diverse in cui si cresce, di possibilità fortunate di redimersi e di salvifici incontri con guide credibili che riconducano sulla strada giusta.
Quindi innanzitutto cancellerei la parola “loro”, riferita a questi fantomatici esseri mitologici senza cuore che sono approdati in carcere perché hanno solo saputo fare del potere, del denaro e dell’arroganza gli unici binari della propria vita. La differenza tra NOI esseri umani sta spesso nelle condizioni soggettive e oggettive, ambientali e contestuali, materiali ed emotive a cui siamo sottoposti, le quali influenzano fortemente il percorso di vita verso una direzione piuttosto che un’altra.
Ora che si è detto ciò, potremmo anche concludere che sembra quasi che si tratti, in buona parte, di una questione di fortuna, quella di nascere in condizioni favorevoli al proprio sviluppo. E se accettassimo tale conclusione, non verrebbe facile pensare che noi cittadini civili non possiamo fare niente per prevenire e combattere la devianza?
Tuttavia c’è qualcosa che possiamo fare. Dobbiamo prendere una decisione: o subiamo passivamente ciò che accade all’interno di una società che ci vuole spaventati da tutto ciò che non conosciamo per tenerci lontani e per percepire gli “altri” come diversi, oppure diventiamo partecipanti attivi della nostra società ed esercitiamo il potere di cambiare il mondo e rivoluzionare il pensiero. Badate bene a quale strada scegliete perché, nel caso optaste per la seconda opzione, allora dovrete cominciare ad impregnarvi oggi stesso, seduta stante, a rivoluzionare il vostro pensiero e, di conseguenza, la società stessa.
La cosa più semplice da fare sarebbe quella di impegnarsi affinché quanto più cittadini possibile inizino a portare la società civile all’interno del carcere, contaminandolo come un morbo benefico. È bene che sempre più persone entrino come volontari negli istituti di pena e ascoltino le storie di quei “loro” tenuti tanto lontani da noi da sembrare alieni.
Non abbiate paura del dolore altrui e del male perché soltanto conoscendo e studiando il male, lo si può affrontare con le armi giuste per poi riuscire addirittura a prevenirlo. Studiamo le condizioni che conducono alla devianza non usando come cavie gli ex criminali, ma servendoci del loro aiuto di neonati cittadini responsabili per salvare chi oggi ha bisogno di un salvagente per ritornare sulla terraferma.
Il tempo per diventare una società responsabile è arrivato, ed è oggi.