Gabbie personali

Vivo da una vita
In una gabbia
Fatta di rabbia
Che mi annebbia
Come sabbia

Negli occhi miei.
Il dolore mi assale,
il dolore non è mai banale
è qualcosa che mi suscita
una furia animale.

Ma nessuno mi sente
E nessuno mi vede
E allora mordo, delinquo
E dunque sono.

Ma ora, ora che ho perso,
Rimango solo a parlare con me stesso.
Finalmente me lo sarei concesso.

Ma qui in carcere mi sento oppresso,
Per farmi stare quieto
mi danno tranquillanti,
Ma ho capito che è il Progetto
l’unica terapia di successo

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

La vita è un’altalena

La vita è un’altalena
Che mi culla,
che mi aliena,
aiuto, frena!

Questa maschera che indosso
mi incatena!
È tutta una messinscena
per nascondere la mia vera pena
di sentirmi da sempre inadeguato,
non stimato,
non amato.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Due fratelli

Penso alla domanda posta da Aparo giovedì scorso al reparto La Chiamata: Quando qualcuno si interessa del detenuto, sta tradendo i famigliari della vittima? La cura nei confronti di chi ha abusato sminuisce o tradisce la cura verso vittima o i suoi famigliari?

Personalmente, ad oggi rispondo: assolutamente NO!

Mi rendo conto che è frutto di un cammino di conoscenza di me e di vita giocata grazie alle provocazioni, sfide, contrasti, reazioni -espresse bene o male, non importa- di tanti ragazzi che mi hanno indotto (e mi inducono tutt’ora) a scavare dentro me stessa per trovare risposte che non siano ‘frasi fatte’, frasi scontate, ma la verità di me.

Mi fa riflettere sulla mia vita: Non ho passato una bella infanzia e adolescenza tranne che a scuola o con gli amici fuori casa. Sono nata rifiutata e non potevo capire -come tutti i bambini- i problemi degli adulti (i miei genitori). Incassavo e cercavo di proteggere la mia sorella gemella e un’altra sorella, ero molto molto timida e certamente insicura. Nella pre-adolescenza e adolescenza mi sentivo e credevo ‘un nulla’. Ci facevamo forza -come non so- io e la mia sorella gemella.

A 21 anni ho iniziato il cammino per diventare suora, Qualcuno inaspettatamente mi ha scelta: un nulla graziato.

A 34 (2001) anni ho perso mia sorella gemella, sposata da 5 anni, con tre figli piccolissimi (un mese e mezzo; due anni e mezzo e tre anni e mezzo) per un Tir pirata che le ha stretto la strada a senso unico e l’ha trascinata.

Ha salvato i tre figlioletti che erano in macchina e ha lottato tra la morte e la vita senza farcela. I becchini quando sono venuti ad aprire la camera mortuaria, trovandomi dentro da sola con lei, mi hanno detto: ma quell’autista del Tir riuscirà a dormire sapendo della morte prematura di una mamma che ha lasciato tre figli e il marito?

E io risposi loro spontaneamente: quell’uomo chissà quali problemi aveva per non essere lucido nella guida, avrà la sua responsabilità ma ne rimarrà segnato per tutta la vita, purtroppo. Invece il questore che, oltre ai 17 giorni di indagini, ha voluto attendere troppi giorni dopo la morte con la scusa di cercare ‘il colpevole’ che non ha mai cercato… lo sarà forse meno (la corruzione, abbiamo saputo poi, aveva avuto il sopravvento).

Ne ho viste e sentite tante sulla mia pelle e ho imparato tanto a forza di sbattere ‘la testa contro il muro’ e -come già accennavo- ho imparato a farmi domande e a cercare il confronto anche attraverso un percorso di conoscenza intrapreso a 24 anni. Questo mi ha aiutato a mettere in campo risorse che non sapevo di avere e ad acquisire qualche strumento per rileggermi … un percorso bellissimo! Mi ha dato le basi per la scelta di vita sempre in movimento e per continuare a camminare dentro gli eventi e le situazioni in divenire e non prive di tempeste.

Dal 2010 frequento il carcere e da suora sono stata a tempo pieno in periferie di Pavia, Roma e Milano, e questa palestra di umanità ha trasformato il mio sguardo, che ha iniziato a vedere prima di tutto e sopra tutto la persona, l’uomo che mi sta davanti sia nell’autore del reato, sia in chi lo subisce; anche perché queste due dimensioni sono presenti anche dentro di me: grano e zizzania.

Ho imparato a ri-conoscere i mostri e le miserie che sono in me assieme ai doni e a ri-conoscere quanto sia difficile metterli in dialogo perché dentro di me non facciano a pugni, ma possa prevalere la risorsa sul danno.

Per me è importante chiedermi quanto e come io sono capace -per es.- di riparare e ricucire una relazione fallita o rifiutata da me, come posso tenere ‘in equilibrio’ dei macigni ereditati o causati dalla mia storia personale assieme alle risorse e ai cambiamenti maturati in bene? Rimangono la lotta e l’impegno per farli interagire perché diventino ‘amici’. Impossibile? NO, frutto di un cammino che non finisce mai!

Se ogni persona è prima di tutto persona, conta la cura della vittima o dei familiari della vittima di reato tanto quanto la cura di chi lo ha commesso perché solo così si toglie potere al male che in ciascuno di noi abita assieme al bene.

Se non sono nessuno per ‘togliere’ la vita o anche solo la dignità ad una persona, sono forse qualcuno per toglierla a me stesso?

Più rivedo e riconosco le tempeste passate e presenti dentro di me assieme alla cura immeritata, gratuita, ricevuta e più credo che sia possibile, anzi necessaria, una cura per ogni persona sempre e comunque!

Inoltre penso ai due fratelli della parabola del Padre Misericordioso e proprio lì trovo la bellezza della giustizia riparativa che i due fratelli dovrebbero mettere in atto tra loro, uno apparentemente bravo e l’altro dissoluto, ma entrambi persi.

È il Padre che mette in atto e inizia la riparazione, aspettando a braccia aperte il figlio scappato di casa e facendo festa con lui, ma anche uscendo a supplicare l’altro che, sentendosi a posto, non vuole partecipare alla festa del fratello che non considera più tale e che definisce ‘tuo figlio’ rivolgendosi al Padre.

Questo mi dice che le nostre forze umane, se isolate, faticano tanto, ma Qualcuno non si stanca mai di raggiungerci perché guarda al cuore di ciascuno di noi -persi e ritrovati anche quando non lo riconosciamo- e non vuole che nessuno si perda. Da Padre, ci vuole figli e fratelli sempre!

Suor Anna Donelli

Reparto LA CHIAMATA – Incontri con i familiari delle vittime

L’inverno dentro

Un uomo che partecipa alla storia dei suoi figli con una passione che è tanto rispettosa, quanto autentica e profonda, è un Padre che rende liberi e vuole far partecipare tutti della festa” [Carlo Maria Martini, Ritorno al Padre di tutti – lettera pastorale 1998/99]

L’esercizio di lettura di uno tra i più noti quadri di Rembrandt è stata una delle mie prime affascinanti esperienze  durante la ventennale frequentazione del Gruppo della Trasgressione.

Ma, ai tempi, avevo di esso una sola visione “bidimensionale”: in quel dipinto mi ci vedevo dentro solo come figlio, non essendo ancora nato come padre.

Questa mattina invece – mentre ero seduto accanto a mio figlio – ho ascoltato una straordinaria rilettura domenicale della parabola del figliol prodigo, tale da motivarmi a uno sguardo “tridimensionale” sulle dinamiche tra i diversi interpreti della relazione. Complice di tale rilettura quanto avvenuto giovedì scorso a San Vittore quando il dott. Angelo Aparo ha iniziato i lavori al Reparto La Chiamata rendendo pubblici i miei commenti a caldo via WhatsApp relativamente ad una sua  “relazione” su un componente del Gruppo:

Una “relazione scritta”, in qualità di psicoterapeuta e coordinatore del Gruppo della Trasgressione, sicuramente importante (in una prima prospettiva soggettiva che però qui non è interesse né intenzione mia approfondire, essendoci peraltro un processo per omicidio in corso) non fosse altro perché diretta – nelle intenzioni di chi gliela aveva richiesta – ad un Giudice della Repubblica italiana.

Una relazione scritta  importante (anche in una prospettiva collettiva, sulla quale vorrei invece ancora soffermarmi) in quanto avente lo guardo diretto ad una persona che ha ucciso un’altra persona. Uno sguardo che io avvertivo essere non tanto quello dello psicoterapeuta quanto quello di un padre innamorato di uno dei (tanti) figli per i quali la vita gli ha richiesto di occuparsi.

E, nonostante tale innamoramento o forse proprio in virtù di tale innamoramento, una relazione scritta piena non solo di affermazioni certe ma anche di domande di senso, ugualmente importanti. Alle quali, dopo averci meditato per una buona ora, mi permettevo di aggiungere anche una mia.

Nel ricordare a tutti i presenti questo nostro scambio – tanto rapido quanto intenso – avvenuto il giorno prima, il nostro coach Juri chiudeva il suo intervento, al solito volutamente graffiante, con parole che più o meno suonavano così: “se io mi dedico a lui, questo equivale a trascurare la vittima?  Se cerco tra le sue dinamiche, le sue pene e i suoi conflitti, questo significa mettere in secondo piano la pena per la vittima? Il dolore, i sentimenti dei familiari della vittima? ”.

Che è poi – a ben vedere – il dilemma esistenziale in relazione al quale la parabola del figliol prodigo ci invita a riflettere come padri, prima che come cristiani. Da una parte il figlio più giovane che ha arrecato il danno e chiede di essere ritenuto nuovamente degno di ritornare a casa. Dall’altra il figlio meno giovane, che ha subito anche lui l’offesa dell’abbandono e che ancora ne risente gli echi lontani, mai del tutto riparati.

Ecco, pensando in Chiesa stamattina per un lunghissimo secondo a tutte queste cose, immaginavo come sarebbe stato bello avere ancora qui a Milano Carlo Maria Martini. Per chiedere, come ultima pecorella del suo gregge, alcuni minuti della sua infinita saggezza nel sottoporgli, in Arcivescovado, un quesito oggi sempre di più stretta attualità: è possibile – come io ritengo – “tenere insieme” il sostegno al carcere duro ex art. 41-bis e contemporaneamente praticare la speranza dei percorsi di giustizia riparativa nell’incontro tra reo-un-tempo-mafioso e vittima? Oppure l’una idea è ontologicamente incompatibile con l’altro agire?

Chissà se, anche semplicemente rileggendo alcune sue parole, ci arriverà mai una risposta sul punto o quantomeno un segno da lui inviato, prima che questa primavera abbia inizio …

Reparto LA CHIAMATA – Incontri con i familiari delle vittime

No, non c’è tradimento!

San Vittore 16/02/2023

Ascolto con attenzione i contributi dell’eterogeneo gruppo che si riunisce tutti i giovedì al nascente reparto LA CHIAMATA e constato che tutte le idee vengono scambiate, confrontate, criticate, tanto che io dubito spesso anche delle mie.

Tuttavia, quando il prof. Aparo ha aperto l’incontro di giovedì scorso a San Vittore, chiedendo ai presenti se chi s’interessa del benessere della persona condannata stia tradendo i famigliari della vittima o se occuparsi della sofferenza di chi ha commesso un omicidio equivalga a ignorare la disperazione della figlia e della moglie della vittima, ho sentito dentro di me una risposta certa: “No, non c’è alcun tradimento!

Anche se l’argomento è complesso e doloroso, non posso rinunciare a tentare di capire la relazione lega l’uomo al criminale, non posso credere che sto trascurando la vittima quando cerco di scoprire dov’è andata l’umanità di chi è stato carnefice.

Mi avvicino alla persona detenuta, sentendo la necessità di rintracciare quali siano i fattori che hanno contribuito a farlo scivolare verso l’assenza da se stesso. E mi preoccupa che siamo in pochi a volerlo fare, a voler capire cosa succede all’uomo. Sento nei racconti dei detenuti la mancanza di qualcosa di cui, invece, mi sembra che noi tutti abbiamo bisogno. E al gruppo si cerca di continuo cos’è: qualcosa che prima c’era? Che non c’è mai stato?

Pur considerando che la figura dei genitori ha un ruolo centrale nella costruzione della personalità dell’adolescente, mi chiedo come abbiano fatto molti giovani a sopravvivere a infanzie infelici con genitori disattenti o assenti e a contesti degradanti, senza per questo autorizzare se stessi all’abuso, senza ricorrere a “soluzioni” devianti.

Comprendere perché alcune persone soccombono e altre sopravvivono in ambienti in cui si vivono le stesse difficoltà, rappresenta un terreno di studio molto interessante per noi componenti del Gruppo della Trasgressione. La direzione che il degrado ambientale e le difficoltà familiari imprimono ai sentimenti e alle scelte dell’individuo non è automatica! Diversamente, come si spiegherebbe che nello stesso nucleo famigliare un figlio prende la strada della devianza e l’atro no?

Mi sembra quindi importante cercare di approfondire cosa sente il giovane deviante, osservare il modo in cui egli reagisce alla frustrazione, quale lettura egli dà degli eventi e delle relazioni che vive, quale impasto si produce nella sua affettività, tale da portarlo al reato.

Quanto più ragiono su questi aspetti, tanto più mi rendo conto degli effetti terapeutici del Gruppo della Trasgressione sulle persone che lo frequentano e del metodo con cui viene perseguito l’obiettivo del reinserimento sociale della persona detenuta. Per questo mi sembra indispensabile sgrovigliare i nodi che compongono i bisogni psicologici dell’autore di reato e ottenere informazioni utili a impostare progetti e operazioni d’intervento.

L’avvicinamento a chi ha operato l’offesa e la sua responsabilizzazione in progetti collettivi sono certamente gli strumenti migliori per contrastare il ripetersi dell’abuso: “Capire cosa induce alla condotta antisociale non è un tradimento nei confronti della vittima, è piuttosto una ricerca di quell’umanità che era stata progressivamente defenestrata lungo il complesso percorso che ha portato all’episodio criminoso” (Aparo, San Vittore, 16/02/2023).

Lara Giovanelli

Reparto LA CHIAMATAIncontri con i familiari delle vittime

Non dovevo confrontarmi con nessuno

Sono nato a Vimercate il 23 ottobre del 2000, ultimo di tre fratelli: una sorella e un fratello più grandi. Da come mi ha raccontato mia mamma, ci siamo trasferiti subito da Vimercate in Toscana, dove io ricordo che stavo tanto tempo con mia sorella e mio fratello. Con loro ero tranquillo, i miei genitori non c’erano mai, erano sempre al lavoro e, quando erano a casa, uscivano per andare a fare la spesa o per pagare le bollette, quando ce la facevano. Queste cose le so perché li sentivo parlare, discutere, ma non si preoccupavano di darmi delle attenzioni, però pretendevano che andassi bene a scuola.

Io non li ho mai ascoltati, ascoltavo mia sorella quando mi diceva di fare i compiti e quando portavo bei voti a casa lei era la sola a essere contenta.

Poi, all’età di nove anni, ho cominciato ad uscire per il paese con mio fratello, anche da solo delle volte, ma mai troppo distante da casa, finché un bel giorno i miei genitori mi chiesero di andare a comprare le sigarette, ed io ero invidioso che i miei si comprassero le sigarette mentre a me dicevano sempre di no quando chiedevo qualcosa.

Io vedevo in giro i miei amici con tutte le figurine, le carte da gioco, e tutte queste cose e l’invidia che provavo verso di loro mi ha fatto iniziare a rubare le figurine dal tabaccaio che si fidava di me.

Da lì a poco iniziarono i trasferimenti ma non per le figurine, ma per gli sfratti esecutivi a casa. Finii le elementari in Toscana e mi trasferii in Piemonte, dove iniziai le medie e dove cominciarono i primi problemi.

Iniziai a non aver più voglia di andare a scuola, a rispondere male ai professori, a evitare legami con altri ragazzi, perché sapevo che me ne sarei andato da lì a poco. Poi i primi provvedimenti disciplinari, tanta rabbia verso i miei genitori, due bocciature in prima media. Iniziai a fumare le prime sigarette nell’estate del 2013. Dopo un altro sfratto arrivai a Gerenzago, paese in provincia di Pavia.

Quando ci siamo trasferiti a Gerenzago io non avevo più mia sorella, che ha deciso di andare a vivere con il suo compagno. Io, da lì, ho deciso di prendere le distanze da lei e da tutto, vivere la mia vita come veniva. L’unica persona che mi seguiva mi aveva abbandonato, così ho deciso di abbandonare il rapporto con lei. Ho sofferto molto per il suo abbandono.

Non avevo più punti di riferimento, così sono diventato il punto di riferimento di me stesso. Da quel momento l’unica cosa che volevo era andarmene di casa a 18 anni. Iniziai a peggiorare ogni giorno di più; vivevo in una casa abusiva dove mi vergognavo di portare a casa amici, fidanzate. Era più forte di me e ogni giorno che passava odiavo sempre di più i miei genitori per tutte le situazioni che mi hanno fatto vivere.

Iniziai a drogarmi, usavo soprattutto eroina, iniziai a rubare in casa a vendermi computer, telefoni, prendere i soldi a mia mamma, a tornare a casa il più tardi possibile. Non volevo più provare la sensazione di non essere a casa mia, ho imparato ad essere indifferente, non provavo più niente.

Ogni giorno progettavo modi per trovare soldi, modi per potermi comprare la droga, quando tornavo a casa non la sentivo mia. Quella casa mi ha creato solo malessere, odio, rabbia, la mia casa era la piazza dove uscivo, mi sentivo bene lì, dove stavo sereno tranquillo, mi drogavo ed ero a casa.

Mi sbatterono fuori dalla scuola del paese, dove ormai andavo totalmente pieno di droghe nel corpo, ero insensibile, ogni cosa che mi facevano notare non mi toccava. Finché la preside fece in modo di farmi mettere gli assistenti sociali, mi fecero i primi test sulla droga, così iniziai con il SerD e centri diurni.

Nei primi periodi me ne fregavo totalmente, anzi cercavo tutti i modi possibili per poterli fregare e fingere che fossi pulito: iniziai a mentire nei gruppi, nei colloqui individuali. Finché arrivò il giorno dove mi beccarono facendomi test a sorpresa. Dovevo prendere la terapia che, però, non sempre prendevo. Anche lì fuggivo dal problema, non volevo uscire da quel mondo, avrei dovuto affrontare troppi sentimenti che facevano male, dovevo confrontarmi con la rabbia verso mia sorella e l’abbandono subìto, con i miei genitori delusi per la situazione in cui mi ero messo, ma che non avevano compreso che forse era un po’ anche colpa loro, ma non mi interessava più di tanto.

Ho capito una cosa: che in quel periodo ero bravo a tradire le persone che volevano darmi una mano. Mia sorella, l’unica persona di cui avevo bisogno, non c’era. Per me tradire le persone veniva naturale ormai, ero entrato, non volevo una mano, io stavo bene in quelle situazioni, non sentivo il giudizio di nessuno, non dovevo confrontarmi con nessuno.

Finché non feci la prima rapina, ero in astinenza, avevo rabbia verso me stesso, verso ogni persona che mi capitava davanti. Finii al Beccaria, dove feci tutto il possibile per andarmene, quindi cercai la comunità e andò bene. Arrivai in una comunità di soli adulti, ero il più piccolo. All’inizio stavo bene perché ero riuscito a scappare dal Beccaria, avevo raggiunto il mio obbiettivo.

Passò un anno in cui mi resi conto che avevo bisogno della mia famiglia. Durante quel periodo mi sentivo impotente, non più padrone della mia vita, e ho iniziato a rivalutare diverse cose. Dopo circa un anno e otto mesi, in tribunale, sono stato messo alla prova con le mie emozioni, mi sono trovato davanti alla persona a cui avevo fatto del male. Mi sono sentito una merda davanti al dolore che le si leggeva negli occhi, ma a quanto pare non è bastato visto che, dal momento in cui sono uscito dalla comunità, dopo un mese sono tornato a drogarmi e successivamente a delinquere. Tornai a drogarmi perché in comunità avevo capito che usando la droga avrei soppresso i miei sentimenti, così tornai nel pieno della droga: un modo che potesse portarmi in un’altra dimensione.

Tornai a casa, dove ritrovai lo stesso clima che avevo lasciato. Incontrai vecchie conoscenze con le quali passavo le nottate in piazza, così decisi di tornare a delinquere, rapinando diverse persone in diversi episodi per soddisfare la mia dipendenza, senza preoccuparmi delle conseguenze.

Finché un giorno incontrai la persona che ha cambiato la mia prospettiva di vita. All’inizio non ero convinto di questa relazione tanto che continuai per un anno a delinquere, a drogarmi, ma con il tempo mi sono reso conto di quanto fosse importante per me questa ragazza, lei sapeva che mi drogavo ma non sapeva come facevo a procurarmela.

Quando un giorno decisi di dire basta, lei aveva tanti progetti in testa per la sua vita e io ad un certo punto ho deciso di farla finita con questa vita, mi sono reso conto che stavo facendo soffrire lei e soprattutto le persone che derubavo, solo per star bene io. Decisi di trovare lavoro finché non mi trasferii a Torino di nuovo, dove trovai lavoro presso un’azienda di vendita porta a porta, andai avanti fino a prima dell’arresto, non riuscii a finire il mese per colpa dei miei errori e delle mie scelte pessime.

Prima di trovare lavoro ci misi del tempo ma non mi importava perché ero felice, ero contento di aver trovato qualcuno con cui condividere la mia vita.

Intanto che cercavo lavoro iniziai a non sentire più quel bisogno di droghe, di non essere lucido anzi, cercavo emozioni forti: gioia, amore, insicurezza, tristezza, perché sentivo il bisogno di iniziare a vivere alla luce del sole e non più al buio.

Arrivò il momento dell’arresto e mi trovai in isolamento, dove mi convinsi che era giusto quello che avevo progettato e che non vale la pena di vivere così. Passai poco tempo al carcere di Ivrea, dove qualche persona che era detenuta da tempo mi fece star male. Mi fece pesare i reati che ho fatto, tanto che da lì imparai a guardarmi allo specchio e a sentirmi in colpa per tutto quello che avevo fatto a quei ragazzi. Oggi non riuscirei neanche a guardarli in faccia, dal momento che non meritavano tutto questo.

Al momento non gli davo peso, pensavo solo a me e al mio guadagno, con il tempo che ho passato chiuso per la mia detenzione, ho iniziato a mettermi nei panni di quelle persone. Adesso che sono chiuso qui, ho capito davvero quanto sia stato difficile per loro in quella situazione e, se dovessi incontrarli un giorno, mi scuserei ma soprattutto li ringrazierei perché è anche grazie a loro se oggi ho più consapevolezza dei miei errori e del mio passato.

Lorenzo Rubino

Percorsi della Devianza

Potere e libertà

Durante un incontro del Gruppo della Trasgressione il Dottor Aparo ha fatto la seguente domanda: “Sei più libero quando ti senti autorizzato a fare, senza alcun limite, quello che vuoi, o quando temi che forse non hai il diritto di fare qualsiasi cosa ti passi per la testa?

Sfogliando nel mio passato, vedo che c’è stato un tempo in cui mi divertivo con poco, senza preoccupazione. Poi, la prima volta che mi sono azzuffato con un mio compagno di scuola, sottomettendolo, mi sono sentito appagato, ho sentito il mio potere crescere, ma non mi sono reso conto che stavo iniziando costruire la mia catena.

Più crescevo, più mi sentivo libero di fare quello che volevo. Il mio campo d’azione si espandeva e la catena si allungava sempre di più, dandomi la sensazione di libertà, ma diventando sempre più pesante.

Guardo nel mio passato per capire chi era quello stronzo che mi ha dato la licenza di fare quello che volevo, fino al punto di abusare senza timore del potere che mi ero costruito. Chi mi ha dato la licenza di fare questo? Mi guardo allo specchio, intravedo riflessa una persona che non conosco. Guardo meglio e capisco che quello stronzo sono io!

Adesso che ho preso più consapevolezza del mio passato, mi sento più libero. Gli abusi non mi hanno reso libero come credevo; al contrario, mi hanno reso uno schiavo legato da una lunga catena.

Salvatore Luci

Percorsi della Devianza

Il timone della mia adolescenza

Ricordo ancora il numero telefonico di casa dei miei nonni paterni, dove sono nato e dove ho trascorso infanzia e adolescenza. Tutti i giorni, in orari che mi dettavano i miei stati d’animo, aspettavo che squillasse il telefono (la chiamata di mio padre). Attese deluse, accompagnate sistematicamente dalle stesse mazzate.

Riuscivo a sentire la voce di mio padre grazie ai rimproveri di mia nonna che, almeno una volta a settimana, lo chiamava per ricordargli della mia esistenza e della sua irresponsabile assenza.

La solitudine che paralizzava le mie curiosità e la necessità di sentirmi accudito, cercavo di colmarle con i sorrisi e qualche carezza delle persone anziane del vicinato. Ma più tempo passava e più l’infame necessità di quel riconoscimento prendeva possesso del mio timone.

Iniziai così a farmi “guidare”, come una prostituta accetta la seduzione più proficua, dal miglior offerente: “Robertino, ma tu sei molto intelligente“, ”Aiutami a scaricare queste casse di sigarette che poi ti do 2 mila lire”, ”Bravo Roberto! Stai diventando un vero uomo e più tardi ti porto con me a vedere le corse clandestine dei cavalli “…

E così, pian piano, iniziarono per me le prime chiamate, fin quando arrivò, dopo tanti ”trofei ” conquistati, la vera, illusoria e definitiva chiamata di Lucifero.

Da quel giorno, pur tra improvvisi turbamenti e il delirio che li imbavagliava subito dopo, cominciai a sentirmi protagonista e compartecipe di un progetto chiamato distruzione e che oggi identifico con il mio fallimento.

La complessità del male aveva spianato la strada alla sua indegna banalità, fino a farmi abortire il dolore per la mancanza dell’unica, vera chiamata che, se ci fosse stata, mi avrebbe probabilmente impedito di consegnare il timone della mia adolescenza e della mia responsabilità al primo e più astuto offerente.

Lo 095/317006 non squillò mai e, quando lo fece, purtroppo per lui e me, si interruppe per sempre la linea.

Roberto Cannavò

Percorsi della DevianzaLa Chiamata

Cavarmela da solo

Ciao mi chiamo O. Se devo pensare a una delle prime delusioni, forse alla prima volta che mi sono sentito davvero tradito, è stato all’età di 8 anni circa. Correvano i primi anni 2000 ed io ero un bambino curioso e con molta immaginazione, avevo molti amici nel quartiere, certo non erano dei santi ma erano i miei amici, loro c’erano.

I miei litigavano di continuo e forse per questo vedevo negli amici una seconda famiglia. Un giorno mentre siamo a tavola con mio zio, mio padre insulta mia madre. Lei ferita, nell’orgoglio, prende la bottiglia di vino che stava lì sul tavolo, la rompe e si squarcia il petto.

Tra il vino rosso e il sangue non sapevo più dove iniziava il sangue e dove finiva il vino. Pochi istanti dopo mi ritrovo sull’ambulanza con mia mamma.

Conoscendo già la mia situazione a casa, la polizia porta direttamente mio padre in carcere. Io e mia madre dopo la notte in ospedale veniamo accompagnati in una comunità per madri e figli. Il giorno dopo mi sveglio in questa casa nuova dove non conoscevo nessuno. Che ne sarebbe stato di tutti i miei amici?

Come potevo spiegare delle cose che non capivo neanche io? Mi sono sentito tradito dalla vita, da mio padre, da mia madre. Per molto tempo sono rimasto chiuso nel mondo che mi sono creato. Crescendo, ho cominciato a non fare più affidamento sui più grandi e a cavarmela da solo.

Sentivo che nessuno poteva capirmi, ma allo stesso tempo sono sempre rimasto fedele ai miei amici. Certo non tutti lo sono stati con me, ma sto imparando bene a selezionarli. Per esempio questo gruppo della chiamata mi sembra uno di quegli amici che possono lasciarmi qualcosa di buono e io spero di fare altrettanto.

Reparto LA CHIAMATA  – Percorsi della Devianza