Un vaso a me caro

Sto ristrutturando un vaso a me molto caro.
Andato a pezzi molti anni fa.
In parte già ricostruito.
Ora devo colmare una voragine.
Sto mettendo stucco.
Un pezzetto alla volta.
Lascio asciugare e poi vado avanti.
Ci vuole tempo
Tanto tempo
E pazienza.

Quando sarà finito lascerò ben evidenti le fratture.
Le dipingerò con pittura dorata.
Come nell’arte giapponese del kintsugi.
Ciò che ne verrà fuori sarà qualcosa di diverso .
Ma pur sempre un vaso.
Bellissimo e prezioso, almeno ai miei occhi.

Fin troppo facile il paragone con la mia vita.
Andata a pezzi.
Ricostruita un pezzetto alla volta.
Con i segni evidenti di ciò che fu, di ciò che rimase e di ciò che ora è.

Ma è pur sempre vita.
Meraviglioso dono di un Dio che ho rinnegato troppo a lungo
Ma al quale ora la affido dicendogli
Sia fatta la tua volontà.

Elisabetta

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Un commento su “Un vaso a me caro”

  1. Correva l’anno 2015, mi trovavo nella prefettura di Okinawa nell’estremo sud del Giappone. Nello stesso periodo della mia permanenza in questo luogo, ho assistito all’arrivo del supertifone Goni, categoria 5 della scala Saffir-Simpson, la massima categoria che ne identifica il passaggio come “disastroso”. Venti che hanno raggiunto i 260km/h, danni gravissimi agli edifici, distruzione delle strutture mobili, abbattimento di alberi, insegne, cartelli stradali, estese inondazioni e morte.

    Quindici ore di estrema paura, chiusa all’interno di una piccola stanza di un edificio anti-tifone in cui erano state sigillate porte e finestre. Nulla i miei occhi hanno potuto vedere in quelle ore che parevano eterne e insuperabili, ma avvertivo, dal movimento incontrollato e violento dell’edificio, dai graffianti rumori che provenivano dall’esterno e dalle tremende sensazioni che attraversano la mia anima, che nulla sarebbe stato più come prima e che probabilmente, se fossi sopravvissuta, non avrei più potuto vedere la bellezza di quella gente e del meraviglioso luogo che mi aveva così tanto affascinato e catturato.

    L’indomani mattina, finito l’incubo, mi ritrovai immobile sul ciglio di ciò che era rimasto della strada, osservando tutta la distruzione ed il disordine. Provavo un’enorme sofferenza e mi sentivo schiacciata da un senso d’impotenza ingovernabile. Di fronte a me, dall’altro lato della strada, un anziano bottegaio, seguendo la tecnica del Kintsugi, risollevava e ricostruiva la sua bottega. Fu in quei giorni che mi avvicinai a questa antica arte giapponese e compresi la vera essenza di questo meraviglioso popolo. Per i giapponesi, ogni ferita originata da un trauma fisico o emotivo, non è che un nuovo inizio. Questa tecnica, nata oltre 6 secoli fa per riparare tazze da tè ci insegna che non c’è vergogna nell’aver sofferto, né nel portarne i segni nell’anima e a fior di pelle.

    Al contrario: trasformare il dolore in oro ci rende unici, come opere d’arte. Prendendosi cura delle proprie ferite si impara a ricomporre le fratture dell’anima e a fare di noi stessi creature forti e preziose. Da ogni storia brutta può nascere nuova bellezza e le cicatrici originate da tale storia non vanno nascoste, ma esibite con orgoglio.

    Per i ceramisti si tratta di riparare una breccia con l’oro, per noi significa rendere la cicatrice la nostra parte più bella. La crepa testimonia la preziosa fragilità della ceramica. Se si ricompone l’opera nascondendo le riparazioni non si mostra il suo autentico valore, la sua mirabile capacità di rigenerarsi dopo l’urto. Allo stesso modo le cicatrici, quando abbellite, sono per noi di infinita importanza: ci danno la forza necessaria per continuare a vivere nel modo che abbiamo scelto e ricostruito con impegno.

    Certi dolori attraversano la nostra anima con tutta la loro potenza distruttiva come fossero dei supertifoni e lasciano all’interno di essa un paesaggio quasi irrecuperabile. Scegliendo di aggiustare cosa è danneggiato, decidiamo di riprendere in mano la nostra vita nonostante i dolori che ci hanno spezzato e questo significa ricostruirci e farci un dono immenso.

    Con affetto Katia

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