L’arma migliore contro il degrado

L’istituzione era mia grande nemica in passato. Quando mi arrestarono presi questa punizione con tanta arroganza che non mi importava nulla delle conseguenze che potevo creare a me stesso e agli altri. Non ho reati di sangue, ma questo non significa che il mio spaccio di droga sia meno grave, anzi con la mia incoscienza alimentavo come uno stormo di uccelli il degrado della collettività oltre a danneggiare me stesso.

Quando ero molto giovane ero ammaliato da personaggi che nel mio quartiere sembravano i padroni di tutto e tutti. Io li imitavo e li seguivo fino al punto che, se avevo dei problemi, loro c’erano, mi aiutavano. Più il tempo passava più forte diventava la mia corazza, con la nebbia negli occhi la rabbia cresceva e anche la mia incoscienza, a tal punto che non ero più io a chiedere aiuto ma erano loro a rivolgersi a me quando avevano un problema da risolvere. Ero diventato un pilastro importante di quella organizzazione.

Oggi riesco a capire che sì, ero un pilastro solido e importante, ma del degrado, tanto è vero che sono qua rinchiuso. Accetto questa punizione con molta più serenità perché so che con le mie azioni ho contribuito ad aumentare il degrado nella società e non ho più bisogno di un giudice che mi punisca per capire quello che è giusto o sbagliato.

Sono contento di avere ritrovato me stesso e di essere finalmente pulito con la mia famiglia e questo mi fa sentire libero, anche se è strano sentirsi liberi quando la coscienza ti dice che hai sbagliato. Credo che questo è il risultato del percorso fatto col gruppo della trasgressione, anche se so che dovrò lavorare ancora e che devo imparare a confrontarmi. Punizione e regole ci devono essere, ma noi dobbiamo capire le nostre responsabilità e l’istituzione non deve dimenticarsi di noi.

Credo che le istituzioni devono e possono fare molto di più con strutture e personale qualificato per facilitare il recupero dei detenuti. Oggi l’istituzione si deve rendere conto che, se vuoi contrastare il degrado, le persone con caratteri difficili non vanno abbandonate ma aiutate.

Nella vita ho indossato molte maschere cambiandole come un camaleonte in base alle situazioni, ma la migliore che mi dà più soddisfazione è quella che indosso ora con un terzo occhio che mi fa vedere oltre il muro che avevo alzato molto tempo fa.

Fino a poco tempo fa non avevo detto la verità ai miei figli; dicevo, come la maggior parte di tutti i genitori detenuti, che lavoravo e con questo cercavo di proteggerli o, per lo meno, così pensavo. Il dott. Aparo ci ha spiegato e fatto capire che è sbagliato mentire, ed ecco che grazie a quella maschera con il terzo occhio che io chiamo l’occhio della coscienza, ho avuto il coraggio e la serenità di comunicare ai miei figli la verità… che sono in galera e che le istituzioni non sono i nostri nemici ma l’arroganza e l’incoscienza che il loro papà aveva quando era giovane.

Ora capisco che se avessi continuato a tradire i miei figli, un giorno loro si sarebbero sentiti altrettanto in diritto di tradire e questo sarebbe grave per il loro equilibrio. Spero che nel tempo questo nuovo modo di parlare con i figli arrivi anche ai miei compagni detenuti che non hanno la possibilità di frequentare questo gruppo, ai cittadini che sono fuori liberi e alle persone che ancora si fanno travolgere dall’idea di diventare importanti in fretta. La coscienza è l’arma migliore per difendersi.

Paolo De Luca

Genitori e FigliArroganza e Coscienza

 

Le zanzare vincono quasi sempre

Le zanzare per nostra sfortuna vincono sempre, o quasi.

È una notte d’estate, mentre tutti dormono, sento le zanzare che cercano ostinatamente di attaccarmi: è un combattimento impari, vincono quasi sempre loro. In questa battaglia notturna mi viene in mente mio padre. È molto tempo che non lo ricordavo più, chissà perché. Fa un caldo terribile in queste celle, il caldo toglie il respiro, mi vien voglia di urlare, intanto penso a mio padre. Cerco anche di ricordare i visi delle persone che conoscevo, ma inutilmente; sarà il caldo, penso. Mi sforzo ma è inutile ricordare i loro visi, non ho neppure le foto di tutti coloro che vorrei ricordare e associare alla mia vita passata. Ho trascorso parecchio tempo in carcere e ho incontrato molte persone. Con alcune di loro abbiamo fatto un percorso di confronto culturale e personale, tuttavia ricordo a stento i loro nomi. Ho sempre pensato che è meglio non affezionarsi a nessuno, specie in luoghi come questo.

Mio padre era un semplice contadino, ha cercato per quanto gli fosse possibile di darmi degli insegnamenti; ha fatto di tutto, sono io che non ho fatto nulla per aiutarlo. Ricordo in particolare quando durante l’estate ci svegliava prestissimo per aiutarlo ad irrigare i campi dove lui lavorava, dal momento che il suo turno di erogazione dell’acqua gli veniva concesso durante la notte; ricordo le sue corse con la zappa in mano per tappare i buchi nel terreno, quelli lasciati dalle piccole talpe che fuoriuscivano alla ricerca di refrigerio, onde evitare che andasse persa qualche goccia d’acqua.

A pensarci bene, non ho una foto da adulto insieme a lui. Lo ricordo sempre alla ricerca di una giornata di lavoro, ce la metteva tutta per portare, come si dice, il pane a casa. Abitavamo in una casa colonica, di caldo ne faceva tanto durante l’estate in quel profondo sud. Invece oggi debbo sopportare lo stesso caldo, con la differenza che a casa potevo uscire e dormire fuori all’aria aperta, magari sopra l’erba rinfrescata dalla brina notturna; mentre qua non è possibile, ci sono i cancelli di ferro. Ecco che di nuovo il pensiero corre a mio papà, alla mia infanzia, ai miei quattro fratelli e a mia madre. L’ultima volta che ho incontrato mio padre è stato in carcere, era venuto a trovarmi, forse ad abbracciarmi per l’ultima volta; stava per morire, ho visto gli occhi di mia madre che me lo enunciavano, mentre lui si sforzava di chiacchierare forse per darmi coraggio. Pensava forse che avessi bisogno di quello.

Oggi penso a tutto quello che avrei voluto dirgli, raccontare di me, della mia vita, manifestargli il mio affetto, la mia stima, la mia ammirazione per la sua grandiosità di essere uomo, per la sua umiltà, per non averci mai fatto mancare nulla, né a noi né a mia madre, che venerava. Non ho voluto farlo, forse per non apparire debole ai suoi occhi e me ne rammarico.

Mi bastava guardarlo per capire quello che gli passava per la testa, era una persona semplice, non conosceva cattiveria, malizia, invidia. Non sapeva cosa fossero. Non erano sentimenti che gli appartenevano, per questo molti si approfittavano della sua nobiltà d’animo e della sua incapacità di sottrarsi alle richieste di aiuto; era facile per gli altri circuirlo, approfittando della sua semplicità, per non pagarlo della fatica che svolgeva nei campi. In poche parole era semplicemente una brava persona, perbene, con delle qualità rare, tanto da sembrare anacronistico nei suoi modi di fare. La sua vita sacrificata mi faceva arrabbiare parecchio.

Ho iniziato già da ragazzino ad applicarmi con l’intento di riuscire a dare ed avere qualche soddisfazione in più, ma diventando tutto l’opposto di lui. Ho avuto molte soddisfazioni per il mio carattere, ma questo mi ha anche trascinato fuori dal contesto sociale. Non desidero attenuanti. Invece vorrei parlare a mio padre in questa notte di caldo, chiuso in una cella insieme ad altre due disgraziati come me, che adesso dormono beatamente con il lenzuolo bagnato appositamente d’acqua sopra il corpo. Vorrei chiedergli scusa per la mia assenza al suo funerale, non è dipeso dalla mia volontà; chiedergli scusa per tutte le volte che avrei voluto abbracciarmelo forte per dirgli quanto mi è mancato, quanto mi hanno fatto sentire sicuro i suoi di abbracci, per dirgli “grazie Papà per tutto quello che hai fatto per noi”.

Ieri ho chiamato mia madre e dopo i primi convenevoli, mi ha detto che a breve ricorre l’anniversario della morte di papà. Ho risposto che quella data non la dimentico e che ho pensato di fare recitare una messa dal cappellano. È una bugia, non sono credente e mia madre non lo sa; se lo sapesse ne farebbe un dramma.

Non riesco a dormire ed accendo a volume zero la tv, guardo le immagini di migranti sui barconi; molti non arriveranno a destinazione, altri forse ce la faranno e sono contento per loro. Penso questo perché credo che ognuno abbia bisogno di opportunità, di una chance, per raggiungere la felicità, o perlomeno per tentare di migliorare il proprio stato. Mi rattrista pensare che molti rimarranno delusi nelle loro aspettative non trovando l’isola felice che speravano di raggiungere. Alcuni di loro dopo la lunga attraversata, si ritroveranno in carcere, inghiottiti in questa buia voragine, aggiungendo alla sofferenza passata quella che il carcere riserverà loro, comprese le torride notti di caldo trascorse a lottare contro l’infinito esercito delle zanzare, che cercano continuamente di attaccare e che, per nostra sfortuna, vincono sempre, o quasi.

Vincenzo Martino

Torna all’indice della sezione

Quelle persone grandi

Durante la mia adolescenza credevo fermamente che il potere appartenesse solo alle persone grandi, quelle stesse persone che molto presto mi avrebbero incoraggiato a praticare le scelte di vita che ho seguito. Mi sono accorto tardivamente che quelle persone usavano noi adolescenti come meglio credevano senza alcun rimorso o senso di colpa.

Negli anni successivi non è stato difficile per me assumere gli stessi atteggiamenti e superare ogni limite possibile. Oggi sono qua a ripercorrere quell’assurdo passato dove, senza nemmeno rendermene conto, anch’io ho portato sofferenza a tante persone.

Ma per capirlo c’è voluto un lungo periodo di presa di coscienza e questo è stato possibile attraverso il confronto che quando non c’era il virus abbiamo portato avanti insieme con gli studenti e con le persone che si sedevano con noi detenuti allo stesso tavolo del gruppo.

Giorgio Ciavarella

Torna all’indice della sezione

Un modo d’essere

Io non sapevo di portarmi appresso questo modo di essere e di fare le cose che al gruppo chiamiamo “arroganza”. Quando ero giovane io ero semplicemente me e questo me di allora era forte, aggressivo, non sopportava i forti, si faceva rispettare. Non riconoscevo l’arroganza per quello che è. A me pareva di essere di più e sopra tutti gli altri; e mi andava benissimo così.

A volte, anzi diciamo piuttosto spesso, la maniera con cui mi facevo rispettare era decisamente discutibile. Dico ora così, ma allora mi sembrava normale; non so da dove venisse questa cosa: forse saranno stati gli amici, forse l’ambiente dove sono cresciuto, forse il mio carattere… sta di fatto che quell’arroganza che non sapevo di avere mi ha portato sempre più in là e, partito dalle ragazzate, sono passato a comportamenti al limite e poi a varcare quel limite.

Poi è trascorso un gran tratto di vita, sono successe molte cose… e sono qui. Sono ancora arrogante? Difficile rispondere: a volte sento ancora le pulsioni di allora, ma adesso le riconosco e non mi imbrogliano più. Adesso le controllo, le osservo, le respingo. Ogni tanto scappa e mi ritrovo a dire ciò che non vorrei o quasi a fare ciò che non si fa… ma quai, appunto.

Non è morta la mia arroganza, ma non è più libera, non perché siamo tutte e due in prigione, ma perché la conosco un po’ di più.

E per questo devo proprio ringraziare il gruppo della trasgressione e il Dottor Aparo, perché, senza fare tante storie, senza girarci intorno, mi hanno consentito di capire che cosa è questa arroganza che mi porto ancora dentro anche se attenuata e mi hanno spinto a dare voce alla mia coscienza buona che era stata come soffocata. Non so se ce l’avrei fatta senza; forse no.

Grazie, Vincenzo Solli

Torna all’indice della sezione

La centralità dell’arroganza

Sono Domenico Mazzitelli, detenuto da circa 28 anni con fine pena mai.

Per l’organizzazione criminale a cui appartenevo, l’arroganza era centrale e veniva utilizzata come atto di superiorità verso il prossimo allo scopo di ottenere sempre più ricchezza economica e aumentare il predominio sul territorio nazionale. Ogni metodo era buono: estorsioni, ricatti, omicidi e qualsiasi altro abuso possibile, praticato con il totale disprezzo. All’interno del sodalizio, regnava l’atmosfera di supremazia e non c’era posto per la coscienza.

Io ho sempre ricoperto un ruolo di semplice gregario ma, grazie ai tanti soggetti come me, le associazioni criminali potevano aumentare il loro potere.

Oggi ho maggiore consapevolezza degli errori commessi in passato e credo di averla raggiunta grazie ai corsi che frequento e agli studi che ho fatto in questi lunghi anni di carcere, fino a ottenere la maturità e ad essere oggi uno studente universitario.

Torna all’indice della sezione

Da quassù sei ancora più vicino

Non so se lo spettacolo della natura mi renda più triste, perché tu non puoi vederlo, o più felice perché ne posso godere anche per te.  Quel che è certo è che ho in mano giorni che scorrono nella tua assenza/presenza costante. Perché tu sei dove io sono. Perché sei nel cuore e in ogni mio passo.

E allora la abbraccio, la onoro, la riverisco questa vita perché tu ne fai parte. E ti ritrovo e ti respiro accanto in questa luce unica e meravigliosa. Da quassù sei ancor più vicino, Andrea.

Elisabetta Cipollone

Il nemico comune

Mi chiamo Francesco Castriotta. Sono nato nella zona di Quarto Oggiaro quando il degrado regnava in ogni angolo del quartiere. All’età di 16 anni entrai a far parte di una grossa organizzazione criminale, dove i capi erano persone, o forse diavoli, che con la loro arroganza e il loro potere comandavano e decidevano su chi doveva vivere e chi doveva morire.

Era una delle più grandi piazze di eroina di tutta Italia e lì ho fatto strada! Da allora sono passati più di 30 anni e ancora oggi in molti quartieri di periferia le istituzioni combattono contro degrado, bullismo, arroganza, potere, mafia e narcotraffico.

A volte mi capita di seguire fiction, serie TV, film basati sulla delinquenza e mi domando se per i ragazzi siano un bene o un male. Io ricordo che da ragazzino, di fronte a film e serie TV come il Padrino, Scarface ecc.., provavo un fascino inspiegabile…  volevo essere come loro, arrogante, prepotente e onnipotente.

Oggi, frequentando gli incontri del Gruppo della Trasgressione, ho l’impressione di riuscire a guardare le cose meglio, mi sembra di sapere ascoltare di più la mia coscienza e di dare meno spazio a quei falsi miti in cui ho creduto per anni.  Oggi, quando mi capita vedere uno di quei film con gli occhi che ho adesso, riesco a vedere il marcio che il film denuncia, ma quando si è giovani questo non si capisce!

Allora io chiedo, se possibile, di intervenire prima che si finisca in galera, anche perché non mi sembra che in tutte le carceri d’Italia ci sia un Gruppo della Trasgressione che ti spinge a metterti sotto sopra.

L’arroganza, che in alcuni quartieri nasce e cresce tanto facilmente, è diventata la principale nemica della mia vita, dopo aver contribuito per mano mia alla distruzione della vita di chissà quante persone. E’ quello il nemico che le istituzioni devono combattere!

Per nostra fortuna, qui a Opera ce ne occupiamo al nostro tavolo e con i nostri convegni, ma perché solo adesso e perché solo in carcere?

Francesco Castriotta

Torna all’indice della sezione

Flavio e Gianluca

Da qualche giorno penso con grande tristezza a quei 2 ragazzini, Flavio e Gianluca di 15 e 16 anni, morti per aver assunto della droga. Avevano l’età di mio figlio e, se penso che qualcuno gli possa dare della droga, ho paura. Ma penso anche che in passato io, con la mia incoscienza e la mia arroganza, ho provocato il dolore di tanti altri ragazzini.

Oggi ci sono stati i funerali. Vedere questo fatto e sapere che anch’io ho spacciato e contribuito a vendere morte fa piangere il mio cuore. Se oggi ci fosse mio figlio davanti a me, penso proprio che non avrei il coraggio di guardarlo negli occhi.

Ringrazio le istituzioni, il Gruppo della Trasgressione, che con le sue discussioni e gli interventi del dott. Aparo tira fuori a ognuno di noi la nostra coscienza.

Sono rammaricato che nella mia vecchia carcerazione non ho incontrato il Gruppo della Trasgressione, ma sono contento di averlo incontrato oggi.

Provo un grande dolore e ci tengo a condividerlo con il gruppo. Penso che ognuno di noi debba riflettere molto su quello che abbiamo fatto nel nostro passato e trasmettere alle nostre famiglie e alle persone vicino a noi che l’arroganza e l’incoscienza non pagano mai, anzi uccidono l’anima.

Paolo De Luca

Genitori e figliTossicodipendenza

Abuso e Assuefazione

Hannah Arendt parla di “banalità” del male, mentre racconta l’operato di Eichmann, gerarca nazista al tempo dell’Olocausto, che riesce a commettere turpi atrocità continuando a pensare di essere nel giusto:  dal suo punto di vista, egli non faceva altro che “rispettare le regole impartite dall’alto”.

La Arendt lo dice chiaramente: Eichmann non è altro che un burocrate che ha smesso di pensare, non riuscendo più a distinguere fra i valori che favoriscono la crescita delle persone e le ideologie che distruggono la dignità umana, pur se a volte si nascondono sotto una parvenza di legalità.

In fondo Eichmann non faceva altro che far tornare i conti: egli era uno “specialista” nell’organizzare il traffico ferroviario. Nella sua mente diceva a se stesso che il suo compito era solamente quello di muovere treni, mica di uccidere persone! Ed era anche bravo nel proprio lavoro, adempiva diligentemente ai propri “doveri”, quelli assegnatigli dalle autorità.

Mentre Eichmann aderisce completamente all’autorità del momento, il film mostra parallelamente il faticoso tentativo della Arendt di sottrarsi dallo scrivere quello che tutte le sue autorità di riferimento (il redattore del giornale, il preside dell’università dove insegna, i suoi vecchi amici) vorrebbero lei scrivesse: ovvero che Eichmann è un demone, un perverso e malvagio assassino senza scrupoli né coscienza. Ma lei non ci sta e, contro tutti, continua a battersi per ciò in cui crede: Eichmann, più che un “Mostro”, era un Signor Nessuno che, come tanti altri, eseguiva senza porsi troppe domande i compiti che gli erano stati assegnati.

Così, con il suo esempio, la Arendt ci mostra quanto sia difficile opporsi all’autorità, per il potere che l’autorità stessa esercita su di noi. È difficile mantenere la mente aperta al dialogo anche in un paese libero, figuriamoci in una dittatura quale è stato il nazismo.

Ma ciò che ci colpisce è che per Eichmann “opporsi all’autorità” non è nemmeno un’alternativa possibile. Egli non arriva neppure a porsi le domande: “Stiamo sbagliando qualcosa?”. “Sono responsabile?”. Imperturbabile e senza dar segno di sentirsi in alcun modo colpevole, ripete durante tutto il processo: “Io sono nel giusto, non ho fatto altro che eseguire gli ordini, ho adempito alle mie responsabilità”.

Centrale quindi è il tema dell’Autorità. Sembra sia fondamentale possedere prima di tutto un’autorità interiore che faccia da modello, da sestante, da guida, per orientarsi nella realtà e poter così distinguere sul nostro cammino le Autorità che ci chiamano a crescere dai falsi miti onnipotenti che si spacciano per autorità, ma che non hanno alcun interesse per la nostra crescita o evoluzione, e al contrario ci seducono attirandoci su scorciatoie dalla vita breve.

Questo ci porta ad interrogarci sulla “funzione” dell’autorità. Dopo diversi anni di frequentazione col Gruppo Trsg, mi sembra di poter dire che quando l’autorità è cieca, sorda e incapace di rispondere alla propria funzione, due sono le reazioni possibili:

  •  da una parte ci si arrabbia e ci si oppone, si attacca l’autorità e la si disconosce, smettendo così di sentirsi responsabili verso tutte le Istituzioni che quell’autorità deludente rappresenta;
  • dall’altra parte, invece, si inserisce il pilota automatico quale potente “anestetizzante” della coscienza: progressivamente si mette a tacere la mente e si spegne il pensiero. Ancora una volta smettendo di sentirsi responsabili. Delusione e paura spesso contribuiscono a questa progressiva assuefazione, che è in grado di trasformare un “essere umano pensante” in un “automa manovrabile”.

Ma quand’è che l’Autorità ci induce a farci carico delle nostre responsabilità invece che a disconoscerle?

Al Gruppo della Trasgressione abbiamo avuto la possibilità nel tempo di imparare a riconoscere le due funzioni dell’autorità: non solo quella di “punire” e “misurare” quanto grave deve essere la punizione, ma anche e soprattutto quella di “orientare”.

Tanto più, quindi, l’Autorità svolge il proprio ruolo di contenimento e orientamento, ampliando così i nostri orizzonti e rendendoci più “liberi” di coltivare i valori che danno dignità agli esseri umani, tanto più sapremo di trovarci di fronte a un’autorità positiva e autentica. Al contrario le autorità ingannevoli, che ci inducono su una strada che porta a restringere progressivamente i nostri orizzonti, sono facilmente riconoscibili perché ci illudono con facili gratificazioni, ottenibili senza alcun lavoro o fatica; oppure si impongono con la forza, quasi sempre spacciandosi come invincibili e onnipotenti ed essendo nei fatti più autoritarie che autorevoli.

A volte diverse autorità di segno opposto convivono dentro di noi, entrando in conflitto tra loro e costringendoci a scegliere tra il combattere per mantenere vivo il dialogo con la nostra coscienza e lo spegnere il pensiero, favorendo l’assuefazione a ideologie e fantasticherie ingannevoli, che si propongono come facili e allettanti surrogati dei nostri valori.

Il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio che ci ha permesso di lavorare a lungo su questo tema. Il mito di Sisifo, attraverso il dialogo tra Sisifo e Asopo, ci ha insegnato a riconoscere e a rielaborare la reazione di opposizione, rabbia e misconoscimento reciproco che provocano le autorità assenti e incoerenti. Sisifo si arrabbia con Asopo fino all’arroganza di farlo inginocchiare, in quanto vede in lui un padre che lo ha lasciato senza acqua e senza cure. Ma alla fine egli diventa anche consapevole che la sua rabbia e il suo ostinato opporsi alle Istituzioni, per via di quella grande delusione subita, lo porteranno solo a ripercorrere all’infinito i propri errori.

Il film della Arendt mi ha fatto però riflettere su quanto sia importante lavorare anche sulla seconda reazione possibile di fronte ad un’autorità deludente: quella del “pilota automatico”, del “burocrate senza pensiero”, dell’assuefazione all’onnipotenza.

Il dialogo tra Asopo e Zeus si presta bene a questo scopo. Asopo, nella nostra versione del mito, sembra aderire senza alcun pensiero critico alle seduzioni dell’onnipotente Zeus, che vende illusioni e si vendica crudelmente contro chi osa disobbedirgli, che esercita il potere utilizzando l’Olimpo come territorio di sua proprietà esclusiva.

A mettere in crisi Asopo, assuefatto e acritico verso gli abusi del potere, è solo la constatazione che adesso gli abusi di Giove riguardano proprio sua figlia Egina. Prima di questo, tutto il dialogo con Sisifo, è una evidente dimostrazione di come possa prodursi una progressiva distanza fra potere e attenzione ai bisogni e alla prossimità dell’altro.

Tiziana Pozzetti

Il mito di Sisifo

Il cineforum su “La banalità e la complessità del male”