Non posso dimenticare

Io non posso perdonare, perché non posso dimenticare. Non posso dimenticare come hai distrutto la spensieratezza e la leggerezza che avrebbe dovuto accompagnare i miei vent’anni.

Non posso dimenticare come hai demolito quel senso di fiducia nell’altro che, forse ingenuamente, da sempre mi ha contraddistinta.

Non posso dimenticare come, attraverso il tuo narcisismo, hai deciso di annullare il mio valore, considerandomi un oggetto di tua proprietà, privandomi della libertà di scegliere.

Non posso dimenticare come oscillavi tra il chiedermi aiuto disperatamente e il vomitarmi addosso tutta la tua rabbia, come se fossi io la causa del tuo tormento.

Non posso dimenticare il mio desiderio di urlare e di come questo non sia mai stato ascoltato e compreso da nessuno, poiché nessuno poteva garantirmi una protezione dal tuo delirio.

Non posso dimenticare come invece sia stato chiesto a me di cambiare, di nascondermi, di andare lontano, di modificare le mie abitudini e sparire, come se fossi io quella sbagliata.

Non posso dimenticare gli sguardi attoniti delle persone che mi circondavano e la facilità con cui hanno deciso di voltarsi dall’altra parte.

Non posso dimenticare gli occhi preoccupati di mia madre, che mai sono stati così in grado di comunicare, pur senza dire una parola.

Non posso dimenticare la paura, non ci riesco.

L’unica cosa che posso fare invece è imparare a convivere con la mia sofferenza, guardandola dritta in faccia ed impedendole di disintegrarmi ogni volta che ci penso, perché nulla ormai si può fare rispetto a quanto già accaduto.

Federica Turolla

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Mi chiamo Alessandra e sono una femmina

Mi chiamo Alessandra e sono una femmina.

Non mi sono mai sentita completamente a mio agio con il mio essere femmina, come se ci fosse qualcosa di fuori posto. Non ho mai amato il rosa, non so truccarmi se non con un accenno di matita e mascara e non amo fare shopping. Da bambina giocavo con le macchinine più che con le barbie, anche se ne ho comunque qualcuna a casa. Ho sempre avuto più amici maschi che amiche femmine, non per principio, ma perché mi sentivo più in sintonia, più simile. Mi piaceva fare sport, giocare a calcio e a pallavolo in cortile, organizzare serate giochi in scatola, andare al bowling, giocare a bocce in spiaggia. Qualche sera d’estate ancora oggi ascolto le mie amiche parlare di prodotti di bellezza, trucchi e maschere per capelli e vivo un senso di inadeguatezza, come se mi sentissi estranea a un mondo a cui forse appartengo dalla nascita, come per diritto, ma di cui non capisco le regole e le forme.

Guardo con ammirazione mascherata la femminilità di alcune donne, che sanno muoversi con sensualità e dolcezza, senza mai risultare volgari, mentre io mi sento così poco aggraziata. Qualche giorno fa una ragazza con cui lavoro mi ha detto ”Ale ma tira su quei piedi, come cammini? Li stai rovinando quei poveri stivali!”. Mi sembra che il femminile e la femminilità abbiano un segreto a cui non riesco ad accedere, un po’ per scelta, un po’ per incapacità, un po’ come se ci fosse una serratura di cui non possiedo la chiave.

Sono femmina e mi piacciono tante cose che molti definiscono da maschio. Scherzando in famiglia, mi è sempre stato raccontato l’aneddoto che il mio papà, che ha sempre voluto figli maschi, ha fatto due figlie femmine che sembrano due maschi (soprattutto per il tifo calcistico). Ma poi, in verità, non ho mai capito perché ci fossero cose che si definiscono da maschio e altre da femmina, come se ci fosse una particolare predisposizione neuronale per le macchine se sei maschio e per le bambole se sei femmina.
E in fondo, a pensarci bene, quello che mi piace è trascorrere del tempo giocando, leggendo, guardando film, parlando di viaggi e di mostre e proprio non saprei incasellare questi hobby in fiocchi azzurri o rosa.

So che mi chiamo Alessandra e che sono femmina, del resto, non me ne è mai importato granché. Sento però dentro di me una cosa che riconosco essere tipica delle donne, ed è la paura. Ho paura di notte, quando cammino per le vie della città e provo a distrarmi con dei diversivi, cercando però di rimanere sempre all’erta nel caso arrivasse qualcuno. Ho paura quando sono a casa da sola la sera e sento un rumore sospetto. Ho paura quando sono alla pompa di benzina e sono sola, le chiavi servono ad aprire lo sportello del carburante e io non potrei scappare.

Ho paura, ho paura quando…non so, so che c’è sempre una paura di sottofondo che mi accompagna, come un fedele alleato che rimane nell’ombra e che emerge solo in alcuni momenti significativi, ma in fondo non ti abbandona mai.

Non ho paura perché sono Alessandra. Ho paura perché sono femmina.

Non mi piace giocare a calcio perché sono un maschiaccio, ma perché sono Alessandra. Non mi piace un look acqua e sapone perché sono poco femminile, ma perché sono Alessandra. Non amo giocare a bocce in spiaggia perché sono come un maschio, ma perché sono Alessandra.

Ma ho paura per strada non perché sono Alessandra, ma perché sono femmina. E questo mi fa arrabbiare.

Lo do per scontato, come se fosse normale vivere così e molto spesso mi dimentico di interrogarmi se è davvero così tanto normale vivere così.

Alessandra Messa

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Selvaggi precisi

Carlo Galbiati

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Il lunedì della svolta

È un lunedì freddo e lento come tanti altri lunedì d’inverno, con l’unica differenza che è da tre giorni che piove incessantemente. Mi incammino verso l’ufficio dove faccio ripetizioni e da lontano vedo già i bimbi che mi stanno aspettando con la schiena curva a causa della cartella troppo pesante. O forse a causa delle due ore di ripetizioni noiose che li aspettano.

I miei pensieri vengono interrotti da uno più urgente: devo attraversare la strada per allontanarmi dal negozio di quel signore pelato, quello che mi fa sempre commenti molto poco carini e mi fischia alle spalle come se fossi un cane. Come ogni lunedì a quest’ora è affacciato alla porta, intento a fumarsi la sua schifosa sigaretta, e come ogni volta, sembra aspettare proprio il mio arrivo, per penetrarmi da parte a parte con quello sguardo che sa di frustrazione e impotenza mascherate da arroganza.

Dicevo, mi allontano e vado sul marciapiede al lato opposto della strada affrettando il passo. Ma oggi, questa cavolo di pioggia ha creato una pozza enorme e non mi resta che passarci in mezzo inzuppandomi gli stivali. Ma manca poco, sono quasi arrivata alla fine della via e da lì tornerò indietro per entrare in ufficio.

E poi improvvisamente mi scatta qualcosa nel cervello: sono stufa di fare questo teatrino ogni settimana, sono stufa di iniziare il mio lavoro quasi con le lacrime agli occhi perché mi sento impotente e nauseata, sono stufa di non poter reagire, per paura che il mezzo uomo non si fermi soltanto alle parole ma passi agli atti. E allora decido di attraversare la strada proprio davanti a lui e lo guardo dritto negli occhi, mentre sta già ridendo con quel suo ghigno, tipico di chi pensa di avere tutto a sua disposizione e si prepara a dire le sue solite frasi piene di veleno.

Con passo deciso gli vado incontro ed è a questo punto che vedo, per la prima volta, l’incertezza nei suoi occhi e, quasi come se il mio metro e cinquanta di statura potesse incutergli paura, comincia ad indietreggiare e si fa piccolo piccolo di fronte a me. Mi guarda con aria perplessa mentre gli urlo in faccia tutto il mio dolore e gli dico che non sarebbe rispettoso fischiare nemmeno ad un animale.

Subito dopo me ne vado trionfante, consapevole che in realtà non ho compiuto chissà quale impresa. Ora tutti i lunedì Sergio, il mezzo uomo redento, mi aspetta sulla soglia del negozio per salutarmi in tono educato e chiedermi com’è andata la settimana.

Elisabetta Vanzini

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