L’arroganza del maschio

Siamo nel XII secolo a.C. circa, sulle coste dell’odierna Turchia.

Ilio è in fiamme, i Troiani dopo dieci anni d’assedio sono sconfitti. Le donne, ammassate negli accampamenti dei vincitori Achei, non riescono a respirare e non solo perché  l’aria è densa di fumo acre, a causa degli incendi,  ma perché pensano al loro futuro.

Regine o ancelle che siano, finiranno serve nelle case achee, concubine nei talami achei, odiate da mogli che si sentiranno messe da parte, costrette a subire la loro presenza e a condividere con loro il corpo dei propri uomini.

Saranno violate nel corpo e nello spirito e nessuno avrà pietà di loro. Non sanno ancora chi sarà il loro padrone, l’unica certezza è che nessuno avrà considerazione per la loro sorte.

Andromaca non riesce a respirare. Non sa che cosa sarà di lei, non sa in che terra andrà, non sa di chi sarà la schiava, ma soprattutto non sa che cosa sarà di Astianatte, il suo figlioletto.

Poi arriva Taltibio e glielo comunica: “Tuo figlio sarà precipitato dalle torri troiane…… Non stringerlo tra le braccia; sopporta coraggiosamente questi mali e non pensare di opporti, giacché non hai aiuto da nessuna parte…… Ti esorto a non resistere, a non fare alcunché di sconveniente, a non scagliare imprecazioni contro gli Achei. Se infatti dirai qualcosa per cui l’esercito abbia a sdegnarsi, questo tuo figlio non avrà né sepoltura né compianto…”

Andromaca: “O figlio tanto amato, morrai per mano dei nostri nemici….Ti ucciderà il valore stesso di tuo padre…. O figlio tu piangi! Comprendi la tua sventura ? Perché mi afferri con le tue mani e ti serri al mio peplo, come un uccellino che si ricoveri sotto le mie ali? Non verrà Ettore, dall’oltretomba, a portarti salvezza…. O tenero figlio! O soave profumo del tuo corpo! Invano questo seno ti nutrì in fasce! Serra le braccia intorno alle mie spalle e accosta la tua bocca alla mia!

O Elleni, che avete escogitato un supplizio degno di barbari, perché uccidete questo bambino che di nulla è colpevole?”

Ecuba, regina di Troia e moglie di Priamo, dopo aver creduto che sua figlia Polissena fosse stata posta a cura del sepolcro di Achille, scopre la cruda verità: è stata sgozzata sulla tomba di Achille, votata a un cadavere senza vita.

 

Siamo nel XX secolo

Sul finire della seconda guerra mondiale, i Russi che entrano in Germania e arrivano a Berlino, man mano che procedono, violentano e depredano.

In Giappone alla fine della seconda guerra mondiale andavano di moda le comfort women. Provenienti principalmente da Corea, Taiwan e Cina. Le stime variano tra le 20.000 e le 300.000 donne; in base alle testimonianze raccolte si reputa attendibile il numero di 200.000

Per rendere l’idea dell’entità del fenomeno e delle brutalità di cui soffrirono le donne, benché la logica sottesa a queste violazioni sia assai più grave delle dimensioni, si può provare a dare una misura approssimativa di quanto accadde nel sud-est asiatico durante la Seconda Guerra Mondiale. La maggior parte delle superstiti ha testimoniato (WCCWI, Inc. 2005) di aver subito da 5 a 20 rapporti sessuali al giorno (in alcuni casi fino a 30 violenze giornaliere), per un minimo di 5 giorni alla settimana per una media di 3-5 anni di detenzione. Calcolando le cifre minime di 5 stupri per 5 giorni, otteniamo l’agghiacciante risultato di 1.800 violenze carnali subite annualmente da una singola donna, che, contando i tre anni minimi di detenzione, diventano 5400 in totale.

La mancata assunzione di responsabilità politica e la discriminazione sociale determinarono che, nonostante la gravità degli eventi, si dovettero aspettare circa quarant’anni prima che queste donne uscissero dal loro silenzio e incoraggiassero le indagini sugli abusi subiti. Ciò accadde innanzitutto perché i governi coinvolti non considerarono di alcuna rilevanza politica il problema, e in secondo luogo perché le pesanti discriminazioni subite dalle sopravvissute alla fine del conflitto trasformarono la loro memoria da denuncia a confessione.

Senza continuare un elenco che forse non finirebbe mai, si può affermare che ovunque c’è una guerra lo stupro è a tutti gli effetti considerato uno strumento di belligeranza, dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri.

Per fortuna da tempo le donne indiane non vengono più immolate sulla pira del marito quando egli muore. Per fortuna da tempo in Cina non si bendano più i piedi alle donne fino a impedire la crescita ossea e a renderle storpie.

Ma nel mondo musulmano si muore ancora per una ciocca di capelli sfuggita al foulard e, in molti paesi, la testa coperta e delle vesti che infagottano non sono ritenute sufficienti a salvaguardare la purezza delle donne. Si pretende che nascondano anche il viso e parzialmente anche gli occhi: è come se si volesse negare loro un’identità e le si volesse relegare alla condizione di ombre.

In Afganistan le donne non possono più andare a scuola.

 

Siamo nel XXI secolo

In un luogo di lavoro dove la parità di genere non è garantita e a mansioni uguali corrispondono retribuzioni diverse si assiste spesso alla vergognosa promozione che vede favorito un uomo non perché sia il migliore ma semplicemente perché è l’uomo. Una donna per vincere il confronto con un uomo deve essere più preparata, più disposta a lavorare di più di quanto il contratto preveda, più creativa, più disponibile.

Perché la qualità non può semplicemente essere riconosciuta indipendentemente dal genere che la esprime?

Nell’occidente sviluppato, una cucina moderna e dotata di ogni comfort alle otto di sera è ancora deserta e inutilizzata.

Nel salotto una coppia guarda il telegiornale. Lui è tranquillo e attento alle ultime notizie, lei apparentemente pure. In realtà è leggermente inquieta: si sente in colpa, perché ancora non si decide al alzarsi e andare a preparare la cena.

Che cosa fa ritenere l’uomo autorizzato ad aspettarsi che a preparare la cena sia lei?

Perché l’uomo non si sente in colpa?

Perché persino il papa si è sentito autorizzato a usare l’espressione “chiacchiericcio da donne”?

Nuccia Pessina

Uomini e donne

Sulla violenza di genere

Al gruppo di Bollate, in conseguenza dei fatti recentemente accaduti, durante gli ultimi incontri si è parlato sulla violenza di genere e sugli stupri di gruppo.

Io penso sia una questione complessa in cui si intrecciano fattori diversi, alcuni individuali, alcuni sociali. Tre sono i presupposti che non vanno dimenticati, a mio avviso.

Il primo è che la violenza appartiene all’essere umano per natura; il secondo è che l’essere umano non vive come un anacoreta ma è immerso in un contesto sociale, di cui va cercando approvazione e da cui si aspetta riconoscimento; il terzo è che ogni azione viene compiuta alla ricerca del piacere.

È attraverso l’educazione che impariamo a controllare gli istinti, le pulsioni e i desideri e a dare loro un’espressione socialmente accettabile.

Secondo me, tale educazione al controllo manca, manca la condivisione di un modello umano e sociale consapevole che tale controllo è necessario.

Se parliamo di violenza di genere io credo che alla base ci sia la conquista da parte della donna di un ruolo sociale che le riconosce diritti sul piano giuridico e capacità apprezzabili in ogni ambito, magari diverse da quelle dell’uomo ma comunque preziose. L’uomo si sente sminuito, meno necessario, confuso e incerto su quale debba essere il suo nuovo contributo sociale. L’uomo ha perso potere, un potere che prima gli veniva riconosciuto a prescindere, per il fatto di essere un maschio, e che ora deve in un certo senso meritare. Dunque l’uomo ha paura.

A questo si aggiunge un cambiamento dei costumi sessuali, (qualcuno parla di liberazione io sarei più cauta nell’uso del vocabolo ) che non aiuta. La donna rivendica una parità di espressione sentimentale e sessuale paritaria e non è più disposta a sottostare all’egemonia dell’uomo. L’uomo si sente messo in discussione anche sul ruolo e sui comportamenti che attengono al rapporto di coppia. Dunque, di nuovo, l’uomo ha paura. E reagisce con la violenza.

Se a questo quadro aggiungiamo l’uso fuori controllo dei social media:

  • che danno anche ai bambini libertà di accesso a siti e contenuti pornografici (che farebbero arrossire i frequentatori di case di piacere di una volta);
  • che sono comunque basati su una rappresentazione dei ruoli sociali e sentimentali appartenenti a una cultura patriarcale, per usare un aggettivo gentile;
  • che sono anche caratterizzati da un generico ribellismo che fa credere ogni protesta legittima, giustificata e giustificabile,

otterremo a mio parere una parte della risposta.

Manca l’educazione sessuale, manca l’educazione sentimentale, ma soprattutto manca l’educazione in senso lato, un’educazione che insegni a raccogliere dati, informazioni che consentano di comprendere ciò che si legge, ciò che si vede, ciò che si ascolta, ciò che si vive, ciò che si desidera.

Uomini e donne

Il potere di generare

Chi è la donna nella mente di chi l’ammazza, da figlio o da compagno? Anche di questo si parlava nell’incontro del 30 marzo.

Io credo che all’origine della violenza contro la donna ci sia una questione di potere. Quale potere nel caso specifico? Quello di generare una vita.

Per millenni la donna ha partorito figli generati da un congiungimento carnale con l’uomo. Per millenni il controllo della fertilità è stato volto a massimizzare la fecondità del corpo femminile.

L’aumento demografico nel XVII secolo divenne addirittura un requisito politico auspicabile per aumentare o sostenere la potenza di uno stato (popolazionismo). Solo dalla seconda metà dell’ ‘800 il controllo delle nascite ha assunto un carattere limitativo, esercitato con l’interruzione del rapporto sessuale, socialmente diffusa e culturalmente riconosciuta tanto da essere indicata da Freud come portatrice di nevrosi.

Si è passati dal figlio come possibile conseguenza del desiderio sessuale dell’uomo per una donna, e della donna per un uomo, al figlio come oggetto della volontà cosciente.

Poi sono arrivati gli anticoncezionali. Operando la parziale disgiunzione tra atto sessuale e procreazione, la tecnica medica ha consegnato alle donne il potere di decidere quando e se fare un figlio, rendendo potenzialmente ininfluente la volontà dell’uomo.

Poi è arrivata la fecondazione in vitro, con la quale il testimone del potere di generare è passato nelle mani della tecnica medica. Si è così consumata pienamente la divaricazione tra atto sessuale e procreazione, consegnando alla donna la possibilità di procreare oltre ogni limite.

Tutto questo non può non avere inciso e tuttora incidere sulla cultura della maternità e della genitorialità, dell’amore e del rapporto di coppia e delle relazioni tra genitori e figli.

Io non ho le competenze per spiegare come tali cambiamenti culturali incidano sulla psicologia individuale degli esseri umani contemporanei, ma so per certo che non possono non incidere.

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Nella tana della notte

Era una sera di maggio 2016, era da poco passata la mezzanotte, stavo rientrando a casa dopo una serata divertente passata a casa di un’amica che abita non lontano da me. Faceva caldo ed era piacevole fare una passeggiata fino a casa con il buio e la tranquillità delle strade che a Milano durante il giorno sono sempre trafficate e rumorose. La città era silenziosa e mi rilassava passeggiare ascoltando il silenzio della notte e lasciandomi trasportare dai miei pensieri. Di giorno non mi concedo mai un momento di pace, la vita di Milano è frenetica e non si riesce mai a fermarsi e donarsi del tempo per divagare nei propri pensieri. La notte invece è un momento magico in cui tutto si ferma e ci si permette di ascoltarsi davvero.

Arrivai al portone del mio palazzo, non trovavo le chiavi, cercai meglio nella borsa e dopo averle trovate aprii ed entrai nell’atrio. Salii le scale e arrivai all’ascensore. Nell’attesa, mi venne spontaneo guardare verso il portone poiché essendo a vetri si riesce a vedere fuori. Vidi la testa di un uomo che mi stava osservando e che appena capí di essere stato notato si ritrasse. Quello che provai in quel momento fu paura paralizzante. Era arrivato l’ascensore nel frattempo ma non so perché aspettai qualche secondo prima di entrare e salire, ero come paralizzata. Poi fu come se il mio spirito di sopravvivenza mi chiamasse, cosi mi ripresi e scappai in ascensore premendo insistentemente il tasto del mio piano, come nella speranza di velocizzare la chiusura delle porte e l’arrivo nella mia abitazione. Mi precipitai in casa e corsi subito da mia madre che stava già dormendo in camera sua per raccontarle che c’era un uomo fuori dal nostro palazzo. Ora ero al sicuro, ero a casa, la porta era chiusa a chiave ed ero con mia madre. Quella notte dormii nel letto matrimoniale con lei.

Ad oggi non so se quell’uomo sia rimasto li sotto casa mia nascosto come un predatore ancora per molto o se se ne sia andato subito dopo. Non so cosa sarebbe successo se io ci avessi impiegato due secondi in più a trovare le chiavi di casa. Posso, per fortuna, solo immaginarlo, e per meccanismo di difesa ho rimosso il suo volto. Ricordo solo la scena globale, ma ne ho rimosso i particolari.

Purtroppo non per tutte le donne finisce cosi una vicenda del genere e si ritrovano nel giro di due secondi dall’essere felici e spensierate in una calda serata primaverile al diventare prede di un uomo acquattato nella tana della notte in attesa di calpestare e traumatizzare un’esistenza.

Vorrei che ogni essere umano potesse sentirsi sicuro di tornare a casa ad ogni ora del giorno e della notte, senza la paura di predatori in cerca di prede. Vorrei che ai predatori venisse insegnato che il mondo non è una caccia, non è fatto di predatori e prede ma di Esseri Umani che in quanto tali devono essere Riconosciuti e Rispettati.

Arianna Picco

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Precarietà

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Giuseppe Ungaretti

La Violenza mi rimanda al senso di Precarietà personale provato ogni giorno dalla vittima di abuso.

Paura costante di essere picchiata, umiliata e abusata. Una donna vittima dell’ira feroce del suo compagno vive continuamente in uno stato di angoscia e d’incertezza, viene annullata dalle parole e dai gesti aggressivi di chi dice di amarla, ma che fa crescere in lei insicurezza e timore di dire o fare qualunque cosa, paura di ribellarsi, di chiedere aiuto a qualcuno, paura di difendersi da chi dovrebbe proteggerla, causando un suo progressivo isolamento dal mondo intero, fagocitata dal buco nero della Violenza.

Insicurezza è ciò che sente una ragazza che torna a casa da sola alla sera tardi con il buio e le strade deserte, percorrendo gli ultimi metri che la dividono dal suo portone di Casa, sperando che quei secondi passino in fretta e di potersi rifugiarsi al più presto tra le mura della sua abitazione.

Timore è ciò che prova una donna che troppe volte si sente fare “complimenti” squallidi da un branco di uomini che bevono la loro birra fuori da un bar e che rinforzano l’un l’altro i loro comportamenti dominanti.

Inquietudine è ciò che prova una ragazzina appena raggiunta la pubertà che si ritrova a doversi difendere da sola da uomini che come stormi di avvoltoi si fiondano sulle sue foto sui social network con commenti di cattivo gusto.

Terrore è ciò che sente una donna seguita fin sotto casa da un uomo predatore che le causa un trauma tale da rovinarle l’esistenza, perché nulla per lei sarà più come prima.

E violenza che provoca un ulteriore trauma è la furia dei commenti a posteriori sul web carichi di rabbia e odio, oppure di indifferenza, nei quali persone esterne alla vicenda trovano delle giustificazioni all’accaduto: “poteva prendere un taxi anziché tornare a casa a piedi”, “non doveva andare in giro cosi “scosciata””, “non doveva tornare a casa a quell’ora”, rendendosi cosi complici dell’abusante e alimentando un pensiero distorto secondo cui possano essere lecite delle giustificazioni alla violenza.

Angoscia è ciò che prova una donna vittima di stalking, costretta a cambiare indirizzo e numero di telefono perché il suo ex le ha reso la vita un Inferno con pedinamenti, appostamenti e minacce  dopo che lei ha trovato la Forza di lasciarlo.

Perdita dell’esercizio del diritto all’autodeterminazione e del senso di autoefficacia personale è ciò che prova una moglie il cui marito non le permette di lavorare per esercitare un controllo ossessivo su di lei e, “generosamente”, provvede ad ogni spesa economica.

La violenza è tutto questo e non solo, essa è radicata nei gesti quotidiani di sopraffazione e negli stereotipi di genere ancora presenti in un mondo che si considera tanto moderno per certi versi ma che è ancora tanto retrogrado per altri aspetti e che produce una progressiva assuefazione alla discriminazione e all’abuso, facendo apparire come normali frasi o atteggiamenti di prevaricazione nei confronti della donna perché vissuti ormai come quotidiani e quindi banalizzati, rinforzati dalla pubblicità, dai programmi televisivi e da alcuni politici.

Il principio per il quale alcuni atteggiamenti e comportamenti verso il genere femminile risultano leciti e giustificabili è sbagliato alla base! Non sta a noi donne dover dimostrare il contrario, ma è l’intera società a dover insegnare l’amore ed il rispetto verso qualunque essere umano in quanto tale.

Che si tratti di violenza psicologica, fisica, sessuale o economica, è comunque  Violenza quella per cui si smette di riconoscere l’Altro come una Persona e lo si calpesta per saziare i propri bisogni personali in maniera egoistica e arrogante, riducendolo a mero Oggetto.

Arianna Picco

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Una vita mancata

Le mani volavano sulla tastiera producendo un’armonia e un ritmo non arginabili. Tutti nella stanza smisero di fare quel che stavano facendo e non poterono far altro che lasciarsi travolgere dalla musica.

Io ero senza parole. Era mia madre la donna che suonava. Ma io neanche sapevo che sapesse suonare. Come era possibile?

Quando finì l’applaudirono a lungo, noi bambini riprendemmo a giocare, di lì a poco fu servita la torta di compleanno, vennero aperti i regali e poi ognuno tornò a casa.

Strada facendo interrogai mia madre con gli occhi e con le parole, ma non ottenni risposta. Solo un lungo silenzioso pianto, irrefrenabile; le lacrime le rigavano il volto ma non fece niente per nasconderle o per asciugarle. Entrammo in casa e il pianto continuò.

Era strano. Non il fatto che piangesse. Piangeva sempre, ogni giorno, silenziosamente, copiosamente. Ma, subito prima che mio padre rientrasse, si asciugava gli occhi, si sciacquava il viso e quando lo accoglieva sembrava calma, normale. Questa volta non fece niente per nascondersi, lasciò che la vedesse.

Mio padre chiese spiegazioni ma da lei non ne arrivarono, era come se mio padre nemmeno avesse parlato. Era come se non ci fosse.

Fui io a raccontare come avevamo passato il pomeriggio e come lei avesse suonato il piano, e come fosse stata brava e applaudita, e del mio stupore e dell’ammirazione che provavo per lei, e delle domande che mi ero fatto senza trovare risposta.

Mio padre la guardò a lungo senza parlare.

Quella sera mangiammo in pizzeria ma senza la mamma. Per un mese non la vidi. La porta della sua camera era chiusa. Mentre ero a scuola preparava i pasti e accudiva la casa, ma era diventata  invisibile. Io chiedevo e chiedevo, ma le risposte non arrivarono.

Col tempo tutto tornò normale, Ogni tanto tornai a chiedere ma inutilmente.

Crebbi un pochino, imparai a usare il computer e a navigare in internet. Imparai a fare ricerche. Di sito in sito, di link in link, arrivai alla verità. Mia madre era stata una grande pianista, una promessa internazionale secondo molti, ma a vent’anni aveva abbandonato le scene. Si era sposata.

Sapete una cosa? Io non piango mai. Per favore non chiedetemi perché.

Angela Pessina

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Non posso dimenticare

Io non posso perdonare, perché non posso dimenticare. Non posso dimenticare come hai distrutto la spensieratezza e la leggerezza che avrebbe dovuto accompagnare i miei vent’anni.

Non posso dimenticare come hai demolito quel senso di fiducia nell’altro che, forse ingenuamente, da sempre mi ha contraddistinta.

Non posso dimenticare come, attraverso il tuo narcisismo, hai deciso di annullare il mio valore, considerandomi un oggetto di tua proprietà, privandomi della libertà di scegliere.

Non posso dimenticare come oscillavi tra il chiedermi aiuto disperatamente e il vomitarmi addosso tutta la tua rabbia, come se fossi io la causa del tuo tormento.

Non posso dimenticare il mio desiderio di urlare e di come questo non sia mai stato ascoltato e compreso da nessuno, poiché nessuno poteva garantirmi una protezione dal tuo delirio.

Non posso dimenticare come invece sia stato chiesto a me di cambiare, di nascondermi, di andare lontano, di modificare le mie abitudini e sparire, come se fossi io quella sbagliata.

Non posso dimenticare gli sguardi attoniti delle persone che mi circondavano e la facilità con cui hanno deciso di voltarsi dall’altra parte.

Non posso dimenticare gli occhi preoccupati di mia madre, che mai sono stati così in grado di comunicare, pur senza dire una parola.

Non posso dimenticare la paura, non ci riesco.

L’unica cosa che posso fare invece è imparare a convivere con la mia sofferenza, guardandola dritta in faccia ed impedendole di disintegrarmi ogni volta che ci penso, perché nulla ormai si può fare rispetto a quanto già accaduto.

Federica Turolla

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Mi chiamo Alessandra e sono una femmina

Mi chiamo Alessandra e sono una femmina.

Non mi sono mai sentita completamente a mio agio con il mio essere femmina, come se ci fosse qualcosa di fuori posto. Non ho mai amato il rosa, non so truccarmi se non con un accenno di matita e mascara e non amo fare shopping. Da bambina giocavo con le macchinine più che con le barbie, anche se ne ho comunque qualcuna a casa. Ho sempre avuto più amici maschi che amiche femmine, non per principio, ma perché mi sentivo più in sintonia, più simile. Mi piaceva fare sport, giocare a calcio e a pallavolo in cortile, organizzare serate giochi in scatola, andare al bowling, giocare a bocce in spiaggia. Qualche sera d’estate ancora oggi ascolto le mie amiche parlare di prodotti di bellezza, trucchi e maschere per capelli e vivo un senso di inadeguatezza, come se mi sentissi estranea a un mondo a cui forse appartengo dalla nascita, come per diritto, ma di cui non capisco le regole e le forme.

Guardo con ammirazione mascherata la femminilità di alcune donne, che sanno muoversi con sensualità e dolcezza, senza mai risultare volgari, mentre io mi sento così poco aggraziata. Qualche giorno fa una ragazza con cui lavoro mi ha detto ”Ale ma tira su quei piedi, come cammini? Li stai rovinando quei poveri stivali!”. Mi sembra che il femminile e la femminilità abbiano un segreto a cui non riesco ad accedere, un po’ per scelta, un po’ per incapacità, un po’ come se ci fosse una serratura di cui non possiedo la chiave.

Sono femmina e mi piacciono tante cose che molti definiscono da maschio. Scherzando in famiglia, mi è sempre stato raccontato l’aneddoto che il mio papà, che ha sempre voluto figli maschi, ha fatto due figlie femmine che sembrano due maschi (soprattutto per il tifo calcistico). Ma poi, in verità, non ho mai capito perché ci fossero cose che si definiscono da maschio e altre da femmina, come se ci fosse una particolare predisposizione neuronale per le macchine se sei maschio e per le bambole se sei femmina.
E in fondo, a pensarci bene, quello che mi piace è trascorrere del tempo giocando, leggendo, guardando film, parlando di viaggi e di mostre e proprio non saprei incasellare questi hobby in fiocchi azzurri o rosa.

So che mi chiamo Alessandra e che sono femmina, del resto, non me ne è mai importato granché. Sento però dentro di me una cosa che riconosco essere tipica delle donne, ed è la paura. Ho paura di notte, quando cammino per le vie della città e provo a distrarmi con dei diversivi, cercando però di rimanere sempre all’erta nel caso arrivasse qualcuno. Ho paura quando sono a casa da sola la sera e sento un rumore sospetto. Ho paura quando sono alla pompa di benzina e sono sola, le chiavi servono ad aprire lo sportello del carburante e io non potrei scappare.

Ho paura, ho paura quando…non so, so che c’è sempre una paura di sottofondo che mi accompagna, come un fedele alleato che rimane nell’ombra e che emerge solo in alcuni momenti significativi, ma in fondo non ti abbandona mai.

Non ho paura perché sono Alessandra. Ho paura perché sono femmina.

Non mi piace giocare a calcio perché sono un maschiaccio, ma perché sono Alessandra. Non mi piace un look acqua e sapone perché sono poco femminile, ma perché sono Alessandra. Non amo giocare a bocce in spiaggia perché sono come un maschio, ma perché sono Alessandra.

Ma ho paura per strada non perché sono Alessandra, ma perché sono femmina. E questo mi fa arrabbiare.

Lo do per scontato, come se fosse normale vivere così e molto spesso mi dimentico di interrogarmi se è davvero così tanto normale vivere così.

Alessandra Messa

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Il lunedì della svolta

È un lunedì freddo e lento come tanti altri lunedì d’inverno, con l’unica differenza che è da tre giorni che piove incessantemente. Mi incammino verso l’ufficio dove faccio ripetizioni e da lontano vedo già i bimbi che mi stanno aspettando con la schiena curva a causa della cartella troppo pesante. O forse a causa delle due ore di ripetizioni noiose che li aspettano.

I miei pensieri vengono interrotti da uno più urgente: devo attraversare la strada per allontanarmi dal negozio di quel signore pelato, quello che mi fa sempre commenti molto poco carini e mi fischia alle spalle come se fossi un cane. Come ogni lunedì a quest’ora è affacciato alla porta, intento a fumarsi la sua schifosa sigaretta, e come ogni volta, sembra aspettare proprio il mio arrivo, per penetrarmi da parte a parte con quello sguardo che sa di frustrazione e impotenza mascherate da arroganza.

Dicevo, mi allontano e vado sul marciapiede al lato opposto della strada affrettando il passo. Ma oggi, questa cavolo di pioggia ha creato una pozza enorme e non mi resta che passarci in mezzo inzuppandomi gli stivali. Ma manca poco, sono quasi arrivata alla fine della via e da lì tornerò indietro per entrare in ufficio.

E poi improvvisamente mi scatta qualcosa nel cervello: sono stufa di fare questo teatrino ogni settimana, sono stufa di iniziare il mio lavoro quasi con le lacrime agli occhi perché mi sento impotente e nauseata, sono stufa di non poter reagire, per paura che il mezzo uomo non si fermi soltanto alle parole ma passi agli atti. E allora decido di attraversare la strada proprio davanti a lui e lo guardo dritto negli occhi, mentre sta già ridendo con quel suo ghigno, tipico di chi pensa di avere tutto a sua disposizione e si prepara a dire le sue solite frasi piene di veleno.

Con passo deciso gli vado incontro ed è a questo punto che vedo, per la prima volta, l’incertezza nei suoi occhi e, quasi come se il mio metro e cinquanta di statura potesse incutergli paura, comincia ad indietreggiare e si fa piccolo piccolo di fronte a me. Mi guarda con aria perplessa mentre gli urlo in faccia tutto il mio dolore e gli dico che non sarebbe rispettoso fischiare nemmeno ad un animale.

Subito dopo me ne vado trionfante, consapevole che in realtà non ho compiuto chissà quale impresa. Ora tutti i lunedì Sergio, il mezzo uomo redento, mi aspetta sulla soglia del negozio per salutarmi in tono educato e chiedermi com’è andata la settimana.

Elisabetta Vanzini

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Rispetto e cura

Non sono una bambola, non sono qui per soddisfare esclusivamente le tue voglie, io non sono tua, non voglio essere il tuo sfogo, ma neanche la tua roccia o la tua ancora di salvezza. Io voglio che ci salviamo insieme. Non voglio essere la tua stampella emotiva, camminiamo insieme, uno accanto all’altra con le nostre fragilità e difficoltà.

Non sono perfetta, non cucino bene, non sono sempre allegra, ho i miei difetti, ma voglio che tu mi accetti per quel che sono. Perché questa sono io e io non sono sbagliata.

Aiutami a rispettarmi e io ti aiuterò a rispettare te stesso. Salviamoci insieme, io ti tenderò la mia mano, ma non dovrò essere io a trascinarti a galla, anche tu dovrai nuotare con me perché abbiamo bisogno di avere rispetto e cura l’uno dell’altra.

Asia Olivo

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