Come fa a chiamarmi papà?

Un ricordo indelebile affiora nella mia mente: mia madre, quando mi raccontò il giorno della mia nascita, mi disse che mio padre era lì presente accanto a lei, felicissimo di prendermi in braccio e coccolarmi. Un ricordo che da una parte mi riempie di gioia, dall’altra mi rattrista tantissimo, catapultandomi nel presente.

Anno 2010, due mesi dopo il mio arresto la mia compagna diede alla luce mio figlio, un evento speciale, meraviglioso, unico… beh, a me è stato negato… per colpa mia. La cosa che mi ha procurato tanto dolore è che in quel preciso momento non potevo essere lì per gioire insieme alla mia compagna di nostro figlio. La sua nascita mi ha spalancato un mondo che non credevo esistesse, proprio come mi aveva detto mia madre a proposito di mio padre.

La prima volta che ho potuto vederlo, toccarlo, baciarlo, coccolarlo è stato dopo sei mesi dalla sua nascita. L’incontro fu straordinariamente bello, sembrava quasi stessi sognando, tanto forte era l’emozione, scoppiai in un fiume di lacrime che bagnarono il viso del piccolo. La gioia di prenderlo in braccio è stata fantastica, indimenticabile e ancora oggi quando la vivo, mi riporta al passato, a vivere ciò che ha vissuto mio padre. Sono consapevole che la relazione con mio figlio inizia con un distacco assordante, prolungato nel tempo per via della mia carcerazione.

Non vi è giorno che non pensi a lui e alle mie mancanze nei suoi confronti, emotive e fisiche, che non mi senta in colpa. Spesso mi domando quanto le mie mancanze di padre influiscano in quel piccolo ometto.

Un figlio non dovrebbe mai vivere una situazione come questa che per vedere suo padre deve varcare le mura di un carcere. Quando viene a trovarmi l’intensità è fortissima, anche se il tempo che trascorriamo insieme è poco e mi rimane sempre una parola non detta. Ma durante l’incontro sento tutto il suo amore, l’affetto e la gran voglia di vivermi. Mi sono accorto della sua crescita facendo riferimento al tavolino dei colloqui come misura della sua altezza. Vorrei poter entrare nella sua testolina per comprendere come quel piccolo ometto può sopportare tutto questo e mostrarmi tanto affetto e amore nonostante la mia assenza.

L’importanza fondamentale è quella di avere una compagna che in mezzo a tanta sofferenza non perde giorno per ricordare a mio figlio la figura del padre e per questo gliene sono e sarò sempre grato. Mi rendo conto della difficoltà della mia compagna di farlo crescere il più sereno possibile, cercando di non fargli pesare troppo la mia condizione oggettiva e di trasmettergli tutto l’amore che non riesco a donargli.

Purtroppo è una presenza riportata, non reale. Mi chiedo come mio figlio riesca a chiamarmi papà, vista la mia forzata assenza. Questo però da una parte mi inorgoglisce, dall’altra mi distrugge perché non gli ho dato nulla di quello che un padre sogna di dare al proprio figlio: la sua presenza, l’amore, la guida in un cammino positivo e costruttivo per se stesso e per la società. Non passa giorno che non mi chieda se potrà mai perdonarmi per tutto ciò.

Non posso saperlo, però cercherò, nei limiti di quanto mi verrà concesso, di colmare il vuoto di questi anni d’assenza fisica ed emotiva. Sicuramente non credo di potere risolvere tutti i traumi che la situazione prolungata ha creato, ma se potrò avere un’opportunità di un rapporto più continuativo, lo dedicherò esclusivamente a mio figlio e alla mia compagna, la mia famiglia, la mia luce, la mia speranza.

Rosario Curcio

Genitori e Figli

Un padre e un figlio

Purtroppo, nel mio lontano passato, tra tutte le nefandezze che ho fatto, ho trovato pure il tempo e l’egoismo di mettere al mondo un bambino che, quando è nato, oramai io ero in carcere da quattro mesi. La prima volta che l’ho visto aveva tre mesi: mia moglie l’ha portato presso l’aula bunker di Firenze, dove stavo facendo uno dei miei tanti processi. Mi ricordo che i carabinieri che ci scortavano all’aula bunker mi avevano concesso di prenderlo in braccio dentro la gabbia, ma io mi sono rifiutato perché non volevo vedere mio figlio dentro quella gabbia. Ho preferito uscire le braccia tra le sbarre e toccargli la tenera testolina.

Da quel momento ho iniziato a vederlo, quando era possibile, nelle varie carceri italiane in cui ero recluso. Nel frattempo, il bambino cresceva e io, da irresponsabile, non capivo cosa potesse realmente servire a quel bambino perché ero preso dai miei malaffari.

Le cose sono cambiate quando il bambino ha iniziato a fare delle domande: mi chiedeva come mai mi trovavo in carcere e se era vero quello che aveva appreso a scuola, ovvero che avevo ucciso delle persone.

Io, che ero cresciuto in un ambiente con la regola di tenere tutto segreto, figuriamoci se potevo parlare con un bambino degli orrori che avevo commesso, così, con l’arroganza e la presunzione di essere suo padre, gli ho risposto che tutto quello che aveva sentito su di me era una menzogna perché c’era tanta gente cattiva che ce l’aveva con me e che, in ogni caso, lui non doveva parlare più di queste cose. Da quel momento, le cose sono sempre peggiorate con mio figlio: tutte le volte che veniva a colloquio era un litigio continuo perché non voleva ascoltare minimamente quello che gli dicevo.

Avrei voluto che qualcuno mi aiutasse a far crescere mio figlio. Nell’inconscio sapevo che io non avevo gli strumenti per farlo come poi ho visto che fa il Gruppo della Trasgressione, che aiuta a prendere coscienza i detenuti che sono disposti a rivedersi.

Un giorno, durante un colloquio l’ho rimproverato perché non era andato a scuola. Mi ha risposto: “Ma tu cosa vuoi da me? Chi sei? Cos’hai fatto per me?”. Quelle parole mi hanno stordito, ma sono servite a farmi chiedere cosa significasse avere un figlio e mi hanno svegliato dal sogno che aveva preso il posto di una realtà che non avevo mai conosciuto. Ho iniziato a chiedermi spesso perché mio figlio fosse così scontroso, presuntuoso, arrabbiato verso tutto quello che lo circondava. Ma forse il motivo di tutti questi comportamenti non era a lui che dovevo chiederlo, bensì a me stesso.

Ho continuato a farmi delle domande, lunghe riflessioni e ricerche introspettive, cercando di recuperare quella parte di me soffocata ma sana, che ho tenuto abissata per tanti anni. Dopo un’attenta valutazione sono arrivato alla conclusione che era meglio raccontargli chi ero stato veramente, pur sapendo che rischiavo di non essere compreso o di produrre un effetto boomerang.

E invece lui mi ha risposto con un grande abbraccio e, piangendo, mi ha detto che era fiero di avere un padre che aveva saputo riconoscere i propri errori e che oggi è diventato capace di vivere quei valori che in passato non sentiva per nulla.

Grazie al rapporto con mio figlio, oggi sono riuscito a capire quali possono essere i miei limiti. Riconosco che fare il padre, nella mia situazione di detenzione, è molto difficile anche perché non ho avuto nessuna esperienza paterna. Solo da una decina d’anni sono riuscito a capire il giusto significato del mio ruolo di padre. Attualmente nei riguardi di mio figlio mi sento effettivamente legato sia come padre sia come un amico sincero su cui lui potrà fare affidamento in qualsiasi momento lo vorrà.

Pasquale Trubia

Genitori e Figli