Vi presento Cesar

Vi racconto l’impegno e i risultati di una settimana con Cesar, un “pischello” romano che ama la musica, perché questo modo di procedere costituisce un esempio pratico degli obiettivi e dei metodi che caratterizzano il Reparto La Chiamata.

Era il 25 Maggio 2022 e il Gruppo della Trasgressione, insieme ai detenuti, si trovava a Roma presso il Senato della Repubblica, dinanzi all’allora Ministro della Giustizia Marta Cartabia, per il Convegno “Una mappa per la pena, ridurre la libertà per ampliarla”.

Alla fine del Convegno e prima di dirigerci verso il ristorante per la cena, insieme a Rosalia decidiamo di condividere un taxi per un rapido passaggio dall’hotel in cui alloggiavamo. E in quel momento ha inizio l’intreccio delle nostre strade con Cesar.

Accomodate nel taxi, ci ritroviamo nel caos dell’ora di punta, l’intenso traffico si mescola alla bellezza e all’imponenza dei monumenti romani. Alla guida, un signore di mezza età, che con garbo ci intrattiene con alcune poesie da lui scritte. Il nostro è uno scambio piacevole ed arricchente ma sentiamo che qualcosa lo tormenta.

È un padre addolorato e impotente per le possibili conseguenze di azioni del figlio, agli inizi di un’avventura in percorsi devianti. Ci salutiamo lasciandogli i riferimenti del Gruppo della Trasgressione e nel cuore la speranza di non incontrare suo figlio Cesar come detenuto, semmai come libero cittadino portatore di qualche ricchezza.

È passato quasi un anno da quel giorno e la settimana scorsa, durante uno degli incontri, abbiamo visto il volto di Cesar sullo schermo. Si era collegato via zoom, anche se non come libero cittadino.

Durante l’incontro (l’ordine del giorno era sul Reparto La Chiamata), vengono condivise riflessioni sui sentimenti di invincibilità e di impotenza e su come ridurre i danni e gli effetti distruttivi dell’oscillazione tra questi due sentimenti.

Il giovane ed estroverso ragazzino romano, di sua iniziativa, interviene nel discorso sostenendo che nel mezzo di tale oscillazione, esiste un fulcro centrale di cui bisogna tener conto. Ascolto l’impegno e la foga combattiva con cui parla e comincio a chiedermi come canalizzare questa sua energia oppositiva in forme più appropriate e gratificanti, per permettergli di sentirsi riconosciuto ed apprezzato.

In sintonia con gli obiettivi e lo stile del gruppo, e soprattutto con il lavoro pratico che verrà svolto al “Reparto la Chiamata” del carcere di San Vittore, propongo a Cesar un lavoro da svolgere “a 4 mani”, con l’intento di allontanarlo da azioni lesive e di canalizzare le sue energie in qualcosa di positivo che possa anche metterlo in contatto con le sue emozioni.

Facendo leva sulla sua passione per la musica, gli propongo la stesura di un testo che abbia come traccia di base: “Insignificanti o padroni del mondo”. L’obiettivo finale è trasformare il testo in una canzone.

Cesar accetta la proposta e inizia a scrivere, rapito dal flusso di pensieri che prendono forma e riempiono le sue pagine bianche.

Condividiamo riflessioni, mi permette di conoscere la sua storia ed il suo vissuto, sembra un fiume in piena ed in pochissimo tempo, la stesura del testo è pronta.

Leggendone il contenuto, emerge chiaramente il tema delle “micro scelte”, quelle piccole scelte che apparentemente non sembrano così gravi agli occhi di chi le commette, piccole scelte costanti e quotidiane che possono condurre l’individuo verso il punto di non ritorno, scelte che si fanno senza aver consapevolezza delle conseguenze future e che creano le basi, come fossero pezzi di un puzzle, verso la “macro scelta” che andrà a restringere, come in questo caso, la libertà dell’individuo.

Il testo, infatti, parla del passato di Cesar, delle scelte fatte che lo ergevano verso quelle sensazioni di “onnipotenza” e che, nello stesso tempo, lo hanno condotto verso il presente, la detenzione.

Uno stato di reclusione in cui convive con estenuanti emozioni, nella costante ricerca di un’identità e nell’attesa di quel desiderato futuro. Un futuro senza catene, da afferrare con grinta quasi famelica e con la consapevolezza del bisogno di essere sostenuto in questo nuovo cammino.

In poco meno di una settimana, con determinazione e tenacia, Cesar trasforma il testo in canzone e raggiunge l’obiettivo concordato.

Non nego che ho avuto delle difficoltà a comprendere alcune parti impregnate di “slang” giovanile. Non volevo assolutamente alterare il suo brano, ma nello stesso tempo sentivo l’esigenza di tradurne alcune parti per renderlo comprensibile a tutti, soprattutto ai non più tanto giovani come me. Di seguito il testo:


      Me-stesso

Tu non lo sai che vuol dire avere fame, non cambia nulla e tutto resta uguale.
Mi sono messo sotto, ho preso i primi grammi con in testa un obiettivo: non vivere drammi.

Tiro avanti, vogliono arrestarmi. È insignificante ma questo Stato schiaccia.
Sputo veleno e spacco (realizzo) questa traccia.
10k (10 mila euro) in una serata, mi sentivo up, foga esagerata ma poi vai in down, basta una retata.

Il carcere uccide, mette il culo a terra e penso solo ad uscir dalla merda.
Ho dormito per strada, lontano da casa.
Mamma ci pensa (mia mamma pensa alle conseguenze delle mie azioni) ma io cerco rispetto.

Cammino di notte cercando me stesso.
Non dico cazzate. Stringo il crocifisso, passo le notti a pensare, aspettare recluso, come se fosse colpa di qualcuno, cercando la svolta ed un nuovo futuro.
La fame mi mangia, ansia che non passa, mi guardo dentro… che cosa mi resta?

Fanculo lo Stato, canto per protesta!
Fratelli bucati rinchiusi in festa, almeno non penso, almeno non cado.
Ognuno ha il suo ruolo, ed io non sarò mai palo.

Voglio una figlia che abbia suo padre, che viva bene e non di speranze riposte male in risposte vaghe.
Se sbagli paghi, se combatti vivi!
Se resti mi ami, se vai non ti importa!

Sai che cerco? cerco una risposta ma forse è meglio non sentire.
Sono incazzato e lo spacco sto beat (realizzo questo ritmo),
sconto la pena poi droppo una hit (lancio un nuovo album).

Mi preparo al peggio, infami e pentiti che parlano dietro, poi vorranno il feat (una collaborazione).
Sputo ste barre lo faccio nel chill (in tranquillità) ma in testa ho la guerra, colleziono kill (omicidi).
Non vince il più forte ma quello più duro, chi usa la testa e migliora il futuro.

Ho la capa tosta e tu vienila a rompere, step by step, non potrò più scendere.
Vendevo pezzi e sfamavo cracker (tossici di crack),
contro me stesso ma sono Mayweather (pugile statunitense).

Nel mio futuro non voglio catene.
Ho la testa leggera, non posso cadere,
e le palle pesanti tu vienile a reggere (serve aver coraggio e tu sostienimi).


A conclusione di questo lavoro, non possiamo prevedere la costanza che avrà Cesar nel frequentare il gruppo, ma sono certa che sarebbe per lui una grande occasione di scambio e di crescita. L’eterogeneità dei componenti, la condivisione delle esperienze e delle emozioni consegnate dai detenuti che frequentano il gruppo da più tempo, la sollecitazione a interrogarsi insieme, la realizzazione di prodotti creativi e stimolanti all’interno della “Palestra della creatività” potrebbero giovare all’evoluzione di Cesar, al riconoscimento delle sue azioni e, soprattutto, fungere da positivi conduttori che potranno sostenerlo durante la costruzione del suo futuro.

Katia Mazzotta e Cesar

Reparto La Chiamata   – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Una mappa per la pena

Come membro del Gruppo della Trasgressione e laureanda in Psicologia Clinica, vorrei condividere la mia esperienza all’interno del Gruppo.

Spesso, le domande che ci vengono poste da chi non conosce il gruppo o da chi si sta approcciando per le prime volte sono:

  • “Ma cosa si fa all’interno di questo gruppo?”
  • “in che modo cercate di rieducare un detenuto che ha commesso dei crimini efferati?”

Domande comprensibili, le stesse che mi ponevo i primi giorni in cui sono approdata al gruppo. Un gruppo “trasgressivo” composto da detenuti, ex-detenuti, studenti, familiari di vittime di reato e comuni cittadini.

La presenza del Gruppo della Trasgressione, all’interno delle tre carceri milanesi di Opera, Bollate e San Vittore, è un “Centro-Studi”, un laboratorio sperimentale. Siamo tutti intorno ad un tavolo e attraverso il confronto, la partecipazione attiva di ognuno, ci si chiede come si diventa un criminale e quali sono i meccanismi che agiscono nella mente del soggetto che delinque. Quindi non si analizzano soltanto i fattori socio-culturali ma, come e in che modo micro e macro scelte personali contribuiscono al divenire dell’identità deviante e della rete di relazioni e modelli di comportamento che la consolidano.

Il lavoro che viene effettuato è costituito dal “materiale emotivo” che scaturisce dalle riflessioni e dal ripescaggio di ricordi antichi; si torna indietro nel passato, ai dolori, ai conflitti, alle fantasie, per raggiungere certe emozioni, risentirle, riviverle, per poi rivalutarle, dopo il confronto e lo scambio con gli studenti e soprattutto con le vittime di reato, attraverso dei percorsi di giustizia riparativa.

Grazie a questo lavoro sistematico i detenuti possono comprendere e riconoscere il male e l’abuso che hanno fatto all’altro; diversamente è come se non ne avessero consapevolezza. Infatti, ciò che emerge, nella maggior parte dei loro racconti, è un progressivo allontanamento dall’altro e un congelamento della relazione con la vittima durante l’atto criminale, un intorpidimento mentale, un graduale ottundimento della coscienza e una assuefazione al male (vedi Hanna Arendt) che è difficile possano essere superati con l’isolamento. Riteniamo sia invece necessario sviscerare le esperienze personali e farle diventare motivo di confronto per una crescita bilaterale di autori di reato e vittime.

All’interno del nostro “centro-studi” al detenuto non viene chiesto il pentimento ma un percorso per raggiungere strati sempre più profondi di coscienza di sé e di comunicazione con l’altro. Questo, secondo noi, è il meccanismo fondamentale che permette di coltivare l’evoluzione del detenuto, l’emancipazione dai sentimenti che avevano costituito l’humus delle sue scelte d’abuso e di disconoscimento dell’altro.

Comprendere l’errore commesso, attraverso questo processo di immersione nelle emozioni previene la recidiva del reato e fa sì che il soggetto diventi una risorsa per la società e non più un problema.

Il detenuto che ha recuperato parte di sé e della materia problematica che lo ha indotto a commettere reati, diventando proprietario dei suoi sentimenti e del lavoro di evoluzione svolto, viene coinvolto attivamente in progetti per combattere e prevenire la devianza e in progetti di peer-support per la prevenzione al suicidio  e per contrastare il mito del potere all’interno delle carceri.

Tra gli altri progetti ed iniziative, oltre agli spettacoli teatrali, concerti e convegni, sono di fondamentale importanza:

  • gli incontri svolti all’interno delle scuole o nei contesti più a rischio, durante i quali i detenuti condividono le loro esperienze ed emozioni in un’ottica di prevenzione al bullismo e alla tossicodipendenza.
  • gli incontri sulla genitorialità, che hanno una doppia funzione: permettono di analizzare le difficoltà riscontrate nel rapporto genitori-figli durante il periodo detentivo, ma soprattutto rendono tangibile ai figli il percorso evolutivo dei genitori. Durante tali incontri si cerca di sanare le ferite e di ridurre la distanza che nel tempo si è creata tra genitori e figli, in un’ottica di prevenzione della devianza di seconda generazione.

Gli obiettivi analizzati fin ora sono stati raggiunti nel corso degli anni grazie al costante impegno, alla professionalità e all’esperienza del Dott. Aparo, coordinatore del Gruppo della Trasgressione, e grazie alla collaborazione di numerosi volontari. Ma tutto ciò è prerogativa è limitato solo alle carceri milanesi.

La rieducazione del condannato, come previsto dall’art. 27 della Costituzione Italiana, NON è un percorso che si possa fare in autonomia o in breve tempo e, soprattutto, è un percorso che richiede strumenti adeguati.

Riteniamo necessario all’interno di ogni carcere la presenza di un “laboratorio permanente”, che possa guidare il condannato verso la responsabilità e un nuovo modo di interpretare la libertà. D’altra parte, “Come si fa a liberare il corpo se la mente è in gabbia?”

Katia Mazzotta                           Una mappa per la pena

Sull’ergastolo ostativo

L’ergastolo ostativo fu introdotto, nell’ordinamento penitenziario italiano, all’inizio degli anni Novanta, dopo le stragi nelle quali furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con l’intento di frenare la diffusione del fenomeno della criminalità mafiosa. È stata quindi una normativa d’emergenza, regolata dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che stabilisce che le persone condannate per alcuni reati di particolare gravità, come mafia o terrorismo, non possano essere ammesse ai cosiddetti “benefici penitenziari” a meno che non collaborino con la giustizia, fornendo elementi utili per il contrasto alla mafia.

I benefici penitenziari cui si fa cenno vengono invece consentiti nell’ergastolo “comune” in cui è prevista la progressione trattamentale e quindi un graduale reinserimento del soggetto nella società. Tali benefici sono progressivi e valutati di volta in volta:

  • riduzione della pena, 90 giorni per ogni anno di carcerazione (se il condannato ha dato prova di rieducazione);
  • permessi premio (affinché possano essere coltivati interessi affettivi, culturali e di lavoro; a condizione che egli abbia tenuto regolare condotta e non risulti socialmente pericoloso, e solo dopo 10 anni di pena);
  • semilibertà (dopo 20 anni e per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale);
  • liberazione condizionale (dopo 26 anni, a condizione che il detenuto durante l’esecuzione della pena abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento).

Nell’ergastolo ostativo, la “collaborazione con le autorità” viene considerata come dimostrazione dell’evoluzione e del ravvedimento del condannato mentre, in assenza di collaborazione, si impedisce l’accesso ai benefici penitenziari e la detenzione diviene così un “fine pena mai”.

Personalmente, ho l’impressione che l’ergastolo ostativo sia uno scambio, un dare e avere, dare informazioni per ottenere benefici. Questo però non significa lavorare sulla rielaborazione del proprio passato e sulla presa di coscienza. E anche se in apparenza uno sconto di pena conseguente alla collaborazione può sembrare uno stimolo alla revisione del proprio passato, l’ostatività ha un sapore marcatamente punitivo: “se non collabori muori in carcere”. Quindi la personalità del condannato rimane “congelata” al momento del reato commesso, non potendosi evolvere durante la fase di detenzione, perché si impedisce qualsiasi valutazione su un eventuale percorso rieducativo.

Inoltre, nell’ergastolo ostativo non si tiene conto che, non sempre la collaborazione con la giustizia dimostra l’effettiva rottura del legame del reo con la criminalità né, viceversa, la mancata collaborazione è prova della persistenza di contatti con la criminalità organizzata. È del tutto plausibile che l’ergastolano non collabori per timore di ritorsione sulla sua famiglia o perché si ha una conoscenza molto limitata, oppure inesistente, di fatti che possono essere utili alla magistratura.

L’ostatività, io credo, riduce fortemente la motivazione a partecipare all’opera di rieducazione, impedisce al giudice qualsiasi valutazione individuale sul concreto percorso di rieducazione compiuto dal condannato e determina il rischio di avere in libertà individui non rieducati e carceri sovraffollate, problema che conduce inesorabilmente verso la questione dei trattamenti inumani o degradanti all’interno delle carceri. Tutto questo, si pone in contrasto con l’art. 27 comma 3 della costituzione che dovrebbe invece garantire la rieducazione di tutti i condannati, compresi gli autori di reati gravissimi, ed è per tale motivo che la corte europea dei diritti dell’uomo ha ordinato all’Italia l’eliminazione.

Abrogare o dichiarare l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo non significa che i mafiosi tornano facilmente liberi, ma anzi consente ai magistrati di sorveglianza di valutare il percorso del condannato e di verificare, come succede per gli autori di tutti gli altri crimini, se dopo 26 anni (non uno) ci sono i presupposti per il reinserimento in società.

Ma un condannato può cambiare? E quali sono gli elementi che ne promuovono l’evoluzione?

Sulla base della mia esperienza col Gruppo della Trasgressione, all’interno delle tre carceri milanesi e soprattutto all’interno del carcere di Opera con i detenuti dell’Alta Sicurezza, ho riscontrato che ciò che emerge, nella maggior parte dei loro racconti, è una sorta di graduale ottundimento della coscienza, un progressivo allontanamento dall’altro durante la vita nella devianza e un congelamento della relazione con la vittima durante l’atto criminale: una sorta di intorpidimento mentale e una assuefazione al male  che è difficile pensare che possano essere superati grazie all’isolamento..

In una situazione del genere, è necessario innanzitutto che l’individuo venga fermato/incarcerato; ma poi occorre arrivare ad un risveglio della coscienza, ponendo l’attenzione sui vissuti e sui sentimenti provati durante gli atti criminali affinché la persona possa essere successivamente “responsabilizzata”.

L’evoluzione del condannato non è un percorso che si possa fare in autonomia o in breve tempo; occorrono anni e risorse professionali competenti oltre che strumenti psicometrici adeguati per valutarne i progressi. Nei percorsi trattamentali diviene quindi indispensabile favorire il dialogo ed il confronto con l’altro, con il dolore dell’altro.

Riabilitare, rieducare, risocializzare e attuare programmi ad hoc per il confronto con i familiari delle vittime può condurre alla reale comprensione dell’errore e a un effettivo cambiamento del condannato e soprattutto abbattere quella ”ostatività mentale”, insita nei condannati, per lasciare il posto ad un’alleanza, una collaborazione effettiva con le istituzioni e con la società. In un’ottica del genere, il condannato può diventare una risorsa, partecipando attivamente a programmi di prevenzione sul territorio, invece che continuare a essere un problema per la società.

Katia Mazzotta

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I vestiti di Amy

Il film racconta la storia di molte donne attraverso gli occhi di Amy, una ragazzina di 11 anni cresciuta tra due culture diverse: quella francese in cui vive e quella senegalese delle sue origini familiari.

Amy vive in casa con il fratello minore, la madre ed una zia, nell’attesa del ritorno del padre che è andato in Senegal a prendere la sua futura seconda moglie per riportarla in Francia e sposarla ufficialmente.

La famiglia di Amy è una famiglia legata a severe tradizioni religiose ed Amy è una bambina incastrata tra la tristezza della madre, che dovrà suo malgrado condividere il marito con un’altra donna, e i divieti e gli obblighi della tradizione imposti dalla zia.

Tutto questo genera in Amy una sorta di ribellione che la rende sempre più affascinata e incuriosita da un gruppo di ragazze della sua scuola che si stanno preparando per una gara di ballo. Lei riesce a farsi accettare da queste ragazze e la danza diventa così un’ossessione in cui incanalare tutta l’energia e la frustrazione.

 

MA CHI È AMY?

Amy è una ragazzina di 11 anni che cerca di costruirsi la sua identità perché anche i bambini, come gli adolescenti, sono in cerca della propria identità e le figure che osservano come primi referenti sono i genitori, i fratelli, gli zii e i nonni e, a seguire, i loro compagni di gioco.

Ma quando i nostri referenti mancano, per distrazione, assenza o per qualsiasi altro motivo, che risposte trovano i bambini? Chi li guiderà nel loro cammino verso la vita, verso le prime esperienze e verso quella fase importantissima per una donna che è la scoperta della propria femminilità?

Quando manca l’attenzione genitoriale, questi bambini, così come ha fatto Amy, si ritrovano a cercare le soluzioni alle loro domande esistenziali, da soli, interfacciandosi direttamente e senza filtri con la cultura iper-sessualizzata in cui siamo immersi ogni giorno.

Mancano quindi quelle guide che possano, attraverso il dialogo e l’insegnamento della comunicazione emotiva, accompagnare i bambini verso il loro cammino di crescita, ascoltando le loro esigenze, i loro bisogni e le loro paure, aiutandoli così a comprendere le proprie fragilità.

Ciò che invece viene fatto da parte della madre e della zia è immergere Amy nelle loro tradizioni religiose, sperando e illudendosi che queste siano sufficienti a tenerla lontana dai guai e a trasformarla in una donna rispettabile.

Amy è quindi una ragazzina che non ha dei riferimenti in questa fase difficile, che inizia a sentirsi in contrasto con la cultura familiare castrante, ancorata a tradizioni e modi di pensare che negli anni in cui viviamo non sono più utili a una bambina di undici anni che sta affrontando una fase delicata della sua crescita.

L’unica certezza che ha Amy è di essere contemporaneamente molto attratta da un gruppo di compagne di scuola ribelli e vistose, da cui vorrebbe sentirsi accettata e attraverso cui vorrebbe entrare in contatto con una serie di cose: dal look al linguaggio, alle normali curiosità per l’altro sesso che si hanno fin dall’infanzia, che per lei sono proibite senza però comprenderne il motivo.

“Mignonnes” sono undicenni abbandonate a loro stesse che ripetono gesti e pose senza comprenderle davvero. Nei loro sguardi, che dovrebbero essere sensuali, si legge solo lo smarrimento di chi non ha né l’età per comprendere certe cose, né una struttura familiare di supporto che le guidi e le orienti. Si ispirano ai modelli che vedono in giro, sui social, nelle pubblicità e sui siti per adulti e il corpo diviene l’unico mezzo per accedere a ciò che desiderano: l’ammirazione degli altri, l’autostima di sé e quel bisogno di essere accettate all’interno del gruppo dei pari.

Nella parte finale del film, la verità e il vissuto di Amy vengono finalmente fuori; la bambina si ritrova faccia a faccia con la madre, una donna che, nel panico davanti a ciò che scopre, trova in sé stessa il coraggio di non punire la figlia ma di ascoltarla, spezzando anche le imposizioni della tradizione. Ed è proprio da questo momento che Amy ritrova finalmente i suoi anni, rifiuta di indossare l’abito che i parenti si aspettano che lei indossi e rifiuta anche di indossare gli abiti scollati del ballo, anche se li ha amati entrambi ed entrambi le sono serviti per arrivare a scegliere consapevolmente di indossare quelli che considera i “propri vestiti”, che diventano la sua “idea di sé”.

Katia Mazzotta

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Sconfinare verso nuovi equilibri

Katia Mazzotta