Uomini che si raccontano

Quando senti alla televisione o ti capita di leggere sul giornale che una persona ha ucciso qualcuno come reagisci?”

… “Mi chiedo il perché, provo paura e rabbia” rispondono alcuni studenti.

Inizia così, la nostra mattinata al liceo artistico di Brera.

Quando andiamo nelle scuole l’obiettivo del Gruppo della Trasgressione consiste nel riportare esperienze devianti vissute da persone che oggi si impegnano e sono lì per raccontarle. L’obiettivo è proprio quello di lasciare un segno per contrastare il rischio che i ragazzi ripetano gli stessi errori dei detenuti. Credo proprio che ciò sia arrivato; gli studenti, con gli occhi fissi su chi parlava, lo hanno dimostrato.

… “Ma tu, saresti mai capace di commettere reati e di uccidere? E secondo te come e perché una persona può arrivare a commettere crimini fino al punto di uccidere? Cosa gli scatta nella testa?”

Ho qui citato alcuni quesiti posti nel corso della mattinata. Il primo è stato posto in particolare ai giovani, i quali sostengono che ciò sarebbe possibile nel caso in cui si dovesse crescere in un contesto di degrado, senza una figura genitoriale credibile e rispettabile e, di conseguenza, privi di strumenti per potersi difendere.

Rabbia mischiata a fragilità, dolore, arroganza e voglia di sentirsi potenti.

Il potere affascina, ne ottieni un po’, ne vuoi di più e non ti sazi mai. Un po’ come i tossicodipendenti cercano la dose; in quel momento non ti interessa guardare in faccia nessuno ed è lì che l’arroganza prende il sopravvento. Così lo descrivono i detenuti.

La maggior parte di coloro che si sono raccontati hanno affrontato questa fase di delirio di onnipotenza nell’adolescenza, quando è loro mancata una figura solida, credibile, rispettabile, insomma una guida che li mettesse sulla giusta via, e che non per forza deve essere un genitore.

Il potere ti dà rispetto, quello che magari fino a quel momento non hai mai avuto, e tutto ciò per un adolescente inizia a diventare la sua realtà. Una realtà in cui cominci ad avere un ruolo, ad essere qualcuno, ma che pian piano ti distrugge. Non avere un ruolo nella vita ti disorienta. Ti domandi quale sia il tuo scopo, ma nel frattempo sei privo di difese che ti possano proteggere e sei facilmente manipolabile da coloro che vogliono approfittare di te.

Tu non hai i mezzi per andare contro corrente, e il fatto che qualcuno comincia a darti un posto, a farti sentire importante e bravo nelle cose che fai, per te diventa un obiettivo allettante, seducente: “… amavo il potere più dei soldi. Non pagavo da nessuna parte perché le persone, sapendo quello che facevo, avevano paura di me”.

Alcuni si chiedono se sia effettivamente possibile un viaggio di ritorno da Marte sulla terra, altri ancora sono conviti che ciò non sia possibile menzionando il famoso detto “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”. Ad oggi so per certo che ciò è possibile. Bisogna sicuramente affrontare un lungo e faticoso viaggio, ma d’altronde solo con la fatica e l’impegno si ottengono risultati.

Non si nasce delinquenti, lo si diventa, ma come lo si diventa, così si può smettere di esserlo.

Come hai raccontato il motivo per cui sei in carcere ai tuoi figli?”

Dalle risposte piene di dolore dei detenuti ed ex detenuti è stato possibile distinguere due diversi tipi di reazioni, ossia da una parte un figlio che non ha capito gli errori del padre, non ha preso le distanze dai suoi comportamenti e, anzi, ne è orgoglioso, emula il suo comportamento e usa il nome del padre per vantarsi ed essere rispettato nel suo paese; dall’altra parte sono invece emersi degli atteggiamenti di presa di distanza dalle azioni devianti del padre e dal padre stesso.Emerge qui la vera importanza del ruolo di un padre nell’educare il proprio figlio, in quanto è inevitabile che i figli prendano esempio dai genitori.

Dai racconti mi è stato possibile percepire anche quella forza e quell’amore di una donna nell’aspettare il proprio uomo anche se condannato all’ergastolo; la sensibilità e l’intelligenza di una donna nell’andare oltre ciò che il suo uomo era ed amarlo per ciò che è oggi; l’innocenza di un bambino di dodici anni che apprezza suo nonno e riesce a sentire la sua anima pentita; la felicità di un uomo di cinquant’anni che prova ad essere per la prima volta un “padre” e che si sente al sicuro nelle braccia di una bambina di cinque anni…

… ma anche l’anima distrutta di un uomo che oggi non ha più la possibilità di dimostrare al proprio figlio che oggi guarda il mondo con altri occhi.

Ho ucciso il bambino che era in me

Questa frase detta da un detenuto mi ha particolarmente colpito. Ma io credo che il bambino che è in lui non è mai stato ucciso, ma è sempre stato soffocato, privato di parola, così come la sua coscienza, che non veniva ascoltata.

Ad oggi vedo degli uomini che si raccontano, a cui è stata strappata l’infanzia, l’adolescenza, la vita, ma hanno gli stessi occhi dei bambini, il primo giorno di scuola, felici di imparare a leggere e a scrivere, così come loro stanno imparato a vivere.

Grazie dell’immensa opportunità,

Ilaria Pinto

Marte, andata e ritorno

Al liceo artistico di Brera

Incontro studenti e detenuti Liceo Artistico di Brera (Via Camillo Hajech, Milano, MI) di Mercoledì 30.03.2022

Durante l’incontro di Mercoledì 30 Marzo è stato affrontato il delicato tema della prevenzione della devianza giovanile. A tale scopo è stato organizzato un incontro tra detenuti (in gran parte provenienti dal carcere di Opera) e due classi di studenti liceali.

L’incontro è partito con una metafora: il detenuto come un astronauta, per il quale il viaggio verso Marte rappresenta la via della delinquenza, mentre il ritorno sul pianeta Terra la riabilitazione e la reintegrazione all’interno della società civile.

Tra le diverse testimonianze di vita dei detenuti, un elemento è stato più volte identificato come una delle principali cause che portano sulla strada della devianza: il contesto familiare e socioculturale.

Il progetto genitoriale, così come l’ambiente culturale, sono, infatti, fondamentali per lo sviluppo emotivo, sociale e affettivo del giovane e, in presenza di relazioni sociali problematiche e traballanti, aumentano di molto le probabilità di diventare un delinquente.

Tutto ciò porta il giovane ad assumere modelli di riferimento non rispettabili, che, attraverso la seducente promessa di una vita facile (senza necessità di lavorare e faticare), piena di denaro, macchine e altri beni di consumo, lo conducono alla pratica delinquenziale.

Queste esperienze di vita, a loro volta, si riverberano anche nei rapporti tra i detenuti e i loro figli. Questo è sicuramente uno degli aspetti più complessi e pregnanti dell’incontro di mercoledì, poiché il padre, che si trova in carcere, da un lato ha paura che il figlio ripercorra le sue stesse orme (ad esempio spendendo il suo nome per ottenere rispetto e indebiti vantaggi) e dall’altro prova imbarazzo e pudore a raccontare al figlio cosa ha fatto, il perché della sua condanna e il carcere.

Per interrompere questo circolo vizioso e per scongiurare la possibilità che il figlio segua lo stesso percorso del padre-detenuto, è necessario che quest’ultimo si assuma le sue responsabilità e cerchi di dare al figlio ciò che lui, in molti casi, non ha mai avuto: un modello rispettabile.

Durante l’incontro è emersa la riflessione che, per diventare un modello rispettabile, il padre, in primo luogo, deve comprendere cosa ha fatto, poi deve spiegarlo al figlio e, infine, chiedere scusa (del fatto che la sua condotta lo ha portato alla reclusione e quindi all’interruzione del rapporto).

Fra le tante, la testimonianza più struggente è stata quella di Nuccio, che ci ha raccontato dell’improvvisa decisione di sua figlia di interrompere il rapporto con lui, cosa che poi lo ha spinto a diventare un poeta. Questo elemento emerge chiaramente nella lettura della sua splendida poesia intitolata “Perché scrivo poesie” e in particolar modo nelle ultime due terzine: “Perché voglio diventare poeta? Forse perché solo l’animo di un poeta è degno di riconquistare il tuo cuore”.

L’incontro al liceo Brera è stato molto istruttivo anche se si è volto con tempi molto stretti. Spero che quello del prossimo 7 aprile, anche per il tempo più ampio di cui disporremo, possa avere una partecipazione più attiva e corale da parte degli studenti.

Leonardo Esposti

Marte, andata e ritorno

Il fallimento

Ci sono parole che evocano disagio solo a pensarle. Parole che vengono evitate, sussurrate. Parole che vengono lasciate sospese, parole non dette.

La parola “fallimento” è una di queste. Si cerca di evitare poiché evoca una sensazione sgradevole, sia in chi la pronuncia sia in chi l’ascolta. A volte viene usata in modo impersonale: “è stato un fallimento”. Un fallimento di chi? Mio? Tuo? Nostro?

Fallire è un verbo che non ci piace, ci ricorda che siamo umani e che possiamo sbagliare. È difficile anche solo pensare di aver fallito, figurarsi dirlo. E quando si trova il coraggio di ammetterlo, spesso gli altri tendono a trovare parole di conforto: “non preoccuparti, ti rifarai, avrai un’altra occasione, non pensarci”. Spesso è vero, in molti casi il fallimento ci permette di riprovarci, con sforzi ancora maggiori, e, nella maggior parte delle volte, così dicono, dopo il fallimento arriva il successo. È raro che si parli della sensazione di fallimento. Spesso si preferisce cercare le cause, oppure trovare soluzioni.

Il fallimento si affronta da soli, non se ne parla a cena con gli amici o al bar con i colleghi. Eppure la maggioranza di noi, prima o poi, fallisce almeno una volta nel corso della sua vita. Fallisce in amore, in famiglia, nella carriera, nello studio. Si può fallire in qualsiasi cosa, eppure non si riesce a confrontarsi con gli altri. Non si riesce a rendersi responsabili del fallimento.

Da quando frequento il Gruppo della Trasgressione, spesso parlo volentieri con amici e conoscenti di quello che faccio e delle sensazioni che il gruppo mi crea. Tuttavia a volte vengo liquidata con un “mah si, tanto i detenuti sono il fallimento della società”. Ma noi facciamo parte della società giusto? Ognuno di noi è la società. E allora perché riusciamo a parlare a cuor leggero di un fallimento generale, ma fatichiamo a pensare ad un nostro fallimento personale? Forse, se parlassimo di più dei nostri fallimenti riusciremmo ad accettarli più facilmente. E una volta accettati, potrebbe essere più facile cercare soluzioni e comportarsi in modo che non capitino di nuovo.

Di una cosa sono abbastanza certa: parlarne con qualcuno, senza vergogna o sensi di colpa, può aiutare a comprendere che qualcuno ha già vissuto e, nella maggior parte dei casi, anche superato quello che noi crediamo sia un fallimento insuperabile.

Il fallimento fa parte della natura dell’essere umano e, a volte, è giusto ricordarci che possiamo anche fallire.

Anita Saccani

Interrogarsi sulla trasgressione

Anita Saccani, Matricola: 792514
Tirocinio professionalizzante – Albo A, Area Sociale
Tipo di attività: Stage esterno
Periodo: 15 Aprile 2021 – 14 Ottobre 2021
Titolo: Interrogarsi sulla trasgressione

Caratteristiche generali dell’attività svolta
Ho svolto il secondo semestre del mio tirocinio professionalizzante presso il Gruppo della Trasgressione, una realtà composta da studenti, detenuti e liberi cittadini, fondata e coordinata dal Professor Angelo Aparo, psicologo e psicoterapeuta. L’associazione opera nelle case di reclusione di San Vittore, Bollate e Opera, e nel territorio milanese, con l’obiettivo di favorire la collaborazione e il dialogo tra detenuti e cittadini.

Il Gruppo della Trasgressione utilizza la devianza, in tutte le sue forme e sfaccettature, come punto di partenza per generare riflessioni sull’essere umano e sulla società in generale. Lo scambio reciproco di pensieri e idee favorisce la costruzione di un rapporto sincero tra i membri del gruppo, vengono abolite le etichette, non ci sono più detenuti, studenti, ex-detenuti o parenti di vittime, ma ci sono cittadini che insieme lavorano per costruire una società in continua evoluzione e miglioramento. È fondamentale ricordare che la trasgressione è una componente presente nell’animo umano e non basta “rinchiuderla” in una cella e dimenticarsi della sua esistenza per far sì che cessi di esistere, al contrario è necessario interrogarsi su di essa, formulare domande sulle sue origini e i suoi sviluppi e, in seguito, proporre risposte che possano aiutare a comprenderla e, nel possibile, a contrastarla.

Il particolare tipo di approccio del Professor Aparo consente ai membri del gruppo di interrogarsi su loro stessi, sulle proprie fragilità e certezze, sulle esperienze di vita e sui valori in cui ognuno crede, consentendo così un percorso di crescita e di conoscenza del sé atto a comprendere e riconoscere le responsabilità che ogni persona possiede nei confronti della società, sia come individui che come collettività. Le iniziative del Gruppo della Trasgressione mirano quindi a costruire relazioni e dinamiche di gruppo che consentano a un detenuto, o ex-detenuto, di sentirsi parte integrante della società e, di conseguenza, di sentirsi responsabile di essa.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte
Nel Gruppo del Trasgressione il tirocinante è prima di tutto un membro del gruppo
; quindi, è richiesta la sua partecipazione attiva a tutte le attività e iniziative del gruppo. A livello pratico, inizialmente ci si occupa della stesura dei verbali degli incontri; in seguito, man mano che si prende confidenza e conoscenza della filosofia del gruppo, si partecipa ai vari progetti in corso. Nel mio caso ho partecipato alle Interviste sulla Creatività e alla costruzione di progetti di prevenzione della devianza da attuare nelle scuole di Rozzano. Inoltre, lo studente è invitato a contribuire alle riflessioni trattate dal gruppo producendo degli scritti argomentati e coerenti, che verranno in seguito pubblicati sul sito.

Personalmente, ho avuto anche la possibilità di partecipare agli ultimi mesi di vita della Bancarella di Frutta & Cultura che si teneva il sabato mattina al mercato di Viale Papiniano, dove studenti e detenuti lavoravano insieme per promuovere le attività e ampliare le reti di conoscenze del gruppo, oltre che per vendere la frutta.

Infine, ho partecipato ai vari eventi organizzati dal gruppo durante il periodo del mio tirocinio, quali:

  • Il Concerto della Trsg-Band a Parabiago (24 Giugno)
  • L’evento di Pulizia del Parco delle Memorie Industriali di Milano e la messa in scena dello spettacolo “Il mito di Sisifo” (17 e 18 Luglio)
  • L’incontro tra Scout e detenuti nella casa di reclusione di Opera (18 Settembre)

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati
Gli incontri tradizionali del Gruppo della Trasgressione si tengono il Lunedì e il Martedì (14-17). Durante gli incontri vengono trattati diversi temi e ognuno può contribuire alla discussione, arricchendola con le proprie riflessioni. Quando ho iniziato il tirocinio, l’incontro del Lunedì verteva sulla “Banalità del Male”: ogni settimana si sceglieva un film da vedere e durante l’incontro si sviluppavano riflessioni intorno al film scelto. È stato molto arricchente, soprattutto perché sono state analizzate varie strade che portano al “male”: dall’abuso di sostanze stupefacenti alla carenza di affetto da parte dei famigliari, dalla nascita in contesti socioculturali sbagliati alle micro-scelte che portano sulla via della perdizione. Gli incontri del Martedì invece erano focalizzati sul rapporto “Genitori e Figli”: venivano quindi discusse le dinamiche famigliari che portano alla costruzione di rapporti difficili tra genitori e figli, soprattutto quando il genitore è un detenuto e, di conseguenza, è impossibilitato ad esercitare il proprio ruolo di genitore.

Successivamente, con l’attenuarsi della situazione pandemica, mi è stato possibile frequentare anche gli incontri interni alla casa di Reclusione di Opera, sia con i detenuti in alta sicurezza che con i detenuti comuni. Gli incontri interni sono molto simili come “modus operandi” agli incontri esterni: detenuti e tirocinanti si confrontano sui vari temi che tratta il Gruppo della Trasgressione e in questo modo contribuiscono alla crescita reciproca. Il detenuto, che spesso ha il doppio dell’età del tirocinante, condivide pezzi della sua vita ed elabora riflessioni sulle possibili origini della propria devianza e in che modo il percorso fatto all’interno del carcere lo abbia aiutato a prendere coscienza di sé stesso e delle proprie azioni; il tirocinante, d’altra parte, offre un punto di vista giovane, sincero e da esterno ai fatti, cercando di silenziare i pregiudizi e di mettersi in gioco attivamente.

Inoltre, ho partecipato anche al progetto delle “Interviste sulla Creatività”: sono state progettate interviste da rivolgere ad artisti, figure istituzionali e giornalisti, utilizzando la creatività come tema centrale. Lo scopo di questo progetto è duplice: da una parte, si vogliono evidenziare le funzioni che la creatività può avere nella prevenzione della devianza e nelle attività di recupero di un detenuto, dall’altra si cerca di suscitare un maggiore interesse da parte del “pubblico” verso il mondo della devianza anche per fare prevenzione e per poter divulgare ed ampliare le relazioni sociali del gruppo.

Infine, ho avuto la possibilità di partecipare alla stesura di un progetto di prevenzione della devianza nel comune di Rozzano. I membri del gruppo, insieme ad altre associazioni e a figure istituzionali, hanno progettato attività utili a informare i cittadini sulle varie forme di devianza e a comprendere come prevenirla, con particolare riguardo ai più giovani. A questo proposito, è stato organizzato un ciclo di incontri con due scuole superiori che partirà a Novembre e vedrà collaborare studenti, detenuti ed ex-detenuti nel cercare di comprendere le varie definizioni di devianza e, soprattutto, come contrastarle.

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte
Il professor Angelo Aparo è il fulcro del Gruppo della Trasgressione. È presente ad ogni incontro e sprona continuamente gli studenti tirocinanti a togliersi di dosso fin da subito la definizione di “tirocinanti” e ad essere membri attivi del gruppo, invitandoli a contribuire con riflessioni e scritti personali. Si mette personalmente in contatto con i tirocinanti e chiede aggiornamenti continui sulle attività svolte e sull’andamento dei progetti.

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)
Trovo estremamente difficile definire e catalogare tutte le conoscenze che ho acquisito durante questo tirocinio. In linea generale, ho compreso l’importanza e le funzionalità di un lavoro di gruppo: le relazioni tra i membri devono essere incentrate sul rispetto, sull’ascolto reciproco e sulla presenza costante, in questo modo si crea un clima positivo e stimolante.

Inoltre, ho compreso come sia necessario utilizzare le proprie energie mentali per costruire, analizzare ed elaborare una linea di pensiero che sia coerente con la persona che si crede di essere. Ho passato molte ore a rielaborare le varie discussioni avvenute durante gli incontri, cercando di analizzarle attraverso diversi punti di vista per arrivare a formulare un mio pensiero personale. Il Gruppo mi ha insegnato che ad analizzare le situazioni mettendosi nei panni dell’altro: questo permette di non cadere nell’errore di cercare verità assolute e consente di elaborare al meglio ogni aspetto di una determinata situazione.

Infine, mi sono avvicinata al mondo carcerario e ho avuto la possibilità di conoscere meglio sia le nozioni prettamente tecniche, sia i percorsi educativi che sono presenti all’interno. Credo che la cosa più significativa che ho imparato sia l’importanza di non parlare del carcere durante gli incontri con i detenuti: in questo modo, loro possono sentirsi liberi anche dentro il carcere; parlare troppo delle ingiustizie subite all’interno, come sostiene il dott. Aparo, rende i detenuti più rabbiosi verso le istituzioni e, spesso, dispensa dall’impegno su riflessioni e strategie volte al miglioramento del sé.

Abilita acquisite (tecniche, operative, trasversali)
In primo luogo, l’esperienza al Gruppo mi ha permesso di sviluppare un ascolto empatico e “puro” dell’altro. La condivisione di storie di vita così diverse dalla mia mi ha aiutato ad abbattere i pregiudizi e a cercare di sviluppare relazioni fondate sul rispetto reciproco. In secondo luogo, partecipare alla stesura dei verbali e alla trascrizione di interviste e testi di detenuti, mi ha consentito di migliorare la mia capacità di scrittura, aiutandomi nella rielaborazione dei contenuti. Infine, mi sono anche avvicinata al mondo organizzativo, imparando come si costruiscono progetti di prevenzione e di miglioramento del benessere.

Caratteristiche personali sviluppate
Questo tirocinio mi ha permesso di crescere professionalmente mostrandomi la psicologa che vorrei diventare, ma soprattutto mi ha aiutato nella crescita personale. Ho imparato che ci vuole del tempo per conoscere le diverse realtà e che non sempre la prima impressione è quella giusta.

Il Gruppo mi ha spinto a prendere conoscenza di me stessa, spronandomi ad uscire dal mio guscio e ad affrontare le mie fragilità senza vergognarmi di essa. Trovo enormemente soddisfacente l’essere riuscita a combattere la mia ritrosia a parlare in pubblico ed essere riuscita ad intervenire senza il bisogno di stimoli esterni.

Il lavoro prodotto dal Gruppo della Trasgressione dimostra come ognuno di noi può e deve avere un ruolo nella società e, di conseguenza, come siamo tutti responsabili nella costruzione di un percorso volto al miglioramento. La società ha il dovere di stimolare chiunque a sentirsi parte di essa, partendo da chi è sul gradino più basso e coinvolgendolo attivamente nello sviluppo di una responsabilità collettiva: solo così saremo in grado di costruire un futuro migliore, per tutti.

Il bambino che non sono mai stato

Buongiorno a tutti, sono Nunzio. Ultimamente al gruppo si è parlato molto del contesto sociale dal quale proviene una persona e delle scelte di “vita”. Ripenso alla mia adolescenza deviante e, in fondo, non vissuta: collegio, carcere minorile e a San Vittore a 20 anni. Ripenso a quello che mi ha portato in collegio, a quello che poi ha permesso alla mia rabbia di prevalere su quella che poteva essere un’infanzia più tranquilla. Ricordo che, in comune con quasi tutti i bambini del collegio, avevo i genitori separati e trascorrevo i weekend uno con mamma e uno con papà, alternandoli. Nelle volte in cui toccava al secondo, tante volte quel weekend si trasformava in paura, orrore, attese varie e alla fine pure in realtà: mio padre non ci veniva mai a prendere, stavamo lì alla finestra a vedere gli altri che andavano a casa… E stai lì a distrarre il mio fratellino e consolarlo.

Quando andavo con mamma a casa sua, c’era sempre suo fratello, che ai tempi era un delinquente affermato, uno dei capi della zona di Giambellino. Con la sua presenza e il suo “affetto”, riusciva a mettere in ombra l’assenza di mio padre, mi sentivo sicuro: il suo essere presente anche economicamente mi portava a pensare, sognare che anch’io un domani avrei potuto prendermi cura di mamma e del mio fratellino.

Qualche anno dopo feci la mia prima esperienza al Beccaria (carcere minorile) per furto con altri cinque ragazzi. Arrivati lì, neanche il tempo di entrare che le guardie mi fecero sapere che mio zio Michele aveva detto di stare tranquillo, che tra pochi giorni sarei tornato a casa e che lui era molto orgoglioso di me. Oltre al messaggio, mi depositò un milione di lire sul libretto, per poter aiutare qualcuno che era in difficoltà: una cosa normale per uno come lui, entusiasmante per me. Penso, anzi oggi ne sono certo, che il carcere minorile sia la scuola di delinquenza più grande in assoluto, quella che forma un vero delinquente. La cosa che mi colpì di più in tutto questo, che mi rese orgoglioso di me stesso, fu la considerazione che quel falso “mito” aveva da parte di tutti: sempre più spesso dove andavo mi sentivo dire non che ero il figlio di Giovanni, ma il nipote di Michele.

Questa è stata la costruzione del “mito” di me stesso. Inutile raccontare quanto la mia vita criminale sia stata sempre a crescere, tant’è che oggi sono un ergastolano. Non do minimamente colpa a mamma o papà o alla compagnia; mamma lavorava dalla mattina alla sera per non farci mancare nulla, papà aveva una piccola impresa artigianale e mi ha sempre voluto al suo fianco (solo al lavoro) però io avevo “scelto” altro e tutt’ora ne pago le conseguenze. Però, come dice il Dottor Aparo, col tempo trovi quello che coltivi nell’orto. Oggi, l’importante è che uno, dalle sofferenze che ha creato e sta patendo, trovi il modo per costruire un presente meno cupo, come le tante mattine che mi alzo, girando e camminando, ammazzando il tempo per anni, non giorni, senza meta.

Oggi quando sento dire che il contesto sociale è il “motivo” di devianza, mi fa un po’ rabbia, anche se, a guardarla così, il contesto dove sono cresciuto sarebbe per me un’attenuante per i reati che ho commesso. Penso che il contesto sociale possa favorire la devianza, tenendo però presente che la scintilla è dentro di noi. Sicuramente oggi ho la consapevolezza di riconoscerla nella rabbia accumulata da bambino, assieme alla delusione di un padre assente che potevo solo immaginare, mentre aspettavo alla finestra tra la rabbia e le lacrime che rendevano buia anche una giornata di sole.

Mercoledì, come altre volte, il Dottor Aparo ha notato che sembra che io non partecipi agli incontri. Le chiedo scusa, questa non è una mia scelta, ma la voglia di capire, di imparare, di riflettere e di guardarmi più in profondità. Come vede non lascio tutto al tavolo: lo porto con me, in me, in quello spazio vuoto che è il carcere, per riflessioni come queste. Scrivere è un modo certamente più facile per me, che non nascondo di essere un po’ timido, ma sono più concreto con carta e penna, perché mi aiuta anche ad ascoltare me stesso come non avevo mai fatto prima: fragile, debole, ma anche tanto curioso di scoprire e di scoprirmi curioso come quel bambino che non sono mai stato.

Nunzio Galeotta

Percorsi della devianza

I nostri figli con gli agenti

Sulla scia del progetto “Genitorialità responsabile”, abbiamo parlato al gruppo anche della figura dell’agente penitenziario. La nostra esperienza dice che l’agente penitenziario, agli occhi di molti dei nostri figli, rappresenta la negazione della libertà dei genitori. Poco conta per i nostri ragazzi (e, bisogna ammettere, anche nella nostra visione di qualche anno fa) che l’agente in carcere faccia semplicemente il lavoro grazie al quale provvede al suo sostentamento e col quale è chiamato a svolgere una funzione importante per la società.

L’argomento è spinoso e delicato, ma in un cammino di riflessione e di introspezione ci è parso importante affrontarlo perché riteniamo di non dover lasciare zone d’ombra che potrebbero indurre i nostri figli a sviluppare un’immagine distorta della realtà.

Inoltre, non è difficile pensare che, specie quando si cresce in un ambiente ostile e con un’educazione segnata da un genitore che non ha onorato le proprie responsabilità, i figli possono giungere a vedere nella divisa il carnefice del proprio padre detenuto.

A questo contribuiscono tante cose, fra cui il modo in cui noi negli anni passati abbiamo descritto il nostro rapporto con le figure istituzionali e i modi, non sempre attenti ai sentimenti dei ragazzi, di applicare i controlli e le perquisizioni per i familiari all’ingresso. A volte, infatti, i congiunti dei detenuti devono sottoporsi a ispezioni che, in menti fragili e già problematizzate dai conflitti che gli adolescenti vivono con i propri stessi genitori, inducono i ragazzi a sviluppare una forte ostilità verso le istituzioni e a dimenticare che le istituzioni svolgono fondamentalmente la funzione di proteggerci.

Dopo aver constatato, con i tanti incontri con il Gruppo della Trasgressione, che la conoscenza abbatte i muri, proponiamo che un nostro figlio possa entrare in contatto in maniera diversa dal solito con la figura dell’agente. Un modo potrebbe consistere nel coinvolgimento degli agenti penitenziari in qualcuna delle attività del Gruppo della Trasgressione, come ad esempio: gruppi di formazione, testimonianze, partite di calcio ed eventi culturali.

Crediamo che tale progetto sia determinante per favorire un cambiamento progressivo della visione distorta della realtà che può avere un figlio col padre o con la madre in carcere.

L’iniziativa non ha assolutamente lo scopo di influenzare o di interferire con il lavoro degli agenti penitenziari e ci sembra anzi che la nostra proposta sia allineata con gli obiettivi dell’istituzione e delle figure che ci lavorano.

Giorgio Ciavarella

Genitori e Figli

Come fa a chiamarmi papà?

Un ricordo indelebile affiora nella mia mente: mia madre, quando mi raccontò il giorno della mia nascita, mi disse che mio padre era lì presente accanto a lei, felicissimo di prendermi in braccio e coccolarmi. Un ricordo che da una parte mi riempie di gioia, dall’altra mi rattrista tantissimo, catapultandomi nel presente.

Anno 2010, due mesi dopo il mio arresto la mia compagna diede alla luce mio figlio, un evento speciale, meraviglioso, unico… beh, a me è stato negato… per colpa mia. La cosa che mi ha procurato tanto dolore è che in quel preciso momento non potevo essere lì per gioire insieme alla mia compagna di nostro figlio. La sua nascita mi ha spalancato un mondo che non credevo esistesse, proprio come mi aveva detto mia madre a proposito di mio padre.

La prima volta che ho potuto vederlo, toccarlo, baciarlo, coccolarlo è stato dopo sei mesi dalla sua nascita. L’incontro fu straordinariamente bello, sembrava quasi stessi sognando, tanto forte era l’emozione, scoppiai in un fiume di lacrime che bagnarono il viso del piccolo. La gioia di prenderlo in braccio è stata fantastica, indimenticabile e ancora oggi quando la vivo, mi riporta al passato, a vivere ciò che ha vissuto mio padre. Sono consapevole che la relazione con mio figlio inizia con un distacco assordante, prolungato nel tempo per via della mia carcerazione.

Non vi è giorno che non pensi a lui e alle mie mancanze nei suoi confronti, emotive e fisiche, che non mi senta in colpa. Spesso mi domando quanto le mie mancanze di padre influiscano in quel piccolo ometto.

Un figlio non dovrebbe mai vivere una situazione come questa che per vedere suo padre deve varcare le mura di un carcere. Quando viene a trovarmi l’intensità è fortissima, anche se il tempo che trascorriamo insieme è poco e mi rimane sempre una parola non detta. Ma durante l’incontro sento tutto il suo amore, l’affetto e la gran voglia di vivermi. Mi sono accorto della sua crescita facendo riferimento al tavolino dei colloqui come misura della sua altezza. Vorrei poter entrare nella sua testolina per comprendere come quel piccolo ometto può sopportare tutto questo e mostrarmi tanto affetto e amore nonostante la mia assenza.

L’importanza fondamentale è quella di avere una compagna che in mezzo a tanta sofferenza non perde giorno per ricordare a mio figlio la figura del padre e per questo gliene sono e sarò sempre grato. Mi rendo conto della difficoltà della mia compagna di farlo crescere il più sereno possibile, cercando di non fargli pesare troppo la mia condizione oggettiva e di trasmettergli tutto l’amore che non riesco a donargli.

Purtroppo è una presenza riportata, non reale. Mi chiedo come mio figlio riesca a chiamarmi papà, vista la mia forzata assenza. Questo però da una parte mi inorgoglisce, dall’altra mi distrugge perché non gli ho dato nulla di quello che un padre sogna di dare al proprio figlio: la sua presenza, l’amore, la guida in un cammino positivo e costruttivo per se stesso e per la società. Non passa giorno che non mi chieda se potrà mai perdonarmi per tutto ciò.

Non posso saperlo, però cercherò, nei limiti di quanto mi verrà concesso, di colmare il vuoto di questi anni d’assenza fisica ed emotiva. Sicuramente non credo di potere risolvere tutti i traumi che la situazione prolungata ha creato, ma se potrò avere un’opportunità di un rapporto più continuativo, lo dedicherò esclusivamente a mio figlio e alla mia compagna, la mia famiglia, la mia luce, la mia speranza.

Rosario Curcio

Genitori e Figli

Un padre e un figlio

Purtroppo, nel mio lontano passato, tra tutte le nefandezze che ho fatto, ho trovato pure il tempo e l’egoismo di mettere al mondo un bambino che, quando è nato, oramai io ero in carcere da quattro mesi. La prima volta che l’ho visto aveva tre mesi: mia moglie l’ha portato presso l’aula bunker di Firenze, dove stavo facendo uno dei miei tanti processi. Mi ricordo che i carabinieri che ci scortavano all’aula bunker mi avevano concesso di prenderlo in braccio dentro la gabbia, ma io mi sono rifiutato perché non volevo vedere mio figlio dentro quella gabbia. Ho preferito uscire le braccia tra le sbarre e toccargli la tenera testolina.

Da quel momento ho iniziato a vederlo, quando era possibile, nelle varie carceri italiane in cui ero recluso. Nel frattempo, il bambino cresceva e io, da irresponsabile, non capivo cosa potesse realmente servire a quel bambino perché ero preso dai miei malaffari.

Le cose sono cambiate quando il bambino ha iniziato a fare delle domande: mi chiedeva come mai mi trovavo in carcere e se era vero quello che aveva appreso a scuola, ovvero che avevo ucciso delle persone.

Io, che ero cresciuto in un ambiente con la regola di tenere tutto segreto, figuriamoci se potevo parlare con un bambino degli orrori che avevo commesso, così, con l’arroganza e la presunzione di essere suo padre, gli ho risposto che tutto quello che aveva sentito su di me era una menzogna perché c’era tanta gente cattiva che ce l’aveva con me e che, in ogni caso, lui non doveva parlare più di queste cose. Da quel momento, le cose sono sempre peggiorate con mio figlio: tutte le volte che veniva a colloquio era un litigio continuo perché non voleva ascoltare minimamente quello che gli dicevo.

Avrei voluto che qualcuno mi aiutasse a far crescere mio figlio. Nell’inconscio sapevo che io non avevo gli strumenti per farlo come poi ho visto che fa il Gruppo della Trasgressione, che aiuta a prendere coscienza i detenuti che sono disposti a rivedersi.

Un giorno, durante un colloquio l’ho rimproverato perché non era andato a scuola. Mi ha risposto: “Ma tu cosa vuoi da me? Chi sei? Cos’hai fatto per me?”. Quelle parole mi hanno stordito, ma sono servite a farmi chiedere cosa significasse avere un figlio e mi hanno svegliato dal sogno che aveva preso il posto di una realtà che non avevo mai conosciuto. Ho iniziato a chiedermi spesso perché mio figlio fosse così scontroso, presuntuoso, arrabbiato verso tutto quello che lo circondava. Ma forse il motivo di tutti questi comportamenti non era a lui che dovevo chiederlo, bensì a me stesso.

Ho continuato a farmi delle domande, lunghe riflessioni e ricerche introspettive, cercando di recuperare quella parte di me soffocata ma sana, che ho tenuto abissata per tanti anni. Dopo un’attenta valutazione sono arrivato alla conclusione che era meglio raccontargli chi ero stato veramente, pur sapendo che rischiavo di non essere compreso o di produrre un effetto boomerang.

E invece lui mi ha risposto con un grande abbraccio e, piangendo, mi ha detto che era fiero di avere un padre che aveva saputo riconoscere i propri errori e che oggi è diventato capace di vivere quei valori che in passato non sentiva per nulla.

Grazie al rapporto con mio figlio, oggi sono riuscito a capire quali possono essere i miei limiti. Riconosco che fare il padre, nella mia situazione di detenzione, è molto difficile anche perché non ho avuto nessuna esperienza paterna. Solo da una decina d’anni sono riuscito a capire il giusto significato del mio ruolo di padre. Attualmente nei riguardi di mio figlio mi sento effettivamente legato sia come padre sia come un amico sincero su cui lui potrà fare affidamento in qualsiasi momento lo vorrà.

Pasquale Trubia

Genitori e Figli

Rapporto genitori figli

Sono Gianni Tramontana, vorrei raccontare la mia esperienza carceraria e il rapporto tra un genitore e i propri figli. Sono genitore di due gemelli che oggi hanno tredici anni. Quando mi hanno arrestato i miei figli Silvi e Davide avevano due anni. Dopo un periodo passato in carcere, mi hanno mandato ai domiciliari, ho seguito il processo da casa. Siccome mia moglie lavorava, ai miei figli ho fatto da mamma e papà. Mi sentivo cosi bene che non volevo più uscire di casa per stare in loro compagnia. Ma il sogno è durato solo quattro anni. Quando ho avuto la condanna definitiva mi sono costituito spontaneamente.

Per i miei figli, abituati a stare sempre con il loro papà, gli è crollato il mondo addosso. Quando mi venivano a trovare a colloquio, non avevo il coraggio di dirgli che mi trovavo in carcere, e ogni volta era una continua presa in giro, gli dicevo che ero qui per lavoro e che presto sarei tornato a casa. Più passava il tempo e più mi mancava il coraggio di ammettere la verità, anche perché mia figlia aveva provato a farsi del male e ancora adesso questo mi provoca dolore solo a ricordarlo.

Quando compiono dieci anni, nel silenzio assoluto, sono venuti a conoscenza dei veri motivi per i quali io sono qui a Opera, però non me lo dicevano, pensando di dovere essere loro a cautelarmi. È finita al contrario; adesso sono loro che incoraggiano e proteggono me.

La rabbia che loro avevano addosso l’ho sentita soltanto io, perché si sono sentiti traditi dal loro papà, che nella natura è la persona che non può mai tradirli e allora loro hanno perso fiducia nei miei confronti.

Al Gruppo della Trasgressione è un tema che abbiamo affrontato spesso quello di come comportarsi con i propri figli. Io dicevo tra me e me che prima o poi gli avrei detto la verità del perché mi trovo qui, e intanto il tempo passava, ero consapevole di ciò che poteva succedere, ne avevamo già parlato diverse volte al gruppo della trasgressione.  E infatti dopo si è verificato ciò che non volevo che succedesse.

Se mi sono comportato cosi nei confronti dei miei figli, non era perché volevo crearmi un alibi. Col passare del tempo, sono sicuro che grazie a mia moglie sarebbe stato detto tutto, e infatti lei gli ha raccontato quello che non avevo avuto il coraggio di fare io.  Adesso mi sento molto più tranquillo e spero che i miei piccoli mi perdoneranno per il male che gli ho recato.

Per la mia esperienza personale vorrei trasmettere ai miei compagni di sventura che sono genitori di non comportarsi come mi sono comportato io precedentemente. È meglio raccontargli piano piano come è la realtà, perché da quanto ho capito, è meglio che la verità gliela dice il proprio genitore, invece di sentirselo dire da una persona estranea; anche per essere più credibili in futuro.

Avendo perso la credibilità di padre, la paura mia più grande è che un domani si possano trovare con dei ragazzi che li portano sulla cattiva strada. Io spero che non succeda mai, anche perché mia moglie in questo periodo gli sta facendo da entrambi genitori e spero che al più presto potrò riprendermi il posto di papà.

Giovanni Tramontana

Genitori e Figli

Esplorando Dedalo: scambi in chat

A seguito dell’incontro dell’Officina della Creatività di martedì 30 marzo su zoom, si è innescato uno scambio di riflessioni sulle figure di Dedalo e Icaro, la sua colpa, il suo destino:

Marco: Volevo condividere una riflessione che c’entra col discorso affrontato oggi sulle differenze di genere e allo stesso tempo con il mito di Icaro, così per prendere due piccioni con una fava. Per sgombrare il terreno da possibili stereotipi che intacchino la fertilità del mito e, preso atto del fatto che detenuti ed ex detenuti del gruppo sono di sesso maschile, vi faccio la seguente domanda: che differenza c’è tra la trasgressione di Dedalo e il suo superamento del limite con la trasgressione di Pasifae che supera anch’essa un limite? Accoppiarsi con un essere che non appartiene al genere umano non è anch’esso sintomo di arroganza e di presunzione di chi vuole giocare a fare Dio? Si potrebbe obiettare che l’ha fatto perché Minosse la trattava malissimo, vero, ma allora un sopruso subito giustifica il superamento del limite ?

Juri: Anche io trovo interessante il quesito di Marco. Vi dico in breve che nei miti greci è quasi sempre presente l’idea che l’essere umano diventa colpevole di colpe necessarie per la conoscenza e per lo sviluppo dell’uomo. Questo o quell’altro fanno qualcosa che è male ma che è scritto debba accadere. La cosa somiglia all’idea che in ogni uomo c’è il seme di tutto, ma poi saranno soprattutto alcuni a ricordarcelo diventando i portabandiera della colpa, del peccato, della difficoltà che l’uomo incontra nel vivere e nel suo percorso di emancipazione.

Olga: Ciao Marco. Il tema comincia a lievitare! Adesso sto cucinando e non posso dilungarmi. Di getto, qualche considerazione: 1) perché Dedalo ha sfidato la divinità ? 2) Dove ricavi ciò ? 3) l’ impalcatura delle ali inventate è un bisogno di libertà per se stesso perché trova ingiusto essere stato imprigionato dal suo stesso committente ma anche per dare libertá al figlio. Anche Minosse ha le sue colpe verso la divinità (Poseidone). 3) per Pasifae si, è lussuria, ma non trasgredisce soltanto a causa della tirannia di Minosse (è una donna di quel tipo di società, anzi è la first-lady di un regno, sebbene l’ adulterio sia una colpa. Qui, addirittura è lussuria. Per Pasifae, è come dice il Dottore, “l’essere umano diventa colpevole di colpe necessarie per lo sviluppo dell’uomo, etc…..”

Marco: Ciao Olga, Dedalo “gioca a fare Dio “ secondo me, non sfida nessuna divinità. Si autoconferisce la facoltà di superare un limite imposto prendendo il volo come se fosse un Dio e, dall’alto della sua arroganza, non curandosi delle conseguenze che l’azione avrà per se ma sopratutto per il figlio

Olga: Ci rifletterò un po’ … Al momento Dedalo mi sembra un Narciso superlativo

Ottavia: Ciao Marco, secondo me si può dire che Dedalo sfida la divinità, anche se indirettamente. Cioè se ammettiamo L’esistenza di Dio e Dedalo cerca di superare tutti i limiti giocando a fare Dio, ne deriva che in questo modo sta sfidando la divinità. La sta sfidando perché Dio non ammetterebbe che un essere umano si comporti come se fosse qualcos altro  da sè e quindi appunto un Dio

Marco: Bello, mi piace ! Interessante punto di vista dalla sfumatura agnostica

Sofia: Capisco in che senso Dedalo possa essere considerato colpevole nella direzione della “übris” tragica, tuttavia non sono d’accordo. Personalmente vedo una differenza sostanziale tra lui e Ulisse, ovvero colui che tenta il “folle volo”, per dirla con Dante, e che, per l’appunto, finisce nei gironi del suo inferno. Per come lo vedo io, Dedalo è l’ennesima (riuscita) rappresentazione che il mondo greco dà dell’uomo che punta in alto per elevarsi e crescere. Dedalo è il labirinto. Secondo una concezione molto greca del “fare”, l’uomo è la sua opera. Non per niente il labirinto creato da Dedalo prende il suo nome. Quando Dedalo supera i limiti dell’opera che lui stesso ha creato,  si dà un’altra occasione per crescere e creare (nel senso della creatività e quindi della libertà). Il labirinto prende il nome da Dedalo ma Dedalo deriva il suo nome dal verbo greco daidàllo che significa “lavorare con impegno”. C’è forse un’attitudine più virtuosa per l’uomo se non quella di lavorare con impegno? Dedalo lavora con impegno per superare i propri limiti, NON i limiti della natura umana. Il suo fine è la libertà, non il sole (dio). Sarà il figlio Icaro, che non possiede la stessa virtù (arte, intelligenza, forza, creatività) del padre, a fare un uso tracotante dello strumento che Dedalo gli ha messo a disposizione portando entrambi alla morte anziché alla libertà. Qui sta secondo me lo straordinario senso del tragico di questo mito greco: ciascuno cresce con gli strumenti che si sa dare, ammesso che qualcuno sia capace di dotarsene è impossibile condividerli. È la storia del mito della caverna: lo schiavo che si libera dalle catene e dalla menzogna delle ombre quando tenta di liberare i suoi compagni viene ucciso. La libertà è una conquista solitaria a cui però la cultura greca cercava di educare tutti e ciascuno.

Alessandra: Mi permetto di domandare: nel momento in cui Dedalo uccide il nipote non ha forse sfidato Dio?

Olga: Ciao, Alessandra. In armonia con il suggerimento di Sofia, faccio questa considerazione:1. Se Dedalo è la sua opera, cioè il lavorare con l’impegno, ha già un obiettivo verso cui tendere; 2.  Così, “l’eroe o semidio” non può prescindere dall’ obiettivo finale che deve portare a compimento; 3. Quindi, secondo me, Dedalo è un “eroe culturale”, che non avrebbe bisogno di confliggere con la divinità; 4. poiché è già “ingegno”, non può tollerare di avere un rivale (umano) nella sua scienza e, quindi, afferma la sua ambizione, eliminando Talo senza velleità divine (è soltanto una mia opinione. Dalle ricerche fatte, al momento, non ho trovato altri collegamenti mitologici o letterari…. però bisogna continuare a studiare e confrontarsi)