Fëdor Michajlovič Dostoevskij

Ti ho cercato subito, giovedì appena uscito dal carcere di Bollate alle sei del pomeriggio.

Avevo qualcosa di nuovo da chiederti.

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I Conflitti della famiglia Karamazov

Quella porta che si apre

La serata inizia con alcuni volti noti fra i detenuti, che mi accolgono con un vibrante “ciao prof!”, rido, non sono prof, almeno per ora, chissà. “Ma che gelo”, rispondo – “eh sai com’è. Qui siamo al fresco” ribattono. Uno scambio di battute che mi ha fatto sorridere, sensazione di essere entrata in una comunità di cui mi sento di qualche modo di far parte, un pezzo di casa. Assurdo trovare questa sensazione da queste parti, a pensarci bene, ma tant’è. Il calore dei saluti contrasta col freddo. Il riscaldamento non funzionante, in gennaio, purtroppo, è un benvenuto che racconta di fondi mancanti e incuria. Nel novembre scorso, sempre da queste parti, ho dovuto far attenzione a non scivolare sul pavimento bagnato: acqua infiltrata per la pioggia battente. Mi sovviene un esperimento sociologico studiato ai tempi dell’università in cui era stato dimostrato che il degrado genera, ovunque, sempre maggior degrado, per una dinamica intrinseca e caratterizzante il comportamento umano. Occorre più cura, soprattutto qui dentro.

Il teatro è gremito. Mi guardo intorno. Ho l’impressione che tanti stasera entrino in carcere per la prima volta. Obiettivo centrato, sala piena. Me ne compiaccio.

Con i saluti di rito arriva potente l’invito di Aparo agli agenti di polizia penitenziaria, di mettersi in gioco ed entrare a fare parte del gruppo. Aparo, immaginazione al lavoro, che alza sempre la posta. Sarebbe bello. (Mi chiedo: non sarà forse troppo difficile proprio nel carcere e nei reparti dove lavorano?)

Iniziamo. Delitto e castigo, oggi. Penso a quel libro parcheggiato lì, sulla mia libreria, in attesa di essere letto, sorpassato da altri di cui ho sentito più urgenza. Così, arrivo a questo incontro curiosa e impreparata; aspetto impaziente di vedere questo corpo a corpo con un libro, di capire come temi, personaggi, protagonisti siano stati avvicinati, fatti propri dal gruppo.

Il più anziano riassume una trama complessa in maniera efficace. Nonostante l’accento, mi pare di poter pensare, molto bene.

Dal pomeriggio mi porto a casa due cose, una domanda e la figura di Sonja/Marisa.

 La domanda, anzitutto: il protagonista a un certo punto si chiede: “Ma io, sono come un pidocchio o sono come Napoleone?”.

Dice Nori, in sanguina ancora, riferendosi a questa domanda “e ho avuto, mi ricordo perfettamente, la sensazione che quella cosa che avevo in mano, quel libro pubblicato centodieci anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Avevo ragione. Sanguina ancora.”

Quanto mi affascina, da sempre, sentire chi può permettersi di soppesare le parole, indugiare in una traduzione, con la responsabilità di chi intende condurre per mano senza tradire. Così affascina Nori, quando snocciola parole in una lingua che suona ostica e impronunciabile, mentre cerca di farci mettete a fuoco quell’insetto: immaginatevi una carogna, peggio, una carogna tremante, un essere spregevole – diciamocelo pure, un giovane oggi direbbe, semplicemente: una merda. Ci penso. Personalmente opto per pidocchio, quegli insopportabili parassiti che un anno fa ho combattuto per tre mesi sulla testa di mia figlia, e che non riuscivo a debellare in nessun modo. Un parassita, un essere che vive nutrendosi di sangue altrui. Che si moltiplica incontrollato, ne lasci uno libero e te ne trovi 100.

 Sono un eletto o sono un pidocchio? Se uno, come me, rifiuta categoricamente la divisione del mondo in due categorie di uomini, (pericolosissima, se è vero che Nietzsche dirà di aver trovato in chi scrive Delitto e castigo un “fratello di sangue”), tenderei a pensare che la domanda ci interroga sulla misura del nostro spessore, dell’impronta che ciascuno lascia nella società, del contributo offerto nel costruirla o viceversa nell’affossarla.

A te chi ti ha dato l’autorizzazione di uccidere? Domanda Aparo a uno che qui sembra rinchiuso da parecchio tempo. “Me la sono presa”. Certo, continua, l’ambiente era degradato e degradante. Certo, ci sono le circostanze, le attenuanti, i ma, i però, le congiunzioni avversative o le concessive. Ma in fin dei conti l’autorizzazione, ciascuno, se la prende da solo, è la risposta corale.

Il gruppo è per me da anni quel lusso – che vale la mezza giornata di ferie – in cui concedersi del tempo per ragionare. È evidente che questa dinamica, questa parabola discendente che va dal non sentirsi compreso al sentirsi legittimato a un abuso, questa altalena che trasforma un senso di impotenza in un senso di onnipotenza menefreghista non si trovi solo in chi uccide.

Penso ai colleghi che fanno quiet quitting al lavoro, a chi trova un amante. Accomunano le circostanze, e le premesse. Di chi si sente non adeguato, non sufficientemente valorizzato, non compreso, a volte addirittura in gabbia, di chi non vede all’orizzonte una progettualità possibile. Tempo fa qualcuno mi disse: se sei in una stanza e ti accorgi di sentire caldo, di solito hai sempre più di una opzione: togliere il maglione, aprire la finestra, abbassare il riscaldamento, uscire dalla stanza, ovviamente anche stare a lamentarti per il caldo, anche morire per il caldo, nel caso in cui diventasse veramente eccessivo.

Negli anni ho constatato che non sempre da soli si riesce a mettere a fuoco quanto si sta male, perché si sta male o cosa si potrebbe fare per cambiare. O non sempre si riesce ad avere, da soli, la forza o la possibilità di mettere in atto un cambiamento. Lo osservo in maniera così netta ed evidente sui miei figli… tipicamente sclerano e si urlano addosso in circostanze sbagliate di cui hanno ben poca responsabilità (ritmi della giornata costruiti male, fame, stanchezza..). Ma è una dinamica che rileggo anche su di me o su altri adulti che ho di fianco. Però, certo, l’adulto deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Sempre? Quando osservo contesti in cui il degrado è troppo iniquo mi verrebbe da interrogarmi sul grado di “responsabilità dei burattini”.

Alla me adulta suggerirei quantomeno l’importanza di sapersi fermare e trovare le giuste strategie, i giusti alleati, che ti aiutino ad aumentare di spessore e non a diminuirlo. Ecco. Quali, in questo periodo? Mentre sosto, spersa in queste derive del ragionamento, stasera, si impone la figura di Marisa, che sbaraglia tutti.

 Marisa viene chiamata in causa quando si parla del personaggio di Sonja, figura da scoprire, l’amore che tiene in equilibrio il mondo, che non giudica ma convince. Per me Sonja è Marisa, dice un detenuto. E allora Marisa Fiorani, a 84 anni, inizia a parlare con una forza così prorompente che io, che di anni ne ho la metà, penso che se arrivassi a 84 anni con la metà della sua forza ne sarei onorata.

Si presenta in maniera sintetica, Marisa: io sono una a cui hanno ammazzato la figlia. (Non si può capire però, in questa sintesi, quante ne abbia passate, quanti schiaffi abbia ricevuto, anche dalle autorità che non dovevano proprio permetterselo. Io, che in altre occasioni ho ascoltato un pochino di più della sua storia, penso che questa sintesi non le renda sufficiente ragione).

Eppure lei stasera sta alla sfida della sintesi e incanta. Quando c’è un dolore così grande, così grande, dice, ti viene voglia di piegarti in due e chiuderti su te stesso, piegare le braccia: questa sarebbe la reazione naturale. Ma io no, io ho deciso che dovevo impormi di stare dritta e aprire le braccia, amare, stare dritta e incontrare chi ha un dolore che assomiglia al mio. È con questa postura che da anni viene in carcere, con una presenza potente che non dubito possa trasformare gli animi. Questa immagine meravigliosa di chi nel dolore, nell’ingiustizia, impone a se stesso di stare a schiena dritta e a braccia spalancate credo mi interrogherà a lungo.

Francesco dice che questa serata c’è stata e ha avuto questa forma anche perché anni fa io gli ho regalato il libro “noi la farem vendetta” di Paolo Nori.

Che cosa vuol dire, vendetta, cerca di spiegare Nori a sua figlia nel finale del libro. “la punizione migliore è guardarlo e pensare La tua punizione è essere quello che sei”. Ma l’impressione, stasera, è che la “vendetta” del gruppo non si fermi qui, a illuminare una presa di coscienza di sé, con tutto il dolore che comporta. Il passo successivo, oltre a dirti “tu sei quel che sei” è prendere per mano e condurre a immaginare una progettualità, su di sé e per la società, e accompagnare nel metterla in atto.

Allora grazie al gruppo per questa serata, per avermi fatto venire voglia di leggere delitto e castigo, per avermi incuriosito su questo impronunciabile Raskolnikov e questa Sonja, prostituta sì, ma così dolce ed efficace nel suo “stare affianco”. Per aver aperto una porta sulle vostre vite, vissute senza dubbio nei loro chiaroscuri, e, soprattutto, per avermi fatto indugiare su parti luminosissime del quadro.

Grazie ai professionisti presenti e futuri (che bravi, gli studenti sul palco!) che trovano gli strumenti per umanizzare la loro professione.

Io ci credo, nella necessità di fare cultura, nella cultura come strumento insostituibile di crescita. Antonio Gramsci scriveva nel 1916, a 25 anni: «La cultura… è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri». E ogni volta che qualcuno riesce a fare cultura, aprendo una porta – sia essa quella di un libro, o quella di un carcere, quella di un incontro… ecco: trovo ci sia da festeggiare.

Delitto e Castigo

Aleksej – week 2

Egli allora aveva appena vent’anni (suo fratello Ivan ne aveva ventiquattro e il maggiore, Dmitrij, ventotto). Prima di tutto dirò che questo giovane, Alëša, non era affatto fanatico e, almeno secondo la mia opinione, neppure un mistico. Esporrò subito la mia opinione per intero: egli era semplicemente un precoce filantropo, e se aveva imboccato la strada del monastero, era unicamente perché in quel tempo solo essa lo colpì e gli si presentò, per così dire, come l’ideale dell’esodo della sua anima che lottava per liberarsi dalle tenebre della malvagità umana per andare verso la luce e l’amore. E questa strada lo colpì unicamente perché su di essa incontrò una creatura straordinaria, secondo la sua opinione, il famoso starec Zosima del nostro monastero, al quale si affezionò con tutto l’ardente primo amore del suo cuore insaziabile. Del resto, non discuto che anche allora egli fosse piuttosto strano, lo era stato sin dalla culla. […] Nell’infanzia e nella prima giovinezza, egli era stato introverso e persino taciturno, ma non per diffidenza, né per timidezza o cupa misantropia, anzi era persino il contrario, ma per qualche altra ragione, per qualche inquietudine interiore, strettamente personale che non riguardava gli altri, ma così importante per lui che, a causa di essa, quasi dimenticava le altre persone. Tuttavia amava la gente: in tutta la sua vita aveva sempre avuto fiducia nelle persone e, nel contempo, nessuno mai lo aveva considerato uno sciocco o un ingenuo.

✏️ Fëdor Dostoevskij, gennaio 1879 - novembre 1880

🎨 Luca Lischetti, gennaio 2024


["La vita ci toglie qualcosa, rendendoci orfani. Come reagiamo?" I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate - week 2]

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Qualcosa capisco, dove non capisco…

Alla domanda “qual è l’obiettivo che io mi pongo in questa ricerca”, dopo alcuni giorni di riflessione per cercare di trovare il mio vero motivo, scavando più a fondo, ho capito di voler provare a guardare oltre le sbarre, di ferro, del cuore e della mente, per scoprire cosa c’è dietro, ma soprattutto cosa c’è dentro.

Ho sempre amato andare oltre le apparenze e l’immagine, cercando di non cogliere solo il bianco o il nero, il bene o il male, il giusto o lo sbagliato, ma provando a lasciarmi stupire da tutte le sfumature che stanno nel mezzo e che sono il collegamento tra estremità di qualsiasi genere, il ponte che unisce, superando un concetto di dualità.

Ci sono alcuni punti che più di altri mi hanno colpito e che mi sono rimasti dentro. E forse questo è un altro dei motivi per cui ho scelto di essere qui: assorbire il più possibile, come una spugna, non soltanto ciò che viene detto, ma soprattutto ciò che viene trasmesso da sguardi, gesti, sorrisi, pianti e tutto ciò che le parole non sempre possono esprimere.

Il primo riferimento che vorrei fare è alla speranza, che dal mio punto di vista è strettamente connessa alla forza e al coraggio. Questa capacità è ciò che permette di andare avanti, lottare e vedere con gli occhi del cuore e della mente qualcosa che ancora non c’è. È crederci prima di chiunque altro o al di là di chiunque altro e avere fede, in se stessi, negli altri, nella vita.

L’ho ritrovata nella lettera di Stefano indirizzata a se stesso, così come ho percepito un grande impegno nel cercare di perdonarsi e di perdonare.
Anche nel caso del perdono penso che tutto parta dalla propria persona, dal fatto di riuscire a perdonarsi prima di poter perdonare qualcun altro. Mi chiedo infatti come sarebbe possibile riuscire a perdonare qualcuno senza essere prima riusciti a perdonare se stessi e se ci siano casi in cui questo sia invece accaduto.

Il secondo riferimento riguarda l’empatia. Tra le varie domande ci è stato chiesto quali, secondo noi, potrebbero essere degli strumenti utili ed efficaci per mettere in atto una vera e propria trasformazione. La mia risposta a questa domanda ha a che fare con programmi di educazione/rieducazione emotiva, all’empatia, alla comprensione degli stati d’animo altrui. Mostrare in modo concreto quali possono essere le conseguenze delle proprie azioni, cercando di vestire i panni di chi si ha di fronte, sia concretamente (laddove possibile) sia usando il grande potere che hanno gli esercizi immaginativi.

Penso che anche empatizzare sia qualcosa che si possa imparare a fare, con l’aiuto di una guida, tanta pratica e una corretta psicoeducazione sull’argomento. Il tutto affiancato a programmi di regolazione delle emozioni, per imparare a gestirle ed esprimerle nel modo più adatto ed efficace a sé, ma senza ledere qualcun altro.

Ci sono infine due frasi che mi piacerebbe condividere e che mi è capitato di sentire nel corso degli anni, dal momento che sono state di grande aiuto per me nei momenti di difficoltà. La prima è questa: “Pensa ai tuoi genitori e a come avresti voluto che fossero stati con te, come avresti voluto che si fossero comportarti con te, le parole che avresti voluto sentirti dire, i gesti che avresti voluto ricevere e poi diventa quel genitore. Prima per te stesso e, dopo, per tutti gli altri”.

La seconda, invece, è questa: “Qualcosa capisco. Dove non capisco, arrivo con l’amore”.

Ognuno può scegliere di usarle e adattarle a sé, di interpretarle come meglio crede e di lasciarsi trasportare dal loro significato in totale libertà. Sono doni che mi sono stati fatti e che oggi vorrei donare a voi.

Ruben Corbellini

I Conflitti della famiglia Karamazov

Carcere di Opera, Delitto e Castigo

Al carcere di Opera discussioni su Delitto e Castigo di Dostoevskij

scritto da Claudia Radente il 02 Febbraio 2024 – Da Sole 24 ore

Quando si entra nel corridoio che nel carcere di Opera ti porta alla sala teatro, si sente freddo. Un freddo non solo fisico, perché è fine gennaio e riscaldare ambienti così grandi è sempre complesso. Ma è anche un freddo di stranezza, timore e circospezione. Si superano i controlli per entrare nel luogo che ha visto passare Totò Riina e Bernardo Provenzano. Si vedono le sbarre e si cammina silenziosamente scortati dalle guardie. L’aria si fa meno fredda e meno pesante quando si legge il nome del corridoio: galleria delle opportunità.

Nella galleria, alle pareti, le immagini e le locandine di tutte le attività che si svolgono dentro a questa che è una delle più grandi strutture carcerarie italiane, che ospita 1400 detenuti, di cui 1300 con condanna definitiva. Tra le iniziative che associazioni e volontari portano avanti nel carcere, il 25 gennaio 2024 alle 17 nella sala del teatro del carcere si è parlato proprio di opportunità. Questa è la parola chiave che ha permeato l’incontro organizzato dal Gruppo della Trasgressione e che ha visto confrontarsi i suoi partecipanti: detenuti, magistrati, studenti universitari di giurisprudenza e psicologia e familiari di vittime della criminalità.

Durante cinque mercoledì di novembre 2022, il Gruppo Trasgressione, fondato dallo psicologo e psicoterapeuta Angelo Aparo ha organizzato degli incontri per analizzare il capolavoro di Fëdor Michajlovič Dostoevskij ‘Delitto e Castigo’, analizzare le motivazioni del delitto del suo protagonista Raskol’nikov, le sue velleità di onnipotenza iniziali e il suo percorso di espiazione. La serata è servita al gruppo per presentare i risultati di questa singolare ricerca a un pubblico di trecento auditori.

Occasione, riscatto e opportunità sono i temi al centro del confronto. ‘Raskol’nikov si sente un superuomo, quando uccide l’usuraia. Dopo tuttavia soffre e capisce che non lo era, grazie all’amore per Sonja, per noi Sonja sono Marisa e Paolo’. Dice Domenico, ergastolano da 31 anni, si rivolge sul palco a Paolo Setti Carraro, fratello della seconda moglie del generale Dalla Chiesa e Marisa Fiorani, la cui figlia è stata trucidata dalla sacra corona unita.

Marisa Fiorani si sente realmente come Sonja Marmeladova. La ragazza di cui il giovane protagonista del romanzo si innamora e per cui decide di confessare il delitto. Per superare il profondo dolore della morte della figlia, Marisa Fiorani ha combattuto per non chiudersi in sé stessa e “ha aperto le braccia, per entrare nel carcere e trovare il dolore dall’altra parte. Ha visto che le braccia erano aperte’, come le sue. Questa è stata la sua opportunità. Il dolore come racconta uno degli studenti ‘ non è solo di chi subisce, ma anche di chi commette, anche di chi condanna e di tutti coloro che stanno vicino’.

L’opportunità è anche quella che ha avuto Alberto Nobili, leggendario PM che sfidò i boss di Milano, che ha affidato a un messaggio audio la sua testimonianza sul palco della trasgressione. Lavorare con questo gruppo ha messo in evidenza ‘la bellezza della legalità, stando accanto e discutendo con quegli stessi detenuti che avevo fatto condannare’.

Il lavoro del Gruppo della Trasgressione è stata una vera palestra come racconta Paolo Setti Carraro dove ‘si suda e si lavora. Ognuno ci mette del suo. Il libro è solo un pretesto che ci ha permesso di discutere e pensare aspetti fondanti della devianza umana: arroganza e abuso. Il lavoro che si fa, serve per far emergere e per assumersi le responsabilità di quanto accaduto. Scoprire emozioni sconosciute, l’umanità di ognuno di noi. Questo è il senso del pretesto. Così diamo un senso e un’opportunità al dolore che ognuno di noi prova e ha provato’.

Di nuovo opportunità, di nuovo occasione, di nuovo riscatto. Il carcere non deve essere come quel corridoio freddo chiuso da delle sbarre. Un punto di fine, senza speranza. Deve essere un punto di riflessione, di cambiamento e di ripartenza.

A Paolo Nori, scrittore e traduttore dal russo, la conclusione della serata. Si complimenta per la grandezza dei discorsi dei detenuti che ha ascoltato e che hanno messo a nudo le loro debolezze come Raskol’nikov con Sonja, ma rincara anche lui la dose sull’opportunità del carcere. Siamo troppo abituati a vederlo solo come punizione, come una società di persone reiette che non hanno e non devono avere più possibilità. Chi di noi non è Raskol’nikov? ‘Io’-dicesono Raskol’nokov’. Dostoevskij stesso è Raskol’nikov‘.  In carcere si deve poter costruire, imparare, ricostruirsi. Lo stesso Dostoevskij è stato un reietto e i suoi migliori libri li ha scritti dopo essere stato dieci anni in carcere. ‘leggete la Certosa di Parma di Stendhal, la parte più bella è il racconto della prigionia del protagonista Fabrizio’.

Il carcere non deve essere un punto di fine. Il Gruppo Trasgressione svolge un magnifico lavoro che dà un senso alla giustizia riparativa.

Delitto e Castigo

 

Dmitrij – week 1

Dmitrij Fëdorovič, un giovanotto di ventotto anni, di media statura e dal viso gradevole, sembrava tuttavia molto più vecchio della sua età. Era muscoloso e si poteva intuire che fosse dotato di una notevole forza fisica, eppure il suo viso aveva un’espressione poco sana. Era piuttosto magro, le guance erano incavate e nel loro colorito c’era una sfumatura giallastra. I suoi occhi scuri, abbastanza grandi e sporgenti, avevano uno sguardo di ferma determinazione, eppure in essi c’era qualcosa di vago. Persino quando era agitato e parlava con irritazione, il suo sguardo sembrava non ubbidire al suo stato d’animo, ma tradiva un qualcos’altro, talvolta persino in contrasto con la situazione. “È difficile capire a che cosa stia pensando”, dicevano a volte quelli che parlavano con lui. Altri, che avevano colto nei suoi occhi un’espressione pensierosa e tetra, erano poi colpiti dalla sua inattesa risata, che testimoniava i pensieri allegri e giocondi che occupavano la sua mente proprio nel momento in cui aveva un’aria così cupa. Del resto, l’aria poco sana del suo viso in quel periodo era abbastanza comprensibile: tutti sapevano o avevano sentito parlare dello stile di vita inquieto e “dissipato” al quale egli si era abbandonato negli ultimi tempi nella nostra cittadina, come del resto era noto il livello di ira furibonda che raggiungeva nelle dispute con il padre sul denaro conteso.

✏️ Fëdor Dostoevskij, gennaio 1879 - novembre 1880

🎨 Luca Lischetti, gennaio 2024


["Ognuno di noi ha un credito verso un altro. Come intendiamo riscattarlo?" I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate - week 1]

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Il Credito e la Speranza di Dmitrij

Una parola, tanti significati, un <credito> che può essere variamente interpretato, a cui si può dare risposte diverse e da cui possono derivare conseguenze altamente diseguali. Fondamentale dinanzi ad un bivio è riuscire a percorrere il sentiero della bontà e della giustizia, quello del bene, come ha fatto Marisa.

Essenziale nel percorso è trovare un sano e credibile punto di riferimento che possa dare una svolta positiva alla propria vita e ritengo che, per rispondere alla domanda, questo sia l’obiettivo della mia ricerca: poter essere Speranza per chi quel credito ha pensato di riscuoterlo violando le regole di una sana convivenza, poter far loro capire che c’è chi li guarda con occhi diversi, che prova del bene, che è pronto a tender loro la mano per una sana rinascita e una corretta espiazione della pena, affinché sia la più consapevole ed educativa possibile. Cosa meglio di un dialogo che nasce per volere e non per dovere?

Nella vita non è mai troppo tardi per riscoprirsi, per scriversi una lettera di incoraggiamento come ha fatto Stefano, non è mai troppo tardi per scegliere il bene e l’onestà; nella vita non è mai troppo tardi per chiedere aiuto e allora io vorrò essere in questi incontri, e perché no, anche dopo, quel qualcuno che questo aiuto è felice di darlo, con un sorriso, con una parola, con la presenza, con un libro. 

Mi piace pensare che, nell’incontro di ieri, chi era lì detenuto ci abbia visti come ragazzi aperti, accoglienti e non escludenti, intenzionati a dare coraggio a chi sta riflettendo sui propri errori per non commetterne più.. credo che tutto questo sia Speranza!

Martina Bianchi

I Conflitti della famiglia Karamazov