L’altra giustizia possibile

Quanto coraggio ci vuole ad incontrare se stessi, quando tutto questo deve passare attraverso l’incontro con l’altro che ci ha ammazzato l’esistenza?

Credo di aver iniziato a pormi questa domanda solo 8 anni fa, accompagnando Marisa Fiorani, madre di Marcella di Levrano, uccisa dalla Sacra Corona Unita, ad un incontro al carcere di Opera con alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione, un tempo appartenenti alla criminalità mafiosa.

Prima, nella mia testa, abitava solo il ricordo di poche parole che un ragazzo mi confidò – in un campo profughi a Novo Mesto quando entrambi avevamo 22 anni – per cercare di spiegarmi cosa avesse provato ad uccidere un proprio simile. Avevo del resto affrontato tutto il percorso universitario incentrando la mia attenzione esclusivamente sul reo. E anche durante la tesi di laurea quello che mi aveva più appassionato, nella mia indagine presso il Tribunale per i Minorenni, era il dilemma di optare tra una giustizia rigorosamente punitiva, e pertanto definita paternalistica, e una che – in quanto più remissiva – era più simile ai tratti materni. Con una sintesi sicuramente oggi discutibile ma ancora viva nell’immaginario comune, avevo scelto di arruolarmi tra i fautori della prima tesi, salvo iniziare a ricredermi grazie a due eventi che come una benedizione hanno segnato profondamente, e quasi contestualmente, la mia esperienza di vita: essere diventato padre ed aver iniziato a camminare a fianco dei familiari delle vittime della criminalità organizzata.

Sono giganti, quest’ultimi, ai quali la vita ha lasciato in pegno – dopo la morte, per mano di altro essere umano, degli affetti più cari – un macigno di dolore, grande come una montagna. C’è stato un tempo, diverso per ciascuno di loro, durante il quale l’incontro con frammenti illuminati della Chiesa e della società civile ha offerto l’occasione per ricevere in dono scarponi e corde. Ma loro, quei doni, li hanno utilizzati non tanto per arrivare in cima alla montagna quanto per calarsi, ancora più in profondità, in quello che Dostoevskij definirebbe il sottosuolo dentro ciascuno di noi.

Come Margherita Asta, che proprio in un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” identifica l’esatto momento in cui ha iniziato a dare un senso alla morte dei suoi due fratelli gemelli: alla prima udienza del processo ai mandanti della strage di Pizzolungo, quando decise di ritrovare i tratti dei loro volti, sia pure trasfigurati, dentro lo squallore di un album fotografico. E proprio quel momento l’ha portata poi a voler incrociare anche il volto di chi, quei fratelli insieme a sua madre, aveva annientato per sempre.

Il coraggio delle donne non è, dunque, quello di affrontare il nemico in un campo di battaglia. Come voleva fare Giorgio Bazzega nell’alimentare la lista delle persone, legate all’uccisione di suo padre, che avrebbe dovuto – allo stesso modo – ammazzare. Fino a cambiare idea nell’incontro con Manlio Milani che era andato fino in Giappone perché voleva, lui invece, parlare con chi poteva essere responsabile della morte di sua moglie.

Prende forma, quel coraggio, con Daniela Marcone quando supera gli orizzonti di un dolore strettamente personale, e per questo necessariamente unico, per indicare con forza la necessità di costruire una memoria collettiva delle vittime delle mafie pugliesi.

Il coraggio delle donne passa dal saper fare i conti prima di tutto con i colori più scuri delle proprie emozioni, con quella loro capacità di saper dare a ciascuna di esse un nome esatto e, così, iniziare a lasciarsele dietro il cammino. Come Agnese Moro, in una delle pagine più dense del Libro dell’incontro, quando rilegge il referto dell’autopsia eseguita sul corpo di suo padre per essere certa di non averne tradito la memoria andando ad incontrare chi aveva contribuito ad ucciderlo.

Porta dentro di sé come elemento imprescindibile, il coraggio delle donne, il dono dell’accoglienza, capace – per loro stessa natura – di generare altra vita. E’ interessante che Paolo Setti Carraro abbia paragonato la sua esperienza di familiare di vittima di reato, attivo nei percorsi trattamentali in carcere, come simile alla attività di una ostetrica che aiuta – al più – a far nascere l’uomo dentro un criminale. Prendendolo per mano.

La giustizia riparativa ha bisogno delle mani di Marisa, Margherita, Daniela, Agnese e di tutte le altre donne che in tutti questi anni hanno tratto ispirazione dal loro coraggio. Ma ha bisogno anche delle mani di Manlio, Giorgio, Paolo e di tutti gli altri uomini che hanno deciso di scongelare il proprio dolore per provare a farne qualcosa di diverso.

Dentro di me e nella mia testa, ora, tutto torna: del resto Rembrandt regala alla sua più famosa immagine di accoglienza misericordiosa le mani di un uomo e di una donna.

Ma la giustizia riparativa ha bisogno che anche le nostre mani si uniscano alle loro: per accompagnare quella danza – come nel quadro di Matisse – affinché sia in grado di restituire un poco di senso a tutto questo sangue versato e, come in una trasfusione vitale, generare esperienze di pace.

[un estratto di questo contributo è stato pubblicato oggi su Avvenire, p. 4, a corredo di un intervista di Viviana Daloisio a Daniela Marcone dal titolo Fare pace con il dolore”. Daniela Marcone e le vittime di mafia]

Giustizia Riparativa

E’ ben strano tutto questo, Karamazov

«E’ ben strano tutto questo, Karamazov: tanto dolore, e poi ad un tratto saltano fuori con codeste frittelle! »

F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, epilogo 

 

18.4.1964/24.6.1987/5.4.1990: in ricordo di Marcella Di Levrano e di tutte le altre vittime della criminalità organizzata

 “Oggi ha guardato sotto la sua camicia
e c’era una ferita nella carne, così profonda e larga.
Dalla ferita un fiore splendido cresceva
da qualche posto in profondità.
Si voltò a fronteggiare sua madre
per mostrarle la ferita

che nel petto gli bruciava come un marchio a fuoco.
Ma la spada che lo aveva squarciato
stava nelle mani di sua madre.

 […] Anche se la spada era la sua difesa
era la ferita stessa che gli avrebbe dato forza.
La forza di riplasmarsi nel momento della sua ora più buia.
«La ferita ti darà coraggio e dolore» gli disse
«Quel tipo di dolore che non puoi nascondere»

E dalla ferita un fiore splendido cresceva
da qualche posto in profondità.

Ogni giorno un altro miracolo
Solo la morte ci terrà separati
Nel sacrificare una vita per la tua
Sarei il sangue del cuore di Lazzaro”

Sting, The Lazarus heart

I Conflitti della famiglia Karamazov

Fast car

“You got a fast car,
But is it fast enough so you can fly away
You gotta make a decision,
You leave tonight or live and die this way”

(Tracy Chapman, Fast car)

 

Il nostro viaggio nei conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate, a bordo della macchina condotta da Juri Aparo, si è concluso oggi con la pubblicazione – su Raiplay – dell’intera puntata di Caterpillar del 19 marzo.

illustrazione di Andrea Spinelli per Caterpillar, 19.3.2024

Una energia straordinaria e luminosa, una potenza di sguardi e suoni, parole e silenzi…. ascoltavo e guardavo con ammirazione e gratitudine, dalla mia sedia vicino a Marisa sul palco del teatro del carcere di Bollate, tutta questa bellezza che siamo stati in grado di generare insieme!

Nel 21° compleanno del nostro primo workshop in carcere con il Gruppo della Trasgressione, stasera – dopo aver riportato in cantina le valigie  – metto sul piatto del mio giradischi questa canzone che ho follemente amato, quando avevo 17 anni. Come spiega la stessa cantautrice, Fast Car è “la storia di una coppia che per costruirsi una vita insieme deve affrontare varie sfide, ma la relazione non funziona perché tutto pesa sulle spalle di uno dei due”.

Riascoltata – dopo tanti anni – nella notte dei Grammy il mese scorso, mi davvero tolto il fiato:

 

E ripensando ad alcuni tra i molti spunti emersi durante i nostri ultimi cinque incontri a Bollate, concordo pienamente con chi ha scritto che siamo in presenza di “una storia in musica dei diversi percorsi che la vita ci pone di fronte. Imboccarne uno piuttosto che un altro cambia irrimediabilmente l’esistenza, ma quell’auto che corre veloce continua a rimanere un simbolo di speranza”.

Buonanotte.

I Conflitti della famiglia Karamazov

L’uomo nuovo

 

🎤 Massimo Popolizio legge “I fratelli Karamazov” [libro XI, cap. IV]

✏️ Andrea Spinelli ritrae Paolo Setti Carraro, Marisa Fiorani, Fabio Caltabiano e Giuseppe Di Matteo insieme a Fëdor Michajlovič Dostoevskij

Il nostro impegno in memoria delle vittime innocenti delle mafie, per ricucire gli strappi 🌹

Carcere di Bollate, 19.3.2024

Fratello, in questi due mesi, nel mio intimo, mi sono sentito un uomo nuovo, in me è risorto un uomo nuovo! Era rinchiuso dentro di me, ma non si sarebbe mai manifestato se non fosse stato per questo colpo. Terribile! E che importa se dovrò trascorrere nelle miniere vent’anni a spaccare i minerali con il martello, questo non mi fa affatto paura, ho paura di ben altro: ho paura che si allontani da me l’uomo risorto! Anche lì, nelle miniere, sotto terra, ci si può trovare al proprio fianco il cuore umano di un ergastolano, di un assassino e si può fare amicizia con lui, giacché anche lì si può vivere, amare e soffrire! Si può far rinascere e resuscitare in quell’ergastolano un cuore raggelato, si può curarlo per anni e portare dal buio alla luce un’anima sublime, una coscienza sofferente, si può dare la vita a un angelo, resuscitare un eroe! E ce ne sono molti, a centinaia, e noi siamo tutti colpevoli per loro! Altrimenti perché avrei sognato quella “creatura” proprio in quel momento? “Perché è povera quella creatura?” È stata una profezia per me in quel momento! È per quella “creatura” che sono pronto ad andare. Perché siamo tutti colpevoli per tutti gli altri. Per tutte le “creature”, perché ci sono i bambini piccoli e quelli adulti. Sono tutte “creature”. Ci andrò per tutti, poiché qualcuno ci dovrà pure andare. Non ho ucciso nostro padre, ma devo andare. Lo accetto! Ho pensato a tutto questo mentre mi trovavo… fra queste mura scalcinate. Quelli sono molti, sono centinaia là, sotto terra, con i martelli in mano. Oh, sì, staremo in catene e non ci sarà libertà, ma allora, nel nostro grande dolore, noi resusciteremo in quella gioia senza la quale l’uomo non può vivere né Dio esistere, giacché Dio dà gioia, è il suo grande privilegio… Signore, che l’uomo si sciolga nella preghiera! Come potrei vivere sotto terra senza Dio? Rakitin mente: se cacciassero Dio dalla terra, noi gli daremmo rifugio sotto terra. È impensabile che l’ergastolano viva senza Dio, persino più impensabile che per un uomo libero! E allora noi, uomini del sottosuolo, dalle viscere della terra innalzeremo un tragico inno a Dio, presso il quale è la gioia! Evviva Iddio e la sua gioia! Io lo amo!» A Mitja mancava quasi il fiato mentre pronunciava questo discorso sconclusionato. Era impallidito, le labbra gli tremavano e dagli occhi gli rotolavano lacrime sul viso.
«No, la vita è ricca, c’è vita persino sotto terra!», ricominciò. «Tu non ci crederai, Aleksej, a quanta voglia io abbia di vivere, quale brama di esistere e conoscere sia sorta in me proprio tra queste mura scalcinate! Rakitin questo non lo può capire, quello che gli preme è costruire un edificio e dare in affitto gli appartamenti, ma io aspettavo te. E che cos’è la sofferenza? Non la temo, anche se fosse sconfinata. Adesso non ho paura, prima sì. Sai, forse, al processo non risponderò nemmeno… E mi sembra di avere tanta di quella forza in questo momento da poter sconfiggere tutto, tutte le sofferenze, pur di poter dichiarare e dire a me stesso ogni istante: io sono! Fra mille tormenti: io sono! Al rogo: io sono! Me ne sto attaccato alla colonna, ma esisto, vedo il sole, e se non vedo il sole, so che c’è. E sapere che c’è il sole, è già tutta la vita. Alëša, mio cherubino, tutte queste filosofie mi ammazzano, che vadano al diavolo!

I Conflitti della famiglia Karamazov

Smerdjakov – week 4

Con quell’appellativo – asina di Balaam – egli si riferiva al lacchè Smerdjakov. Questi era un giovanotto sui ventiquattro anni, non di più, straordinariamente misantropo e taciturno. Non che fosse timido o si vergognasse di qualcosa; no, al contrario, era altero di carattere e sembrava che disprezzasse tutti. Ma ecco che, arrivati a questo punto non possiamo fare a meno di dire anche solo due paroline sul suo conto. Era stato allevato da Marfa Ignat’evna e Grigorij Vasil’evič, eppure il ragazzo era cresciuto “senza la minima riconoscenza” come diceva di lui Grigorij, era selvatico e guardava il mondo in tralice. Da piccolo gli piaceva moltissimo impiccare i gatti, per poi seppellirli con tanto di cerimonia funebre. In quelle occasioni indossava un lenzuolo, che fungeva da pianeta, cantava e agitava qualcosa sul cadavere del gatto come fosse un turibolo. Faceva questo zitto zitto, con la massima segretezza. Grigorij lo pizzicò una volta mentre era intento a questa pratica e lo picchiò di santa ragione con la verga. Il ragazzo si rintanò in un angolo e tenne il broncio per una settimana. “Questo qui, a me e a te, non ci vuole bene, questo mostro”, diceva Grigorij a Marfa Ignat’evna, “e non vuole bene a nessuno”. “Tu non sei un essere umano”, diceva a Smerdjakov dritto in faccia, “non sei un essere umano, tu sei venuto fuori dal fradicio di un bagno, ecco che cosa sei tu…”.
✏️ Fëdor Dostoevskij, gennaio 1879 - novembre 1880

🎨 Luca Lischetti, gennaio 2024


["Quali sono le dinamiche che alimentano le fantasie di uccidere un padre?" I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate - week 4]

I Conflitti della famiglia Karamazov

Ivan – week 3

Per quale motivo Ivan Fëdorovič era venuto da noi? Ricordo che sin da allora mi ponevo questa domanda con una certa inquietudine. Non sono riuscito a spiegarmi per molto tempo, e quasi sino all’ultimo, quella visita tanto fatale, che fu il primo passo verso conseguenze di così grande portata. In generale era strano che un giovanotto tanto istruito, e dall’aria tanto orgogliosa e avveduta, comparisse all’improvviso in una casa così indecorosa, dinanzi a un padre di quello stampo, che per tutta la vita lo aveva ignorato, non lo aveva mai incontrato né degnato di attenzione e che certo non gli avrebbe mai dato del denaro, per nessun motivo, se il figlio glielo avesse chiesto, sebbene per tutta la vita avesse temuto che anche quei figli, Ivan e Aleksej, potessero venire un giorno a chiedergli soldi. Ed ecco che quel giovanotto si stabilisce nella casa di un padre di tal fatta, vive con lui un mese e poi un altro, e i due vanno d’amore e d’accordo, come meglio non si potrebbe immaginare. […] Era la verità, il giovanotto aveva una palese influenza sul vecchio; questi aveva quasi cominciato a dargli ascolto, sebbene a volte fosse estremamente e, persino perfidamente, capriccioso; aveva persino cominciato a comportarsi in modo più decente… Solo in seguito fu chiarito che Ivan Fëdorovič era venuto in parte su richiesta, e negli interessi, di suo fratello maggiore, Dmitrij Fëdorovič, che aveva visto e conosciuto per la prima volta quasi nello stesso periodo, in occasione di quello stesso viaggio, ma con il quale tuttavia, per via di una faccenda molto importante, che riguardava soprattutto Dmitrij Fëdorovič, era entrato in corrispondenza prima del suo arrivo da Mosca.

✏️ Fëdor Dostoevskij, gennaio 1879 - novembre 1880

🎨 Luca Lischetti, gennaio 2024


["Nel reato c'è anche l'affermazione del proprio diritto al rancore. Cosa hanno da dire al riguardo le istituzioni?" I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate - week 3]

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Aleksej – week 2

Egli allora aveva appena vent’anni (suo fratello Ivan ne aveva ventiquattro e il maggiore, Dmitrij, ventotto). Prima di tutto dirò che questo giovane, Alëša, non era affatto fanatico e, almeno secondo la mia opinione, neppure un mistico. Esporrò subito la mia opinione per intero: egli era semplicemente un precoce filantropo, e se aveva imboccato la strada del monastero, era unicamente perché in quel tempo solo essa lo colpì e gli si presentò, per così dire, come l’ideale dell’esodo della sua anima che lottava per liberarsi dalle tenebre della malvagità umana per andare verso la luce e l’amore. E questa strada lo colpì unicamente perché su di essa incontrò una creatura straordinaria, secondo la sua opinione, il famoso starec Zosima del nostro monastero, al quale si affezionò con tutto l’ardente primo amore del suo cuore insaziabile. Del resto, non discuto che anche allora egli fosse piuttosto strano, lo era stato sin dalla culla. […] Nell’infanzia e nella prima giovinezza, egli era stato introverso e persino taciturno, ma non per diffidenza, né per timidezza o cupa misantropia, anzi era persino il contrario, ma per qualche altra ragione, per qualche inquietudine interiore, strettamente personale che non riguardava gli altri, ma così importante per lui che, a causa di essa, quasi dimenticava le altre persone. Tuttavia amava la gente: in tutta la sua vita aveva sempre avuto fiducia nelle persone e, nel contempo, nessuno mai lo aveva considerato uno sciocco o un ingenuo.

✏️ Fëdor Dostoevskij, gennaio 1879 - novembre 1880

🎨 Luca Lischetti, gennaio 2024


["La vita ci toglie qualcosa, rendendoci orfani. Come reagiamo?" I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate - week 2]

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Dmitrij – week 1

Dmitrij Fëdorovič, un giovanotto di ventotto anni, di media statura e dal viso gradevole, sembrava tuttavia molto più vecchio della sua età. Era muscoloso e si poteva intuire che fosse dotato di una notevole forza fisica, eppure il suo viso aveva un’espressione poco sana. Era piuttosto magro, le guance erano incavate e nel loro colorito c’era una sfumatura giallastra. I suoi occhi scuri, abbastanza grandi e sporgenti, avevano uno sguardo di ferma determinazione, eppure in essi c’era qualcosa di vago. Persino quando era agitato e parlava con irritazione, il suo sguardo sembrava non ubbidire al suo stato d’animo, ma tradiva un qualcos’altro, talvolta persino in contrasto con la situazione. “È difficile capire a che cosa stia pensando”, dicevano a volte quelli che parlavano con lui. Altri, che avevano colto nei suoi occhi un’espressione pensierosa e tetra, erano poi colpiti dalla sua inattesa risata, che testimoniava i pensieri allegri e giocondi che occupavano la sua mente proprio nel momento in cui aveva un’aria così cupa. Del resto, l’aria poco sana del suo viso in quel periodo era abbastanza comprensibile: tutti sapevano o avevano sentito parlare dello stile di vita inquieto e “dissipato” al quale egli si era abbandonato negli ultimi tempi nella nostra cittadina, come del resto era noto il livello di ira furibonda che raggiungeva nelle dispute con il padre sul denaro conteso.

✏️ Fëdor Dostoevskij, gennaio 1879 - novembre 1880

🎨 Luca Lischetti, gennaio 2024


["Ognuno di noi ha un credito verso un altro. Come intendiamo riscattarlo?" I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate - week 1]

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Noi, tra il rogo che brucia e la danza che ci chiama

And the Court will rise
while the pillars all fall

[Peter Gabriel, The Court]

 

Racconta Peter Gabriel che inizialmente, alla ricerca di una immagine artistica da abbinare al lancio della sua nuova canzone “The Court”, quello che lo attrasse in quell’ intenso bruciore fu la sensazione di un qualcosa che restituisse visivamente “the result of the jugdment” (“l’esito della sentenza”).

Solo dopo scoprì ciò che si celava dietro questo scatto fotografico: un frammento dell’ennesima straordinaria visione artistica dello scultore inglese Tim Shaw, creata in risposta a quanto accaduto all’interno della Royal Academy of Arts all’inizio del 2022. E precisamente in risposta alla lettera di dimissioni inviata dagli artisti Gilbert e George, avente il seguente tenore: “Con la presente restituiamo le nostre medaglie e i nostri certificati … Malediciamo la Royal Academy e tutti i suoi membri”.

Ecco dunque il commento dello stesso Tim Shaw:Che si tratti di parole irriverenti o di energia tossica mirata, è una cosa seria maledire qualcuno. Essendo uno dei maledetti, sento l’obbligo di affrontare questo atto con una risposta vigorosa”. E così quel fuoco assume in realtà un significato diverso da una esecuzione, costituendo invece un passaggio necessario in un processo che dà il titolo alla sua installazione artistica: “togliere la maledizione”.

Questo si realizza attraverso un vero e proprio rituale collettivo ideato dall’Artista, originatosi già prima dell’accensione del rogo e confluito – dopo che le fiamme si spensero – in una processione danzante che sfilò verso il fiume alla luce delle torce: “una foschia fumosa si mescolava all’inebriante odore di campanule e aglio, mentre le ceneri venivano gettate cerimoniosamente nell’aria, nell’acqua e nella terra”.

 

Sono rimasto anche io estremamente colpito da tale cerimonia e da questo aneddoto che non conoscevo, pur avendo già apprezzato in passato lo scultore in altre sue famose opere, fortemente influenzate dalle sue origini irlandesi. Testimone diretto – all’età di 8 anni – dell’esplosione di una bomba al piano inferiore di un ristorante di Belfast dove si trovava con sua mamma (durante le tensioni dei primi anni ’70 a me solamente note grazie ad una delle prime canzoni degli U2 che ho amato), Tim Shaw è stato capace di restituire forma artistica anche alla “alternative justice” denunciando quella espressione di umiliazione pubblica, utilizzata nell’Irlanda del Nord nel medesimo periodo storico ma anche in epoca più recente, tramite l’uso di catrame e piume cosparsi su corpi di donne e uomini presi a bersaglio.

Tutto questo mi ha fatto ritornare alla mente un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”, quando il Giudice Marco Maiga con una mirabile sintesi afferma:

Lo scopo del processo non è quello di risarcire la vittima, di assicurare un colpevole alla vittima. Lo scopo del processo è quello di esercitare la cosiddetta pretesa punitiva dello Stato, cioè la pretesa di sanzionare, l’esigenza di sanzionare quelli che hanno violato le regole della comunità.  Il processo va avanti anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata se è ritenuta responsabile anche se la vittima non vuole”.

Ne discende una domanda, apparentemente innocua: e dunque, se la pretesa punitiva non è appannaggio del singolo individuo ma deve essere esercitata (solamente) dallo Stato, che ne è invece della cosiddetta “esecuzione della pena”?

In altre parole: possiamo dunque tutti noi, quali componenti della società civile, ritenerci ugualmente esonerati dal fornire alcun contributo nella fase che necessariamente segue alla comminazione della condanna?

Le traiettorie di questi ultimi 6 anni, che hanno portato alcune vittime dei reati della criminalità organizzata all’incontro con le persone detenute del Gruppo della Trasgressione, forse potrebbe suggerire una risposta di senso. E riportarci tutti a quell’immagine del rogo che, con gli occhiali che ci ha regalato l’Artista, può assumere un significato ben diverso da quello tradizionale di dannazione eterna.

Per farmi meglio intendere ho bisogno qui, necessariamente, di chiedere aiuto a quella “capacità collettiva di costruire orizzonti sociali di speranza e di affermazione” alla quale questa estate la filosofa Rosi Braidotti ci ha nuovamente richiamati (dopo averne diffusamente trattato nel suo libro “Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte) attraverso le pagine del Corriere della Sera:

L’affermazione non è il rifiuto del dolore, ma una maniera consapevole e propositiva di trasformarlo in materia vivente e creativa. L’affermazione è gioia, qualità ontologica, derivata dalla capacità condivisa da tutti noi, di attivare una memoria incarnata, cioè legata all’esperienza vissuta, anche quella del dolore. Attivarla per meglio esprimere il nostro nucleo vitale, che altro non è che il desiderio fondamentale di continuare a esistere attraverso le relazioni”.

Ai miei occhi quindi l’etica affermativa sembra imporre ineludibilmente, a ciascuno di noi, di essere parte attiva in quello che, nei termini giuridici, viene definito il percorso trattamentale del condannato detenuto. Per cercare di dare un contributo nel trasformare il dolore, che necessariamente il reato commesso ha causato non solo alle vittime dirette ma all’intero tessuto sociale, in qualcosa di diverso: qualcosa che assuma sempre più i caratteri ontologici di una riparazione.

E in questo l’esperienza del Gruppo della Trasgressione – tramite il lavoro sulle coscienze delle persone detenute che in esso si riconoscono – si identifica proprio in quel lento procedere, verso il fiume della trasformazione (il famoso πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός di Eraclito).  Un movimento collettivo che potrebbe ben essere appena uscito dal famoso quadro di Matisse:

In una danza che anche l’intelligenza artificiale, nel videoclip di “The Court” capace di trarre ispirazione (e trasformazione) dal linguaggio scultoreo di Tim Shaw e dalla lirica di Peter Gabriel, ripropone in un frame ugualmente efficace:

Accompagnando per mano vittime e rei, la sfida che attende ciascuno di noi è dunque quella di contribuire ai percorsi riparativi dello strappo che il reato ha causato: perché, parafrasando il Poeta (Baudelaire), solo la danza può rivelare tutto il mistero che la vita tiene nascosto.

Monza – Teatro Binario7, 13.10.23

 

Cura o tradimento

Se potessi fare a meno di decidere
non sarei di certo così stanco

Ogni volta è una conquista riconoscere
quale sia la mia metà del campo

Guardo i fogli ancora bianchi sul mio tavolo
non ho idea di cosa farci e quindi sto

come un uomo che è davanti ad un citofono
e non ricorda più il cognome

[Nicolò Fabi, Tradizione e tradimento]

 

Il tratto di strada tra Malaga e Siviglia mi ha recentemente regalato due meravigliose sintesi visive in relazione alle tematiche con le quali ci stiamo confrontando durante gli incontri del Gruppo della Trasgressione, in questo ultimo anno così denso.

Nella ricerca del famoso dipinto di Goya nella Cappella dei Dolori della Cattedrale di Siviglia, mi sono imbattuto – quasi per caso – in questa raffigurazione della Negazione di San Pietro davvero significativa.

La négation de San Pedro, sec. XVII

Balza subito agli occhi, da un lato, la “citazione” ai movimenti dei personaggi che ritroviamo nella Vocazione di San Matteo di Caravaggio. Dall’altro, singolare è il distacco che l’anonimo autore francese vuole farne rispetto alla Negazione di San Pietro che lo stesso Caravaggio dipinse negli ultimi anni della sua vita: tanto “privata” la dinamica di quest’ultimo quadro (in quanto ristretta a tre attori: San Pietro che nega, la donna che lo accusa del contrario avendolo visto insieme a Gesù, il soldato alla quale la donna si rivolge per farlo catturare), quanto “pubblica” invece quella che il pittore francese, seguace di Caravaggio, ha inteso raffigurare.

Qui infatti, almeno da una mia prima impressione, sembra proprio che il soldato non si accontenti del racconto della donna e, per questo, “chieda conto” ad altre persone, sia pure in altre faccende affaccendate.

Ecco dunque l’immagine complessiva che questo dipinto, in maniera plastica, mi restituisce:  non solo “la chiamata a trarre il meglio da sé” ma anche il suo contrario, ossia il “tradimento di sé attraverso la negazione di quello che siamo (stati)”, è questione che non può essere circoscritta ad una dimensione strettamente personale.

Durante il nostro ultimo inverno nel sottosuolo di San Vittore lo abbiamo ripetuto molte volte: è la funzione che noi attribuiamo all’altro ciò che può fare la differenza nel diventare nutrimento profondo per la sua evoluzione.

Però rimaneva sempre nascosta, in questa nostra dialettica volta a far (ri)nascere il sole nelle esistenze di giovani adulti, l’altra faccia della medaglia. E precisamente: che dire invece di chi non vuole rispondere alla chiamata? Di chi non vuole dissotterrare il talento? Di chi non vuole togliere il bavaglio nel quale ha imprigionato la sua coscienza?

Nel pensare pertanto a questo lato oscuro della luna, un altro quadro mi è venuto in soccorso: anche qui sempre grazie ad una “rivoluzione copernicana” rispetto alle nostre corde emozionali che un mese fa avevano vibrato al suono dei violini del mare.

Ed infatti, se le barche che hanno trovato infine approdo al carcere di Opera avevano necessariamente richiamato a ciascuno di noi – per non rimanere indifferenti al male – l’azione riprovevole dei carnefici, questo dipinto di Picasso mi suggerisce l’esatto contrario.

Barque de naïades et faune blessé, 1937

E’ risaputo come il pittore spagnolo avesse tratto anche dalla cultura greca fonte di ispirazione per la sua Arte visiva, ma qui non è tanto il tema della potenza distruttiva del Minotauro (a lui così caro) ad essere presente quanto quello della cura rigeneratrice, incarnata nell’azione delle Ninfe dell’acqua che soccorrono il Fauno ferito.

In altre parole è il mito rovesciato, dove le Ninfe non hanno più motivo di temere chi – fino a quel momento – le aveva fatte oggetto della sua riprovevole caccia.

E non vi ormai più ombra di dubbio che le “nostre” Naiadi siano proprio i Familiari delle vittime: ad iniziare da Marisa Fiorani con quell’incontro nel carcere di Opera del 6 settembre 2016, fino ad arrivare a Paolo Setti Carraro con la sua lettera (quasi un bilancio interiore) dello scorso giugno.

Ma penso anche a Manlio Milani e Agnese Moro, Giorgio Bazzega e alle tante altre donne e uomini che in tutti questi anni hanno fatto una scelta precisa quanto alla propria metà del campo. Perché questo quadro di Picasso ha, per me, la stessa forza evocativa di quel racconto che mi aveva fatto sobbalzare lo stomaco, una sera al cinema:

Di questo racconto, con il passare degli anni, apprezzo non solo la conclusione (quella che più di quindici anni fa mi aveva folgorato) ma anche l’inizio: questi Familiari hanno fatto un percorso interiore strettamente personale, ma in questa loro immensa fatica non sono stati mai lasciati soli.

Perché un altro proverbio africano dice che “per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”. Allo stesso modo per curare un essere umano – vittima o carnefice che sia – affinché possa ritrovare sé stesso, senza più tradire la sua più vera natura: orgoglioso di fare parte di questo villaggio, insieme a tutti voi del Gruppo della Trasgressione.

Percorsi della devianzaReparto LA CHIAMATA