Diari dell’esperienza al carcere di Opera

Gentilissimi,
nel rinnovare il mio ringraziamento per averci offerto il progetto più bello che abbia mai vissuto con i miei ragazzi, da quando insegno, vorrei condividere con voi i diari dell’esperienza in carcere scritti dai nostri studenti (della classe IVA liceo scientifico sportivo) nelle ore successive all’incontro.
Ancora grazie e a presto,
con stima e gratitudine!

Daniela Ferrari (Istituto Leone XIII, Milano)

La mia esperienza al carcere di Opera rimarrà indimenticabile.
Entrando all’interno del carcere abbiamo parlato con le guardie che ci hanno spiegato il funzionamento della struttura.
E’ stato un alternarsi di emozioni, di pensieri e di sensazioni più o meno piacevoli.
Spesso si arriva a un contatto fisico e di scontro tra guardie e carcerati che li porta a rimanere in isolamento per due settimane.
Successivamente abbiamo avuto l’incontro con i carcerati che ha rappresentato il momento più forte e toccante.
Mi ha stupito il sentir raccontare che alcuni carcerati possono avere una sola visita al mese a causa delle loro condanne.
Il racconto più drammatico e’ stato quello della signora che ha raccontato la morte violenta della figlia.
Questa esperienza mi ha lasciato tristezza e mi fatto capire che nella vita esistono realtà molto lontane da quelle che vivo tutti i giorni.
Al tempo stesso mi insegna che non si devono infrangere le regole di una società e che riuscire a riabilitare queste persone rappresenta un ostacolo ancora molto difficile da superare ma rimane un dovere per ognuno di noi.

L’incontro con i detenuti del carcere di Opera mi ha suscitato tante emozioni.
Essere fisicamente vicino, sentire raccontare la propria storia da persone che probabilmente potrebbe avere ucciso un’altra persona, mi faceva venire i brividi.
Allo stesso tempo però sentire la storia del proprio passato e le riflessioni sul pentimento, mi ha acceso qualcosa dentro, perché anche loro alla fine sono persone umane. A mio parere, il momento più toccante è stato quando la mamma ha raccontato l’ agghiacciante storia della figlia defunta. Sentire le sue parole, anche solo pensare che una mamma possa avere il coraggio di andare avanti e addirittura condividere questa storia, mi ha fatto venire i brividi.

L’esperienza della visita in carcere è stata molto particolare, piena di emozioni sia positive che negative. Una delle emozioni più forti l’ho provata appena ho superato la porta d’ingresso. Quando sono entrato all’interno delle mura ho sentito una sensazione di impotenza pura, come se fossi chiuso in un luogo da cui non puoi più uscire. Davanti a me c’erano due edifici enormi, quasi intimidatori, che mi hanno fatto subito capire quanto fosse diversa quella realtà da tutto ciò che vivo ogni giorno.

Quando siamo entrati nell’aula per incontrare i detenuti, all’inizio c’era un po’ di paura e timidezza. Non sapevamo cosa chiedere o come comportarci. Poi però, ascoltando le loro storie, quella distanza è diminuita. Mi sarebbe piaciuto avere più tempo per conoscere tutti, perché ogni persona aveva qualcosa di importante da raccontare. Alcuni volti mi hanno incuriosito particolarmente, mi chiedevo che vita avessero vissuto per trovarsi lì dentro.

Quello che mi ha colpito di più è stato il contrasto tra l’aspetto normale di quelle persone e ciò che avevano fatto. Vedendoli, sembravano persone come noi, con una vita come la nostra. Nessuno si sarebbe mai immaginato che dietro quei volti ci fossero storie così estreme, come omicidi o altri crimini gravi. Questo mi ha fatto capire quanto sia facile giudicare qualcuno solo in base a ciò che sappiamo di lui, senza fermarci a pensare che dietro ogni errore c’è una storia, una vita, delle scelte sbagliate fatte magari in momenti di difficoltà.

Alla fine questa esperienza mi ha lasciato una grande lezione. Mi ha fatto capire quanto siamo fortunati a vivere una vita libera, ma anche quanto sia importante stare attenti alle scelte che facciamo ogni giorno. Ogni decisione, anche la più piccola, può influenzare tutto il nostro futuro. E spesso basta davvero poco per trovarsi dall’altra parte di quel muro.
Durante l’incontro con gli ex e attuali detenuti del carcere di Opera, ho avuto l’opportunità di ascoltare storie di vita che mi hanno profondamente toccato. Quasi ogni detenuto ha condiviso la propria esperienza, descrivendo il percorso che li ha portati dietro le sbarre. Una storia in particolare mi ha colpito: un detenuto ha raccontato come è passato dalla vendita di stupefacenti fino a commettere un omicidio. Un’altra testimonianza, quella di una madre che ha perso la figlia, uccisa a colpi di pietra da un coetaneo a causa del mondo della droga, il quale lei aveva denunciato non apprezzando ciò che aveva vissuto in passato, ha reso ancora più evidente il dolore e la devastazione che questo mondo può causare. Altri detenuti hanno parlato delle loro lotte contro la tossicodipendenza e delle scelte che li hanno portati a perdere tutto. Queste storie ci ricordano quanto sia importante intervenire preventivamente e supportare chi è a rischio di entrare nel mondo della criminalità e della tossicodipendenza. Poi spesso uno dei detenuti rientrava sempre sull’argomento del fatto che, se si pensa a quando si è piccoli, capita di rubare una caramella, ma poi crescendo si rischia di arrivare fino a uccidere una persona.
Quindi crescendo può capitare che ti ritrovi a causa del tuo passato, della tua
educazione o della tua crescita, in situazioni sempre più scomode. È fondamentale offrire opportunità di riabilitazione e reintegrazione per chi ha commesso errori, affinché possano ricostruire la propria vita e contribuire positivamente alla società.

La visita al carcere di Opera è stata un’esperienza davvero unica e coinvolgente. Avere l’opportunità di interagire direttamente con i carcerati è stato un’esperienza che mi ha permesso di entrare in contatto con le loro storie personali e le difficoltà che hanno affrontato nel passato. È stato davvero emozionante sentire le loro parole, spesso piene di sofferenza e riflessioni sulla vita.
Un momento che mi ha colpito particolarmente è stato quando abbiamo ascoltato la storia di una madre che ha perso sua figlia, uccisa in circostanze drammatiche. La forza con cui è riuscita a raccontare questa tragedia, parlando di fronte a noi con tanta dignità, mi ha impressionato.
Inoltre, abbiamo avuto l’opportunità di riflettere su un libro che avevamo letto, “Denaro falso”, e su richiesta, ho cercato di identificarmi in uno dei personaggi. Questo esercizio mi ha fatto riflettere ancora di più sul significato della storia e sulle diverse realtà che ci circondano.
Nel complesso, è stata un’esperienza che mi ha lasciato una grande impressione, purtroppo in questo incontro non abbiamo potuto fare tutte le domande che volevamo, ma credo che nel prossimo incontro ci sarà l’opportunità.

L’esperienza al carcere di Opera è stata per me molto significativa e sono sicuro che mi rimarrà impressa per tutta la vita. Fin dal primo incontro con l’Agente e l’Assistente Capo Coordinatore della Polizia Penitenziaria sono rimasto stupito dal fatto che quest’ultimi non abbiano strumenti per difendersi in caso di aggressione e che, come riportato dalle due guardie carcerarie, l’unico strumento per difendersi sia la penna con cui stilano la relazione di servizio. Allo stesso tempo, un’altra cosa che mi ha lasciato il segno che una giovane donna avesse come desiderio quello di lavorare all’interno di un carcere.
Dopo aver fatto l’incontro con i detenuti, mi sono rimaste impresse varie cose, che qui di seguito elencherò, secondo un elenco puntato.

  • La prima cosa che mi ha colpito è il fatto che dei detenuti con delle condanne significative (ovvero per rapina, spaccio o omicidio) possano girare liberamente per la struttura senza l’uso di dispositivi che nei limitino i movimenti (come le manette), e che nonostante la loro vita sia dietro le sbarre, siano comunque relativamente tranquilli e sorridenti.
  • La seconda cosa che mi ha colpito è il circolo vizioso della malavita che vede passare da un semplice furto a una rapina, per poi passare allo spaccio o addirittura agli omicidi. In particolare poi, ho capito il significato profondo che esiste dietro al furto di una semplice caramella o di un barretta kinder all’autogrill: nel senso che noi banalizziamo questi atti ma che in realtà si configurano come dei veri e propri furti.
  • La terza cosa che mi ha colpito è la biografia personale che ogni detenuto presente al gruppo ci ha raccontato ed in particolare quella di Salvatore Forte. Grazie a quest’ultimo ho capito infatti quanto il contesto familiare o in generale l’ambiente in cui nasci e cresci condizioni realmente la vita di un uomo: il fatto che da piccolo fosse stato legato in bagno con una catena mi ha lasciato sconvolto.
  • La quarta cosa che mi è rimasta impressa è il fatto che le nostre preoccupazioni relative al carcere siano comuni: anche i detenuti sostengono che il sistema giudiziario italiano non fosse all’altezza della Repubblica e che quanto indicato dall’articolo 27 della Costituzione, nella realtà infine non si verifica.

In conclusione quindi sostengo che l’esperienza al carcere di Opera sia un passaggio fondamentale per la crescita di noi ragazzi essendo estremamente toccante e formativa.

Quest’esperienza al carcere di Opera mi ha colpito molto perché stare in una stanza con dei detenuti che hanno fatto certe cose per essere li, mi ha stupito come certi carcerati parlavano molto bene, uno dei carcerati di nome Vincenzo quando ha scritto un testo riguardante il libro mi ha stupito come era, perché era scritto molto bene.
Poi parlando sulla vita dei carcerati mi ha stupito molto perché ad esempio Salvatore, che come ha raccontato lui è stato legato con una catena a sei anni nel bagno di casa con tutte le luci spente, i suoi genitori nel mentre andavano al mare e questa cosa non immagino quanto lo abbia traumatizzato.
Questa esperienza la consiglio ad altre persone perché secondo me è giusto conoscere altre persone che non vivono la nostra vita o vedano cose crudeli e subiscono cose, secondo questa esperienza ti fa un po entrare nei loro panni e ti aiuti anche in futuro così che quando saremmo più non faremmo queste cose secondo me orribili.

L’esperienza nel carcere di Opera mi ha colpito molto, all’inizio ero un po’ spaventata, ma quando sono arrivati i carcerati dopo qualche intervento sia nostro che loro, mi sono tranquillizzata ed ho ascoltato con interesse le loro storie. La cosa che mi ha colpito di più è stata la storia di un dei carcerati, mi è dispiaciuto che lui abbia dovuto passare un infanzia brutta, ho provato a capire il perché lui poi si sia ridotto ad una vita in carcere e a fare azioni brutte, e la risposta a parer mio era perché non è stato amato e accompagnato nella sua crescita.
È stata un’esperienza davvero unica che non avrei mai pensato di fare.

Prima di entrare in carcere non sapevo bene cosa aspettarmi e provavo un po’ di ansia per il fatto di dover stare a contatto ravvicinato con i detenuti.
Confrontarsi con loro sul libro è stato interessante, la conversazione non era del tutto incentrata su “denaro falso” ma è servito ugualmente. A parer mio lo psicologo avrebbe dovuto lasciare più tempo e spazio ai detenuti per fargli parlare.
L’uscita al carcere di Opera, secondo me, è stata una bellissima esperienza, ma che poteva essere gestiti a meglio.
Appena prima di entrare nel carcere (fuori dalle mura esterne) avevo un ansia molto forte, che, fortunatamente, è stata stemperata dalle guardie del carcere e dal giudice che ci accompagnava, perché ci hanno fatto una breve introduzione di cosa succede dentro e di cosa avremmo fatto appena fossimo entrati. Questo punto, a parere mio, è stato fondamentale per noi studenti.
Però, i miei pochi commenti “negativi”, li uso per descrivere l’incontro con i detenuti; perché non è stata lasciata molta parola ai detenuti per raccontare le loro esperienze, o semplicemente la loro storia, perciò, per me, si dovrebbe gestire meglio questo “pezzo”, nonché si dovrebbe lasciare più parola a loro e meno a noi studenti e alle altre persone lì presenti.
Tutto sommato, questo incontro mi è piaciuto ed è stato molto interessante e avvincente; sicuramente lo consiglierei ad altre persone.

L’incontro in carcere con i detenuti mafiosi mi ha profondamente colpito, suscitando molte riflessioni.
La storia di Salvatore, cresciuto in condizioni estreme, legato al water da bambino, mi ha emozionato. Ciò che mi ha sorpreso è come oggi sembri una persona cambiata, che anche grazie agli incontri con noi ragazzi sta cercando di migliorarsi ogni giorno. La sua evoluzione mi ha dato speranza.
Anche la storia di Mirko mi ha toccato: senza figure di riferimento e cresciuto nella povertà, ha seguito le orme del fratello criminale, come se fosse l’unica strada possibile. Il suo rimorso mi ha fatto riflettere su quanto le circostanze possano determinare le scelte.
Una storia che mi ha sorpreso particolarmente è quella della madre di una vittima, la cui figlia è stata uccisa a sassate. Nonostante il terribile dolore vissuto, la donna non ha provato rancore verso il colpevole, ma solo pena. Questo gesto di grande umanità mi ha lasciato senza parole e mi ha fatto riflettere sulla forza del perdono.
Infine, un detenuto ha parlato del suo percorso di studi, sottolineando che non a tutti è data questa possibilità. “Fuori è difficile trovare lavoro, figuriamoci per noi detenuti”, ha detto. Ha evidenziato come chi ha problemi psicologici o tossicodipendenze venga spesso escluso dai percorsi di recupero. Questa frase mi ha fatto pensare a quanto il sistema penitenziario non offra le vere opportunità di reintegrazione, fermandosi solo a un “carcere” senza permettere una vera rinascita.

Denaro falso

Il più crudele dei mesi

Aprile è il più crudele dei mesi, lillà da terra morta, confondendo
memoria e desiderio, risvegliando
le radici sopite con la pioggia della primavera
[…]

Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: Stetson!
Tu che eri con me, sulle navi a Milazzo!
Quel cadavere che l’anno scorso piantasti nel giardino,
ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola?

[T.S. Eliot, La terra desolata. I – La sepoltura dei morti] 

I morti erano di ritorno da Gerusalemme, dove non avevano trovato ciò che cercavano. Mi pregarono di lasciarli entrare e implorarono il mio verbo, e così iniziai il mio insegnamento. Ascoltate: io inizio dal nulla. Il nulla è uguale alla pienezza. Nell’infinito il pieno è come il vuoto. Il nulla è vuoto e pieno. Potreste dire altrettanto bene qualche altra cosa del nulla, per esempio che è bianco e nero o che non è o che è. Una cosa infinita ed eterna non ha alcuna qualità poichè ha tutte le qualità.

[Carl Gustav Jung, Septem Sermones ad Mortuos – Sermone I]

Io non c’ero, quel giorno, a Palazzo.

La mattina del 9 aprile 2015 mi trovavo a Firenze, per motivi di lavoro uniti a passioni per le investigazioni informatiche coltivate da tempo anche tramite lo studio del Manuale di computer forensics di Eoghan Casey, che stavo ascoltando completamente assorbito dalle parole del suo intervento. Il telefono suona una, due volte. Me ne accorgo in ritardo e penso che sia strano che Francesca mi chiami con tale insistenza. Esco dalla sala e mia sorella quasi scoppia in un pianto liberatorio, al pensiero che ci fossi anche io dentro quel macello di cui erano giunte in Redazione le prime notizie.

Notizie confuse ma che, dopo una mia prima telefonata al responsabile della sezione antiterrorismo della Procura, impongono di non sottovalutare quello che sta succedendo: si, qualcuno sta sparando nel Palazzo di Giustizia, a Milano. E non si sa né perché nè contro di chi.

Così, per superare un senso di inutilità mai provato fino a quel momento, chiamo il mio amico Carlo. Da giornalista di razza quale è, mi invita a seguire in streaming RaiNews24 perché un suo collega era già sul posto. E sono, al momento, le uniche notizie certe. Da chi sta fuori.

Mentre con una mano tengo così a stento un piccolo schermo per cercare di vedere più da vicino, con l’altro telefono mi accerto della situazione delle persone che stanno invece dentro, e che lavorano nel mio ufficio prendendosene uguale cura, come una seconda famiglia: Mirella racconta che Loredana, sua collega cancelliera presente durante la prima sparatoria, aveva trovato la via di fuga risalendo le scale che arrivano dirette al nostro corridoio (siamo infatti proprio sopra l’Aula 2 al terzo piano, da dove si sono sentiti i primi spari); Giuseppe invece, Carabiniere di lunga esperienza, ha lasciato Fabio ed era sceso – arma di servizio in pugno – lungo quelle stesse scale, a presidiare il piano dove lavora sua moglie.

E poi chiamano alcuni Colleghi, pensando che forse noi Pubblici Ministeri abbiamo – per natura o funzione – qualche pronta soluzione in tasca. O almeno qualche buon consiglio, come quello da dare alla mia amica Caterina che voleva soltanto sapere quando potesse uscire da quella stanza nella quale si era rinchiusa insieme ad altre 40 persone. O meglio mi chiamava per sapere quando poteva uscire lei, insieme alla figlia che aveva in grembo, da quella stanza.

E poi, il giorno dopo, le poche parole di Luigi, il Pubblico Ministero che in quell’Aula di udienza non ci doveva neppure andare, quel giorno. Miracolosamente salvo, lui come tutti gli altri presenti a Palazzo di Giustizia ad eccezione di Lorenzo Alberto Claris Appiani, Giorgio Erba e Fernando Ciampi, uccisi per mano di uomo armato, Claudio Giardiello, che con quella stessa arma aveva ferito anche altre due persone.

Pur non conoscendo personalmente nessuna delle tre vittime, ricordo di aver voluto andare proprio con Caterina ai loro funerali in Duomo. E, nel tratto a piedi in un pomeriggio di aprile, abbiamo entrambi pensato a quanto lavoro sarebbe stato necessario per cercare di riparare i mille piccoli traumi che un simile evento aveva generato.

Non erano i terroristi, come molti di noi avevano pensato nei primi minuti di concitazione e confusione. Eppure lo scenario immaginato poteva essere simile a quello accaduto pochi mesi prima a Parigi, in quel 7 gennaio 2015 dentro la sede di Charlie Hebdo e lungo le strade ad esse adiacenti. E poi ripetutosi, nel novembre del medesimo anno, dentro il teatro Bataclan. Immagini, viste ugualmente alla TV molte e molte più volte, rimaste così indelebili nella mia memoria che ho sentito l’esigenza, complice il mese scorso una breve vacanza con la mia famiglia, di fare una passeggiata solitaria – di buon mattino – quasi per riconciliarmi con quei luoghi e con quei volti.

     

Perché è forse caratteristica intrinseca dell’essere umano temere di più quello che non riesce a vedere. Come durante il lockdown, quando ho dovuto accettare – sulla mia pelle- che in guerra non dovevano andare gli uomini, quelli che nel mentre erano poi diventati a tutti gli effetti componenti della sezione antiterrorismo della Procura di Milano e che erano stati capaci di ricercare i foreing fighter financo in Siria, nei territori dello Stato islamico. Perché invece io, e quell’uomo che è dentro di me, dovevo rimanere a Milano chiuso in casa, per 52 lunghissimi giorni da solo con due figli piccoli, ad aspettare una donna medico che tornasse, finalmente guarita, dal fronte.

Siamo passati con le ragazze e i ragazzi del nostro workshop scout, nei primi anni successivi a quella sparatoria a Palazzo di Giustizia, anche davanti alla stanza 250, al secondo piano. E abbiamo ascoltato, con le lacrime agli occhi, la testimonianza di un’altra Caterina, anche lei magistrato ma che quel giorno si trovava invece proprio nella stanza accanto a quella dove è stato ucciso il Giudice Fernando Ciampi, l’ultimo bersaglio. E pur non essendo presenti quel 9 aprile, anche quei giovani hanno finalmente visto.

E oggi, a distanza di 10 anni da quella sparatoria, dentro quell’Aula di udienza siamo stati tutti testimoni del dolore dei familiari delle vittime, ed in particolare di Alberta Brambilla Pisone, mamma dell’Avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani. Ritorna, per un attimo, sui sistemi di sicurezza mancanti quel giorno, “un teatrino di cartapesta” costato una montagna di soldi a carico dei contribuenti. Ma poi spiazza molti confidando che ha passato dieci anni, commemorazione dopo commemorazione, nel tenere vivo l’orgoglio di fare parte di una famiglia che ama il Diritto senza mai ricordare doverosamente chi fosse veramente suo figlio. E oggi, con parole così affettuose che solo una mamma è in grado di partorire, riesce a farcelo vedere, li ancora presente in quell’Aula mentre si accingeva a testimoniare.

E ricorda anche le sue ultime parole, “verità”, imprigionate dentro una fonoregistrazione di udienza prima del suono degli spari.

Per un attimo penso a Marisa Fiorani e alla nostra ricerca di quei nastri per far risuonare la voce di Marcella, ancora una volta dopo quel 24 giugno 1987 nella Questura di Lecce. Ma poi ritorno alla fatica delle parole di questa altra madre in piedi davanti a tutti noi, in questo 9 aprile del 2025, che a me sembra siano davvero generatrici di quel germoglio del racconto di Eliot. Una fatica capace di far ritornare i morti per cercare di fare – tutti – pace con loro.

Ed è in quel momento che l’affresco di “Adamo ed Eva dopo il peccato” che sta alle sue spalle, e che aveva catturato nuovamente il mio interesse anche ieri pomeriggio (in udienza, in quella stessa Aula 2 che ciascuno di noi ha frequentato anche negli anni successivi a 9 aprile 2015 con un senso di rimozione – a tratti meschino quanto utile per la naturale sopravvivenza della specie) mi sembra assumere un  significato nuovo. E mentre, per i casi della vita e del lavoro, mi tocca correre a prendere un treno ancora una volta per Firenze, penso anche a Daniela Marcone e al suo ultimo 31 marzo di fronte ai gradini dell’ingresso condominiale dove hanno ammazzato suo padre, ingresso che lei ogni santo giorno deve varcare per entrare ed uscire di casa.

E concordo che sarebbe davvero bello che quell’Angelo – al posto della spada – avesse portato oggi, anche in quest’Aula e in questo Palazzo (quasi una seconda casa per molti dei presenti), una benedizione.

Acqua capace di far crescere quel germoglio per prendersene davvero cura, acqua capace di pulire le ferite da quella terra sporca che i nostri occhi, troppo spesso distratti, contribuiscono ad infettare.

Siamo noi che scriviamo le lettere

 

Dal sito www.lostrappo.net potete ancora scaricare la nostra cartolina speciale creata per RAIRadio2 Caterpillar.

In questo primo giorno di primavera, ci sta a cuore che in tanti possiate indirizzare i vostri pensieri al Gruppo della trasgressione e ai giovani adulti detenuti a San Vittore,che riceveranno il vostro messaggio nei nostri prossimi incontri del progetto “Alla ricerca del padre” ad aprile e maggio.

🎙 Enzo Jannacci e Sara Zambotti
📸 Chiara Azzolari e Tania Morgigno
✏️ Andrea Spinelli

[Il nostro impegno in memoria delle vittime innocenti della criminalità organizzata🌹]

Lettere ai nostri figli per la festa del papà

[Dopo il secondo incontro del 4 marzo, abbiamo proposto ai 18 padri che si sono candidati al progetto di scrivere una lettera ai propri figli, per la festa del papà]

 

Caro Beniamino (indirizzo a te questa lettera, ma puoi girarla anche a tuo fratello e sorella più grandi) [segue]

 

 Caro Dani,

è bello vederti crescere ed è bello crescere insieme.

Sei un ragazzo sensibile.

Hai una grande resistenza alle situazioni scomode. Tuo malgrado, sei stato allenato. Come diciamo spesso “non possiamo modificare il passato”. Sappiamo che le tracce negative possono diventare strumenti speciali per affrontare la vita. Bisogna lavorarci sopra.

Ti presenti come sei e cerchi il dialogo, a modo tuo.

Ti ringrazio: vuole dire che non svolgo solo la “funzione di mobile”. Mi fai sentire importante.

Mi piace fare esperienze con te.A volte non ne hai voglia o non abbiamo tempo, per cause esterne. A volte ti obbligo. Lo faceva anche mio papà con me. Mi arrabbiavo. Solo con il passare degli anni ho capito il valore delle esperienze vissute con lui. Ha fatto bene ad obbligarmi. Ho appreso molto, senza accorgermi. Non faccio altro, quindi, che copiare il “nonno-che-non-hai conosciuto”. Prova a dare un po’ più di fiducia al metodo del nonno.

In casa, hai la capacità rara ed invidiabile di raccontarti, liberamente, senza paura di valutazioni o di non sentirsi all’altezza delle aspettative. Io non ero così. Bravo, tu.

Sei leale. Proteggi le persone e la verità.

Mi fai conoscere realtà musicali a me ignote, mai ascoltate prima: temevo mi facessero male alle orecchie. Ora, grazie a te, so che fanno veramente male alle orecchie. Ma resisto. Tramite la musica penso di poter comprendere qualcosa del tuo mondo di giovane, di te.

Avrei tanto da condividere, ma i pensieri si confondono in emozioni, sentimenti, speranze e ricordi. Non riesco a seguire un filo logico.

Quindi concludo con uno spunto e un auspicio che, sono certo, diverrà realtà.

Lessi una frase: “chi non si aspetta l’inaspettato, non troverà la Verità”. A volte l’inaspettato fa piacere, a volte crea dolore. In entrambi i casi è esperienza che dobbiamo trasformare in bene, per noi e gli altri.

Sono sicuro che saprai mettere in silenzio il rumore di fondo del passato, con sensibilità ed intelligenza, facendo risaltare i suoni gradevoli, la musica piacevole. Non sarà semplice, ma renderà più agevole costruire un futuro di serenità e di felicità, guidato dai sogni che hai nel cuore.

Ti voglio bene, ti ringrazio che sei entrato a far parte della mia vita.

Il tuo Franci detto Fracco detto Frassi ecc.

 

Cari Matteo e Stefano,


Sapete già bene due cose …quanto non mi piaccia celebrare feste che mi riguardino in prima persona …e quando fosse grande il mio sogno di diventare padre…direi che queste due “verità” si scontrano alla grande il 19 marzo 😀 😀

…che io fossi “strano” è de resto un’altra cosa che già sapevate…

E quindi…che dirvi in onore di questa ricorrenza che si avvicina?

Beh innanzitutto che essere vostro padre è una sensazione, una “situazione” che mi rende davvero felice…ovviamente non semplicemente per “essere padre”…ma per come voi siete figli.

Con le vostre insicurezze e le vostre convinzioni.
Con le vostre passioni e le vostre pigrizie.
Con i vostri limiti e i vostri notevoli talenti.
Con i dubbi che ogni giorno mi assalgono rispetto a scelte e comportamenti avuti nei vostri confronti e con l’orgoglio e lo stupore nel vedere le scelte e i comportamenti che voi mettete in atto nella vita quotidiana.

…tutto questo e molto altro mi fanno dire che da ragazzo avevo proprio un “bel sogno nel cassetto” ed è ancora più bello vedere che questo sogno ogni giorno ci proviamo e ci riusciamo abbastanza a tenerlo vivo ogni giorno insieme.

Davide

 

Carissimi figli,

sapete che non amo le ricorrenze, ogni giorno merita di essere festeggiato e nessuno più degli altri.

Per la festa del Papà è anche più vero, perché si festeggia San Giuseppe, che certo non amava stare al centro dell’attenzione. Tanto che nel Vangelo compare appena e di lui non si ricorda una sola parola.

E’ una circostanza che mi conforta, perché la mia più grande paura è di non essere abbastanza presente nella vostra vita. Temo di vivere tanto “per” voi e molto poco “con” voi.
Un po’ è per colpa mia, un po’ perché nella divisione dei compiti con vostra madre, al lei tocca la cattedra e a me la… supplenza. Oggi è la festa di quello che tappa i buchi.
Un ruolo che vivo consapevole dei miei limiti e di mancare spesso alle vostre aspettative, a quelle di vostra madre e alle mie. Ma di cui vado pure orgoglioso, perché nonostante tutto non mollo mai.

Ci sono e ci sarò sempre, magari solo una figura defilata, ma perennemente lì.

Ecco, credo che questo vada festeggiato oggi. Che questo compito indefinibile, che a prima vista può apparire ingrato, è diventato la mia prima e più grande passione.
Giorno dopo giorno mi costringe a rinascere e mi regala momenti di indicibile gratificazione, anche quando conquistati attraversando lo scoramento e persino il panico.
Festeggiamo che, cercando il modo di tappare milioni di buchi, ho scovato la risposta da dare a chi un giorno dovesse chiedermi perché ho vissuto. Per voi tre.

Ludovico

 

Cari ragazzi,

è il vostro papà che vi scrive qualche riga.

Di solito siete voi che per la festa del papà mi dedicate (o lo facevate quando eravate più piccoli) anche un piccolo pensiero accompagnato da un disegno su un foglio di quaderno ed è insolito che mi rivolga a voi usando la scrittura. Ma alcuni pensieri mi vengono meglio.

In questa ricorrenza, alla quale io da figlio non ho mai dato molta importanza, voglio ricordarvi che papà c’è e ci sarà sempre.

Qualsiasi decisione, prova, difficoltà, ostacolo che dovrete affrontare io sarò di fianco a voi.

State vivendo questa fase della vita con le responsabilità ed impegni dei ragazzi della vostra età in due fasi della vostra vita che, sebbene siano abbastanza vicine, sono molto diverse tra loro.

Vi auguro di avere la forza e la determinazione necessaria per crescere perché la vita è un’avventura che va vissuta fino in fondo.

E siate liberi di scegliere ma anche di sbagliare, è dagli errori che si traggono i migliori insegnamenti.

Aspetto un abbraccio e un bacio per festeggiare la festa del papà.

Papà Stefano.

 

Caro figlio , 

come sai sto facendo un percorso con altri papà per aiutare noi papà ed altri figli e papà in carcere a provare a fare del nostro meglio, e devo scrivere a te e a tuo fratello una lettera per la festa del papà. Scriverò la stessa lettera a tutti e due in modo uguale.

Se dovessi sentirmi papà il 19 marzo per essere festeggiato vuol dire che non sarei un gran padre, la festa me la prendo tutti i giorni ogni volta che sento il piacere di vivermi come papà, senza che voi lo sappiate. Mi piace quando litighiamo, quando discutiamo, mi piace quando giochiamo o quando ci confrontiamo su temi a voi cari o a me cari o più semplicemente quando mi prendi in giro o quando cerchi di fregarmi ed io ti sgamo.

Sono felice quando mi chiami e mi dici se puoi venire a mangiare con i tuoi amici a cena, anche se mi fai incazzare perchè me lo dici sempre all’ultimo e come sempre finisce che discutiamo …..ma poi si ride e si scherza a tavola come se niente fosse….

Figlio mio, se poi ogni tanto mi coccoli con un gesto carino , beh quello me lo prendo molto volentieri ma in fondo io ero come te con mio padre, lo stretto minimo necessario, che in fondo alla tua età le priorità capisco essere altre. Allora mi tengo i tuoi ricordi e quelli di tuo fratello di quando eravate più piccoli ed eravate tutti belli coccolosi.

Mi raccomando almeno un “auguri Pa” però fammelo a voce …..con i whatsapp parla con i tuoi amici… che io sono boomer ricordalo.

Grazie amore mio

Antonio

 

Caro figlio mio [segue]

Il nostro Daimon

Ero sorpreso ieri mattina: pochi minuti dopo che la lettera di Samuele ai propri figli era arrivata via e-mail a tutti noi padri, Juri Aparo l’aveva già messa online e mi aveva inoltrato il link su Telegram…. una velocità singolare, per chi lo conosce un poco come me e sa che in questo periodo non ha tempo – come gran parte di noi, immagino – neppure per respirare. Eppure qualcosa doveva averlo interessato, ritenendola  utile – alla stregua del suo lavoro in carcere e per quello che ha in mente per il prosieguo del nostro progetto dentro il Reparto La Chiamata – di una maggiore diffusione.
Poi nel tardo pomeriggio riunione nella redazione di Caterpillar, e ancora Juri che prende la parola e cita a tutti i presenti il passaggio concettuale – in quella lettera – su “Le radici che non ho scelto“.
Non ricordo se nel frattempo mi guardava, quasi a chiedere cosa ne pensassi io. Troppo stanchezza, ieri, la mia. E troppe cose fatte di fretta, anche se tutte andate molto bene (ad iniziare dalla udienza delle 9.30 finita miracolosamente presto, per poter poi andare a San Vittore e poi ritornare ancora a Palazzo di Giustizia; per continuare con la notizia che alcuni giovani adulti detenuti hanno ottenuto dai rispettivi Giudici il permesso per essere presenti mercoledì 19 marzo, unita a quella che sì, ci sarà anche Giuseppe, “papà molto appassionato” a detta di sua sorella Carla e figlio di Guido Galli).
Alla fine ho trovato il tempo solo stasera per leggerla, con la calma che meritano tutte queste cose belle e preziose che ci stiamo scrivendo via e-mail all’interno del gruppo dei padri partecipanti al progetto.
Da uomo adulto, il tema delle “radici che non ho scelto” ha sempre trovato anche me concorde. Fino a quando mi sono chiesto, come forse tanti altri – ma era sicuramente un barlume di una domanda precedente, racchiusa velocemente in un cassetto emotivo della mia adolescenza – se fosse possibile invece sceglierseli i propri genitori.
Nell’approssimarsi dei miei 50 anni, leggendo Hillmann (“La forza del carattere”) in aiuto a riflettere sul tempo che avanza, mi ero ritrovato catturato da una impostazione che appare contraria al tema indicato da Samuele.
E’ sempre di Hillmann, nel suo (più famoso) libro “Il codice dell’anima”: uno spunto per la buonanotte, che riporto qui sotto. E grazie anche a Samuele, in attesa di capire il mio amico Juri cosa dirà anche di questo.

Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo “me”. Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio fra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali.

Più in profondità, tuttavia, noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente – che è come dire ignorano – il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana, il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta.

[…]

Ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più nota, la Repubblica. In breve, l’idea è la seguente:

Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino.

Secondo Plotino (205-270 d.C.), il maggiore dei filosofi neoplatonici, noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all’anima e corrispondenti, come racconta il mito, alla sua necessità. Come a dire che la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta deliberatamente dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile, è perché ho dimenticato“.

Radici, Alberi, Innesti

Alla ricerca del padre – day 15

Cari tutti, ben ritrovati.

Vogliamo ringraziarvi, ancora, per la vostra partecipazione al secondo incontro del nostro progetto: ci sembra che sia stato ancor più denso del primo – abbiamo visto tanto ascolto, partecipazione attiva e energie messe in circolazione.

Ci vediamo per la “celebrazione” della festa del papà il 19 marzo!

🎸 My father’s eyes, Eric Clapton (1998)

Alla ricerca del padre

Alla ricerca del padre – day 1

Cari tutti,

vogliamo ringraziarvi di cuore per la vostra partecipazione al primo incontro del nostro progetto “alla ricerca del padre”. Siamo onorati di aver dato forma ad un gruppo subito attivo, che ha saputo garantire un ascolto così attento, costante e caldo. Grazie per le parole, i silenzi, i disegni e i cannoli siciliani che hanno allietato il finale.

Ci vediamo martedì prossimo!

🎹 Peter Gabriel – Father, Son (2000)

[un percorso di riflessione è iniziato, in parallelo, dentro il carcere di San Vittore e all’istituto penale Beccaria grazie all’impegno del Gruppo della Trasgressione]

Alla ricerca del padre

Eccoci, alla ricerca del padre

Carissimi Alessandro, Andrea, Antonio, Davide, Dino, Fabio, Francesco, Francesco, Giorgio, Giuseppe, Ivano, Lorenzo, Luca, Ludovico, Paolo, Riccardo, Samuele e Stefano.

Ci aspettano una serie di incontri nei quali l’attenzione sarà maggiormente rivolta all’ascolto di sé stessi grazie alle risonanze di alcune sollecitazioni esterne, che potranno anche scaturire dalla condivisione di reciproche esperienze di genitorialità.

Abbiamo costituito un gruppo, di poco più numeroso rispetto all’idea iniziale, di 18 padri tutti con (almeno) un figlio/a tra i 13 e i 18 anni.

Siamo grati di aver ricevuto oltre 20 candidature e ringraziamo tutti per aver ritenuto il nostro progetto meritevole di una vostra partecipazione attiva, con motivazioni che ci sono sembrate tutte davvero importanti e profonde.

Eccone qui alcune:

Alessandro

Ho 58 anni e sono padre di due figli, Lorenzo 22 e Hui 16 anni. È ormai lungo tempo che rifletto sul rapporto che ho con i miei figli. La costante paura e spesso, a posteriori, certezza di aver fatto, detto, trasmesso la cosa sbagliata, l’emozione che dovevo tenermi dentro, la parola di troppo. In più di 20 anni di paternità ho cambiato più volte idea su cosa debba fare un genitore, ma ancora non ho idee compiute. Mi sento un cantiere che non finisce mai. Al contempo, cittadino di Milano da sempre, vedo nelle mura di San Vittore, una presenza ingombrante ed importante della città. L’ho sempre guardato e pensato alle vite che scorrono lì dentro, sospese; e la domanda è sempre quella: perché?

Sono alla ricerca di quadrare il cerchio padre – figlio. Dove un padre ritrova sé stesso figlio e quando capisce le tensioni i desideri, le paure di sé stesso figlio, forse può leggere con più chiarezza quelle dei suoi figli.

 Francesco

Il totem scout di “Tigre gioiosa”, che mi fu dato all’età di diciassette anni, ancora dice molto delle mie spigolature di uomo. Ho 54 anni e insieme a Raffaella sono genitore preoccupato di un figlio di 13 anni e di una figlia di 10 anni.

Amo la musica che sa emozionare per far pensare: così la sera del primo dicembre 2011, preludio dell’ultima notte prima di nascere papà, l’attesa già lasciava trapelare – oltre alle sperate gioie – le temute paure dentro quel verso struggente di Alexi Murdoch. “E se non posso essere tutto ciò che potrei essere …tu, tu mi aspetterai?”: quasi una mia preghiera al figlio che finalmente stavo per incontrare.

Sono grato ad Angelo Aparo per avermi coinvolto, dopo 19 anni di incontri fuori e dentro il carcere, nel progetto del “Reparto la Chiamata” con i giovani adulti detenuti: durante quei dieci giovedì mattina tra febbraio e marzo 2023 inaspettatamente è nata anche l’idea di questa nuova sfida, di cui sono co-autore ma soprattutto vittima predestinata. E sono ugualmente grato agli altri padri che si sono candidati perché credo molto al confronto – anche schietto e crudele, se serve – tra pari e al piacere, che in città caotiche come Milano diventa sempre più difficile coltivare, di ricavarsi spazi e tempi interiori per mettersi in discussione come padri per una qualcosa di più grande ed importante.

Lasciandomi interrogare da questa immagine (“il ritorno del padre prodigo”, quasi un ribaltamento del dipinto di Rembrandt), posso dire che sono alla ricerca di riuscire davvero ad andare al passo con il tempo che fugge via e con i figli che crescono e diventano altro-da-noi, per accettare finalmente il fatto come una vittoria (cit. Francesco De Gregori).

Giuseppe

Ho 49 anni, sono padre di tre figli rispettivamente di 14, 12 e 10 anni. 15 anni fa, durante il corso preparto di mia moglie ho scoperto il ciclo di incontri “È nato un papà”, questo ha segnato l’inizio di un percorso di confronto sulla genitorialità. Da allora, faccio parte del gruppo “Papà, chiacchiere e fornelli“, il gruppo è formato da 18 papà, ci riuniamo ogni tre settimane a Monza per condividere una cena e discutere di paternità e vita familiare.

Il compito di genitore è molto complesso e vorrei cogliere quest’opportunità, credo che il confronto e la condivisione delle esperienze forniscano spunti preziosi di crescita e consapevolezza, soprattutto perché condividiamo un obiettivo comune: “crescere e migliorarci come padri”.

Questo percorso mi aiuterà a comprendere meglio il mio ruolo e ad affrontare con maggiore equilibrio le sfide della paternità.

Samuele

Ho sessant’anni, abbiamo quattro figli (Isacco di 26, Noemi di 24, Susanna ne avrebbe avuto 20 ma ci è mancata nel 2008, e Beniamino che ne ha 15). Ho avvertito questa occasione come una “chiamata” su misura e inaspettata in questo Giubileo, anche per “risintonizzarmi” con le complicate adolescenze della mia famiglia più o meno anagraficamente vissute. Sono appassionato di riciclo, riuso e recupero e credo che la pratica di dare una “seconda chance” alle “cose” alleni chiunque a maturare atteggiamento analogo con se stessi e nelle relazioni. Talvolta per età e storia sono stato nei panni del formatore, e vi sono molto grato per partecipare ad un’esperienza che ritengo invece fin d’ora formativa per me. Lavoro in Rai come assistente di studio e ho collaborato per decenni con la Federazione Oratori Milanesi.

Sarà questa un’occasione per ascoltare altri papà che mi aiuti a rimodulare quell’atteggiamento di “asimmetria educativa” che tante volte nella mia esperienza mi ha fatto commettere passi falsi. Un modo per sperimentare l’esser figlio dei miei figli, senza peraltro rinnegare il mio ruolo. Far pace col mio essere un padre anziano. Un padre che torna e un padre che parte.

Stefano

Sono padre di Filippo (quattordicenne) e Tommaso (undicenne). Entrambi sono componenti del Gruppo Scout Milano 34. Nella mia richiesta di partecipazione ho segnalato che vorrei affinare “gli strumenti” che ho a disposizione per poter meglio comprendere i forti cambiamenti che i miei figli stanno compiendo. Spesso nel mio manuale d’uso non trovo risposte adeguate per comprendere il loro stato d’animo e per affiancarli nelle loro scelte. Ritengo il confronto con altri genitori di fondamentale aiuto e molto interessante la proposta di interazione con ragazzi che non siano i miei figli.

La sensazione ed impressione che mi trasmette l’immagine è quella di un padre che, sotto lo sguardo di altre due persone che possono sembrare il padre e la madre del genitore, accoglie il proprio figlio dopo un allontanamento. L’immagine è toccante e mi fa riflettere per quelle volte che per le cause più disparate (tempo, fretta, impegni professionali o per scarsa attenzione) non dedico la giusta concentrazione alla mia famiglia.

Alla ricerca del padre

My father’s eyes

La musica ci salverà

  1. Father and Son (Cat Stevens), 1970
  2. Sei forte papà (Gianni Morandi), 1976
  3. My father’s eyes (Eric Clapton), 1998
  4. Father, son (Peter Gabriel), 2000
  5. Io sono Francesco (Tricarico), 2000
  6. PadreMadre (Cesare Cremonini), 2002
  7. Sometimes You Can’t Make It On Your Own (U2), 2004
  8. Wait (Alexi Murdoch), 2006
  9. Per sempre (Ligabue), 2013
  10. Daddy (Coldplay), 2019
  11. Lettera a Draco (Shiva), 2024
  12. L’albero delle noci (Brunori SAS), 2025

Ci vediamo martedì sera…

Alla ricerca del padre

Giustizia riparativa per non soccombere al dolore

E sento che non posso finire senza dire una parola ai grandi assenti, oggi, ai protagonisti assenti: agli uomini e alle donne mafiosi. Per favore, cambiate vita, convertitevi, fermatevi, smettete di fare il male! E noi preghiamo per voi. Convertitevi, lo chiedo in ginocchio; è per il vostro bene. Questa vita che vivete adesso, non vi darà piacere, non vi darà gioia, non vi darà felicità. Il potere, il denaro che voi avete adesso da tanti affari sporchi, da tanti crimini mafiosi, è denaro insanguinato, è potere insanguinato, e non potrete portarlo nell’altra vita. Convertitevi, ancora c’è tempo, per non finire all’inferno. E’ quello che vi aspetta se continuate su questa strada. Voi avete avuto un papà e una mamma: pensate a loro. Piangete un po’ e convertitevi“.

[Papa Francesco, 21 marzo 2014 – incontro con i Familiari delle vittime della criminalità organizzata]

 

Quale sia stata l’idea che mi ha portato a tentare il concorso in magistratura è difficile indicarla in poche parole.

[continua: qui]

Tratto da Avvenire- inserto culturale Gutemberg “Prega per il tuo nemico”, 24.1.25