Siamo persone

Lo scorso 5 giugno 2019 il Gruppo della Trasgressione ha avuto, grazie alla collaborazione con la direzione di Opera, un incontro con i detenuti e i loro famigliari, come si è soliti fare ogni anno.

Lo scopo primario della ricorrenza è quello di mostrare a mogli, figli e persone care il percorso che il detenuto può compiere all’interno dell’istituto penitenziario quando gli vengono date le possibilità e, soprattutto, gli strumenti per farlo. La giornata intendeva dare spazio all’evoluzione di tutti i detenuti che fanno parte del gruppo, ma questa volta è stato preso Vito Cosco come emblema del cammino collettivo.

Cosco è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Lea Garofalo e sta scontando la sua pena nel carcere di Opera. Quel giorno è stato invitato a rendere pubblico il testo che aveva portato al gruppo la settimana prima, uno scritto impegnativo che parla, pur se contraddittoriamente, di pentimento, evoluzione, valori appresi, di sofferenza, di silenzio protratto per anni, di condanna, di odio, di mancanze.

In merito a quella giornata, sono state scritte considerazioni da parte di detenuti, del coordinatore del gruppo Angelo Aparo, di Elisabetta Cipollone e anche della moglie di un detenuto. Penso sia importante fare attenzione a ogni osservazione, frutto dell’emozione con cui ognuno dei presenti ha vissuto quella suggestiva giornata. Spero che anche la mia possa dare un contributo e fornire uno spunto di riflessione.

Oltre che come componente del gruppo, io parlo qui in veste di figlia di un detenuto. Mio padre ha scontato diverse condanne penali in passato. Ho vissuto la realtà del carcere relazionandomi con detenuti fin da piccola, ma nutrendo una curiosità per questo mondo deviante, verso il quale si è soliti provare repulsione.

Leggendo lo scritto di Vito, per me è stato impossibile non attribuire quelle parole a mio papà, anche se, purtroppo, non le ho mai sentite dalla sua bocca.

Ha scontato le sue pene nel carcere di Novara, dove non sono presenti iniziative come quelle del Gruppo della Trasgressione; al contrario, i detenuti si limitano ad attendere il giorno del fine pena, ammesso che la loro condanna lo preveda. Con il susseguirsi delle carcerazioni ho visto mio padre cambiare, chiudersi; perfino il suo sguardo è diventato più spento, arrabbiato.

Credo che questo sia uno dei problemi più grandi del nostro paese. Ogni detenuto dovrebbe avere la possibilità, indipendentemente dalla gravità del reato commesso, di ricevere una rieducazione, un sostegno e un ascolto, anzitutto per riflettere sulle proprie azioni e per ritrovare la propria coscienza e, in secondo luogo, per affrontare in modo costruttivo la restrizione della libertà imposta dal sistema carcerario. La limitazione della libertà, seppur nella sua legittimità e correttezza, comporta infatti un cambiamento drastico nella vita della persona e credo che bisognerebbe dar loro i mezzi giusti per poterlo affrontare.

Se ciò non accade, il condannato, una volta fuori, non si sarà arricchito e nutrito di nulla e la stessa carcerazione si sarà rivelata inutile, anzi, circostanza aggravante alle condizioni già instabili del detenuto. Aumenterà inoltre la probabilità di commettere ulteriori atti devianti e di subire altre condanne, così come è successo a mio padre.

Ogni istituto penitenziario dovrebbe avere un Gruppo della Trasgressione, che accoglie tutti perché indipendentemente dalle azioni, al gruppo partecipano le persone. Durante gli incontri al gruppo, infatti, non ci focalizziamo sui reati commessi; io stessa non so nulla sulle ragioni per cui i detenuti si trovano ora a scontare le loro pene, ma poco importa. La nostra attenzione si rivolge ai valori che prima guidavano il condannato nella sua devianza e a come questi possano cambiare, divenendo così valori di umanità, cooperazione, moralità.

Quel giorno, mi sono rivolta a Christopher, figlio tredicenne di Vito, che come me ha vissuto il mondo carcerario fin da piccolo ma non per sua scelta. Mi sono sentita di suggerire a Christopher di non limitarsi a considerare suo padre per ciò che ha fatto, ma di provare a guardarlo per ciò che è oggi e per il percorso introspettivo che compie ogni giorno.

E se riescono i parenti di vittime ad assumere questa prospettiva incentrata non sul reato ma sulla persona, credo che tutti possano provare ad adottarla, o almeno questo è lo scopo che mi pongo come membro orgoglioso del Gruppo della Trasgressione.

Valentina Marasco

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La coscienza che abbiamo esiliato

Ho seguito, per come ho potuto, gli sviluppi della lettera di Vito Cosco; ho letto alcune reazioni dei giornali e le riflessioni dei miei compagni. Anche se in questo periodo non posso frequentare fisicamente il tavolo del gruppo, credo che Vito, durante l’incontro del Gruppo della Trasgressione con i parenti, abbia voluto comunicare il proprio senso di colpa a tutti i suoi familiari e in particolar modo al figlio di 13 anni, anche loro vittime del suo delirio e degrado morale.

C’e da dire che gli incontri del gruppo insieme ai nostri familiari, tenuto conto della nostra totale esclusione dalle loro vite e dal contesto sociale, costituiscono per noi detenuti una opportunità fondamentale per farli partecipare alla nostra vita, al nostro percorso di ravvedimento e un’occasione per consegnare loro la nostra crescita, la nostra emancipazione morale dall’abisso in cui eravamo precipitati con i nostri delitti.

Durante la mia lunghissima detenzione, per anni sono stato impegnato in attività scolastiche che mi hanno portato anche a conseguire un diploma. Ne ero fiero. Ero l’unico della mia famiglia in possesso di un titolo di studio. Ma devo ammettere che grazie al percorso col Gruppo della Trasgressione mi sono reso conto che, pur sapendo leggere e scrivere, avevo mantenuto un analfabetismo morale, funzionale ed emotivo.

Cresciuto e nutrito all’interno di una sub-cultura di violenza e di sopraffazione, ne sono rimasto contaminato e con me i miei ideali e gli obiettivi della mia adolescenza. A quel punto, quand’anche vi fosse stato il  “pulsante rosso”  era ormai troppo tardi; lo avrei comunque ignorato, evitato, eclissato.

I figli crescono e insieme a loro crescono le conseguenze del nostro operato; e così, mentre attorno a noi alimentiamo catene di degrado e di emarginazione, crescono anche quelle domande di fronte alle quali non puoi più mentire o tergiversare da vigliacco. La coscienza bussa come un tamburo, mentre aumenta la difficoltà di parlare con i nostri figli di quelle verità che fanno male.

Poterlo fare alla presenza e con la mediazione di esperti psicologi è un privilegio che ci offre il prezioso laboratorio del Gruppo della Trasgressione. Anni fa è successo a me e, grazie agli stimoli che mi ha fornito il gruppo, ho cominciato ad approcciarmi alla verità con le mie figlie; oggi penso, anzi ne sono sicuro, che anche le intenzioni di Vito vertevano in tal senso.

In parallelo alle vittime del nostro delirio, anche i nostri familiari sono vittime innocenti e inconsapevoli delle nostre scelte scellerate. Poter comunicare il risveglio della nostra coscienza ai nostri figli e ai nostri familiari, restituendo loro la nostra attuale consapevolezza, le nostre responsabilità, la nostra autenticità, è il metodo più efficace per riconciliarci con noi stessi e con la società e per proseguire in un sincero e complesso percorso di ravvedimento.

Caro dottore, ho letto la sua affermazione: “…mi rendo conto che si vive la sensazione di tradire la vittima prestando ascolto al balbettio del carnefice… e voglio dirle che si tratta di una sensazione solo apparente. Lei sa bene che dentro l’essere umano logica ed emozioni sono spesso in contrasto. Chi ha subito la perdita di un familiare, infatti, ha certamente bisogno che l’autore del delitto venga punito, ma desidera anche che la volontà del colpevole cambi direzione e che egli maturi coscienza del dolore provocato.

La pena non può esaurirsi nella punizione in senso afflittivo; questa non basta per lenire o per elaborare il dolore della perdita. Chi vive quel dolore, in fondo al cuore, sa bene di non poterlo curare col rancore, con la distanza e, men che meno, con la vendetta sociale. Il meticoloso lavoro di studio e di ricerca che si fa con il Gruppo della Trasgressione consiste soprattutto nell’analizzare gli aspetti che hanno portato al reato e nell’aiutare l’autore a riconoscere il degrado morale nel quale egli si è formato e che ha poi contribuito a diffondere.

Ma quello che il Gruppo della Trasgressione fa sopra ogni altra cosa è recuperare la coscienza che noi stessi abbiamo esiliato. Per riuscirci, incontriamo con una certa frequenza anche familiari delle vittime disposti a prestare ascolto alle nostre storie, con i quali si cerca di capire ed elaborare insieme quel dolore che in una certa misura ci apparenta.

Pasquale Fraietta e Angelo Aparo

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Pasquale Fraietta 

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Dentro il carcere, ma non fuori dal mondo

Mi chiamo Rosario Romeo, sono detenuto e faccio parte del Gruppo della Trasgressione di Bollate. Desidero dare un mio contributo riguardo alla lettera che Vito Cosco ha scritto e poi letto all’incontro collettivo fra i detenuti del gruppo di Opera e i loro familiari.

La lettera, resa pubblica dal dott. Aparo, è stata ripresa da alcuni organi di informazione, che hanno però proposto ai lettori o ai telespettatori una visione, a mio giudizio, errata delle cose. Io non credo che con quella lettera Vito Cosco punti a benefici o a sconti di pena; se avesse voluto dissociarsi dai coimputati, avrebbe dovuto farlo durante i tre gradi di giudizio. Adesso, un pentimento allo scopo di ottenere benefici sarebbe inutile.

Vorrei anche commentare quanto ci è stato riferito sull’incontro con i familiari. Abbiamo saputo dal dott. Aparo che all’incontro erano presenti anche la moglie e i figli di Vito Cosco. Da quanto ho capito, Vito Cosco ha ammesso per la prima volta, e dopo quasi 10 anni di carcere, le proprie responsabilità davanti ai propri figli e ha criticato senza mezzi termini il proprio operato.

Io credo che questa lettera sia un punto di partenza per potersi avvicinare soprattutto al figlio più piccolo, che (è stato detto) non era a conoscenza dei veri motivi per cui il padre è stato condannato all’ergastolo. Adesso il figlio di Vito è un adolescente e il padre capisce che non può continuare a mentire sulle proprie responsabilità; anzi, Vito Cosco sa, come qualsiasi detenuto con un po’ di cervello, che, per potersi riprendere la propria pericolante funzione di padre, deve avviare col figlio una comunicazione sincera e non più superficiale ed elusiva, come peraltro gran parte dei detenuti fa con i propri figli.

Se anche può essere vero che tante volte i detenuti cominciano a frequentare il gruppo con la speranza di ottenere qualche beneficio (uscite per eventi vari, una bella relazione o addirittura un posto di lavoro), bisogna riconoscere che chi frequenta il Gruppo della Trasgressione, sulla distanza, è costretto a confrontarsi (e finisce per essere contento di farlo) con situazioni che favoriscono riflessioni e autocritiche, che diventano nel tempo sempre più sincere e profonde e che coinvolgono anche detenuti giunti al gruppo per altri scopi.

Credo che ciò che è successo al Gruppo della Trasgressione di Opera debba essere inquadrato in relazione a quello di cui hanno bisogno i detenuti per non sentirsi definitivamente fuori dal mondo, oltre che lungodegenti chiusi dentro le mura del carcere. Le cose di cui parlano i telegiornali che ho visto sono buone solo a stuzzicare appetiti insani.

Rosario Romeo e Angelo Aparo

Romeo Rosario

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Le vite degli altri

Durante il nostro ultimo incontro al tavolo del gruppo, abbiamo commentato la giornata trascorsa con i nostri familiari nel teatro del carcere di Opera e la lettera di Vito Cosco, che di quella giornata è stata protagonista.

Della lettera hanno anche parlato alcuni giornali, provando a farne uno scoop. Di sicuro le nostre storie non hanno la stessa risonanza di quella di Vito, ma dietro ognuno di noi c’è una storia e, come come ha detto Vito quel giorno… “per fare quello che abbiamo fatto c’è voluto poco tempo e poco impegno, ce ne vuole invece molto per capire quello che facevamo“.

La detenzione utile è quella che ti fa prendere coscienza di te stesso, non quella che ti costringe a oziare sul letto, intanto che aspetti il fine pena. Le emozioni che abbiamo provato quel giorno sono collegate a come recuperare il rapporto con noi stessi e con i nostri famigliari.

Io spero che dall’altra parte ci sia qualcuno che osserva realmente il percorso che fa il detenuto. Non chiediamo perdono o di cancellare le nostre colpe, chiediamo che vengano osservate e riconosciute le attività che svolgiamo in carcere e valutati i risultati.

A volte la televisione e i giornali parlano superficialmente di quello che fanno i detenuti pur di vendere, ma queste non sono vere notizie, è solo speculazione. La vera notizia sarebbe entrare nel merito di quello che fa il Gruppo della Trasgressione. Il suo lavoro è quello di tirare fuori dalla persona quello che la persona ha già ma che non sa di avere.

Il problema è che l’arte della maieutica non è facile, mentre è invece molto più facile, eccitante e vendibile, parlare di mostri che non potranno mai essere perdonati.  Ma dedicare attenzione alle cose eccitanti e vendibili è esattamente quello che facevamo noi all’epoca in cui passavamo il tempo ad assumere e vendere sostanze invece che a occuparci di sostanza.

La sensazione che ho provato quel giorno, dopo la lettura della lettera e il discorso di Vito, è stata straordinaria, ma allo stesso tempo ho capito quanto possa essere difficile far comprendere alla gente il cambiamento che avviene in chi ha riscoperto la propria coscienza.  Ho sentito dire a uno dei familiari presenti quel giorno che, se non avesse vissuto di persona questa giornata, per lei Vito Cosco sarebbe dovuto morire in carcere perché solo questo meritava.

Quando si fanno questi incontri, i giudizi smettono di essere coltelli e si arricchiscono di empatia. Forse è proprio di questo che il mondo ha più bisogno… di ascoltare con attenzione le storie degli altri… quello che non abbiamo saputo fare noi quando non prestatavamo attenzione alle vite degli altri.

Marcello Portaro e Angelo Aparo

Marcello Portaro

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Alla ricerca della coscienza

Il 13 agosto del 1999 avrei dovuto trovarmi davanti alla chiesa ad aspettare la mia amata per sposarla, invece mi sono risvegliato rinchiuso in una stanza sporca e buia. Tutta la notte era trascorsa rigirandomi sul letto, non riuscivo a capacitarmi di cosa fosse successo, forse mi stavo risvegliando da un brutto incubo? No, era la realtà! Stavolta avevo superato ogni limite e adesso il mio pensiero fisso era “guarda dove sono per avere cercato di essere ciò che in realtà non sono“.

Ho sperperato molti anni della mia gioventù provocando dolore agli altri, dando spazio a un delirio d’onnipotenza che sembrava insaziabile. Ormai tutti i miei casini erano diventati abitudinari, non riuscivo più a ragionare, sino a quando ho superato il limite estremo, ho tolto la vita a un’altra persona che aveva, come me, solo 19 anni. E questo perché, secondo la mia mentalità criminale di allora, lui mi aveva fatto un torto che si poteva ripagare solo con la vita.

Al pensiero di quel gesto cosi vigliacco, oggi mi sento un vero schifo, vorrei tanto anch’io pigiare quel pulsante rosso per tornare indietro. Purtroppo quel pulsante non esiste. Il Dott. Aparo in uno degli ultimi incontri ha detto “esistono pulsanti di altro colore“. Oggi, con la consapevolezza degli errori fatti nel passato, sono alla ricerca di quei pulsanti.

A causa di questi miei errori, sono rimasto detenuto per 6 anni come carcerazione preventiva. Poi sono stato scarcerato. Ero riuscito a “farla franca”, se cosi si può dire, non pagando il mio reato più grave, l’omicidio, per mancanza di indizi di colpevolezza.

Uscito dal carcere, realizzo finalmente il mio sogno, mi sposo. Ma i miei incubi si riaffacciano sempre anche se faccio di tutto per cancellarli. La mia vita continua, nasce mio figlio e con lui arrivano una felicità immensa e responsabilità maggiori. Dopo due anni arriva mia figlia, altra gioia immensa. Pensavo di avere ormai tutto nella vita: nuove amicizie, nuove abitudini, vita regolare, lavoro e famiglia.

I miei sogni si erano realizzati, pensavo che ormai il passato fosse evaporato. Ma dopo 13 anni si riaprono le ferite che non si erano mai chiuse del tutto; la giustizia viene a chiedere di saldare il conto. Mi sono sentito cadere il mondo addosso, anche se era una cosa che comunque mi aspettavo. Erano passati sette anni dall’ultima mia carcerazione e avevo avuto tutto il tempo e le persone giuste al mio fianco per affrontare il trauma.

Le basi erano più solide, ero un’altra persona, con degli ideali diversi e progetti futuri, cose che mi erano mancate nella mia adolescenza. Pronto a tutto, saluto mia moglie e i miei figli che all’epoca erano troppo piccoli per capire, e vado costituirmi spontaneamente.

La mia vita all’interno del carcere aveva bisogno di nuova linfa per andare avanti; adesso non dovevo nascondermi da nessuno, tutti sapevano chi ero stato nel mio passato, ma nessuno sapeva chi sarei potuto diventare col tempo. Ormai i miei vecchi compagni mi vedevano in modo diverso. Davanti a loro c’era un Sergio che ragionava con la sua testa e non più come un burattino pronto per essere diretto e usato.

Dopo qualche anno di carcerazione mi trovo a parlare con un mio corregionale al quale racconto il mio passato e le mie intenzioni per il futuro. Lui mi suggerisce di iscrivermi al Gruppo della Trasgressione, dove avrei potuto usare le mie esperienze come motivi di confronto e dare una svolta definitiva alla mia vita. E così è stato.

Il mese scorso un nostro compagno ha presentato al gruppo uno scritto nel quale, nero su bianco, parla della sua vita criminale e dell’uomo padre che vuole essere oggi. Condivido tutto quello che lui ha scritto e in parte mi rispecchio nella sua storia.

L’analisi dello scritto è andata avanti oltre i nostri abituali appuntamenti e, infatti, se ne è parlato anche in un incontro con i familiari. In occasioni precedenti i miei familiari non erano mai stati presenti: il mio compito era stato solo quello di ascoltare comodamente seduto. Ma stavolta, il 5 Giugno, i miei familiari sono riusciti ad esserci. Questo non è stato per me tanto comodo, ma è stato un motivo per dare il mio massimo contributo.

Il dott. Aparo per la prima volta mi invita a salire sul palco per dire ciò che io pensavo dello scritto di Vito Cosco. Sapevo che prima o poi sarebbe toccato anche a me dare un contributo in più al gruppo e sono felice che sia successo questa volta che erano presenti anche mia moglie e i miei figli.

Non nascondo che ero emozionantissimo anche perché i miei non erano abituati a sentirmi parlare di temi di questa portata. Non ricordo le parole che sono riuscito a dire ma non potrò mai dimenticare lo sguardo commosso di mia moglie. Tornato a sedermi, mia moglie mi ha detto: “oggi ti vedo con una luce e uno sguardo diverso negli occhi “. Io credo che mia moglie abbia visto lo sguardo di una persona cha ha iniziato a percepire il dolore causato agli altri e a farlo suo. Solo raggiungendo questo principio si può evitare di ricadere negli stessi errori.

Ma le emozioni e le sorprese non erano ancora finite. Rimanendo seduta ad ascoltare i vari interventi, mia figlia di 12 anni mi chiede quanto ancora sarebbe durato l’incontro perché si era un po’ stancata. E credo sia naturale per una bambina della sua età. Invece, mio figlio, che di anni ne ha 14, teneva lo sguardo sempre fisso al palco. Ho cercato di distoglierlo un po’ da quello che si diceva. Non so se l’ho fatto come gesto di protezione nei suoi confronti, giudicandolo ancora troppo piccolo per affrontare certi discorsi.

Invece lui, niente, voleva solo essere lasciato in pace ad ascoltare. Alla fine dell’evento, io sentivo il desiderio di capire quello aveva percepito durante l’evento. Mio figlio mi risponde: “mi sono sentito per un momento come il figlio del tuo amico, che ha pianto dopo aver saputo di cosa è accusato suo padre“. Io sono rimasto spiazzato, a stento ho trattenuto le lacrime per le parole che mi aveva detto.

Oggi. grazie al Gruppo della Trasgressione, sento di essermi avvicinato ancora di più all’obbiettivo che mi ero prefissato. Spero che in futuro ci siano altri incontri come il 5 giugno, in modo di dare la possibilità sia a noi che ai nostri familiari di vivere altre emozioni.

Sergio Tuccio e Angelo Aparo

Sergio Tuccio

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Il peso del passato e la nostra sfida

Il giorno 5 giugno noi detenuti del Gruppo della Trasgressione di Opera, durante un incontro con i nostri familiari, abbiamo molto parlato del pentimento morale di Vito Cosco. In quell’occasione molti di noi sono stati invitati dal dott. Aparo a raccontare ai nostri ospiti quello che facciamo al gruppo.

Una parte centrale del lavoro riguarda la ricerca sulla consapevolezza. Oggi mi rendo conto di aver vissuto con l’ideale di falsi miti e so che mi sono servito di maschere per dare senso alla mia vita.

Mi accorgo che faccio fatica a ricostruire e criticare il mio passato. Quel passato mi ha accompagnato per tanti anni, ci sono cresciuto… Da un po’ di tempo ho cominciato a criticarlo, ma non è facile togliersi la maschera, occorre tempo per rinnovarsi; non basta schiacciare un pulsante.

A questo riguardo il Gruppo della Trasgressione ci rivoluziona la mente, dandoci strumenti per poterci rinnovare pur continuando a sentirci noi stessi. E’ difficile riuscirci per chi, come me, si sentiva se stesso quando viveva una vita diversa, con valori e obiettivi completamente diversi.

Ma dobbiamo imparare a trasformare una situazione difficile in un’arma a nostro favore; non sentirci sopraffatti dalla pena! Queste non son altro che sfide ed è il nostro atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza! Non dobbiamo chiuderci nelle nostre debolezze per giustificare le nostre sfortune. Se impariamo a conoscere chi siamo veramente, saremo più liberi e forti e non più burattini nelle mani di altri.

Al Gruppo della Trasgressione imparo a sostituire la libidine della grandiosità con il piacere della normalità. Una rivoluzione che si sta scatenando dentro di me e che oggi mi fa vedere con lucidità cose che prima erano coperte dalla nebbia dell’arroganza. Anch’io, come Vito Cosco, non ho mai incontrato quel pulsante rosso o forse non l’ho mai cercato.

Francesco Castriotta e Angelo Aparo

Francesco Castriotta

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L’incontro con i nostri familiari

Mi chiamo Marcello Cicconi e sono un componente del Gruppo della Trasgressione. Il cinque giugno noi detenuti abbiamo avuto la possibilità di stare con i nostri familiari prima in teatro e poi nell’area verde, dove abbiamo pranzato insieme. Questo incontro si ripete da qualche anno ed è ogni volta più coinvolgente, soprattutto perché in questo modo i nostri parenti vengono a conoscenza di parti della nostra vita che per timore o per vergogna abbiamo sempre nascosto.

Quel giorno si è parlato della presa di coscienza di un detenuto, Vito Cosco, che davanti alla moglie e ai due figli ha letto una lettera nella quale parlava del proprio reato e del proprio pentimento per il male fatto. Il figlio di 13 anni a un certo punto è scoppiato a piangere e tutti noi lo abbiamo seguito. L’esperienza è stata molto forte.

Inizialmente avevo ritenuto eccessivo parlare di queste cose  e in modo così aperto davanti ai figli ma, confrontandomi poi col resto del gruppo, ho capito che quel giorno è stato restituito al figlio un padre. Sicuramente il figlio ha capito che non deve emulare il padre per quello che ha fatto, ma che oggi può rispettarlo per la forza che ha avuto nel parlare del proprio errore e nel gridare il suo desiderio di riscattarsi: la giornata è stata per me una freccia al centro del bersaglio e, per il gruppo, un altro passo della nostra rivoluzione.

Anche a me quel giorno è successo qualcosa di nuovo. Io ho sempre vissuto in guerra con me stesso, distruggendo me e chi mi stava accanto. Frequentando il Gruppo della Trasgressione, ho cominciato a prendere confidenza con le mie emozioni, arrivando in qualche modo anche a capire cosa mi ha spinto a stare sempre in guerra e a commettere reati.

Da quando sono in carcere io non ho mai parlato ai miei cari del mio cambiamento e soprattutto non ho parlato di come ero quando ero in libertà; non ho mai raccontato a mia madre o ai miei fratelli la reale vita che conducevo e ciò che la mia voglia di distruggere mi portava a fare.

Per qualche ragione avevo bisogno di distruggere la mia vita, forse perché speravo che la mia distruzione potesse diventare motivo di rimorso per chi ritenevo responsabile della mia vita scellerata, cioè i miei genitori. Ma in carcere ho cominciato a conoscermi meglio. Certo, bisogna lavorare molto per arrivare sentire il cambiamento; nel caso mio, devo ammettere che non sono stato io a cercarlo, ma è stato il cambiamento a trovare me, anche se oggi convivo meglio con la persona che sono.

Comunque, il giorno dell’evento il dott. Aparo mi ha invitato a dire la mia sul tema del giorno. Io non mi sono tirato indietro, ma mi sono messo a raccontare di me come se in sala non ci fossero stati anche i miei familiari. Ho detto quello che avevo sempre tenuto sotto silenzio, cioè che a mia volta ho contribuito a sporcare questo mondo e che mi piaceva fare quello che facevo.

Mia madre, non avendo mai sentito queste cose, ha cominciato a piangere. Lei ha sempre saputo solo una piccola parte della mia vita. Comunque, dopo avermi sentito e mentre io stavo camminando col dott. Aparo, mia madre si è avvicinata e con tono di rimprovero mi ha detto: “Perché a me queste cose non le hai mai dette?”

La risposta vera non la so neanch’io. Non volevo deluderla… mi vergognavo… Oggi invece, dopo alcuni anni di carcere e di Gruppo della Trasgressione, sento il bisogno di dirglielo. Perché oggi sento questo bisogno che prima non avevo? So per certo che il carcere può peggiorarti, distruggerti o cambiarti radicalmente. Ma perché?

Spero comunque che di eventi come quello del 5 giugno ce ne siano di più in futuro. Sono occasioni che ci permettono di avere con i nostri familiari e con noi stessi una relazione più vera.

Marcello Cicconi e Angelo Aparo

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Marcello Cicconi

Bagliori dal carcere

Sono Giorgio Ciavarella, componente del Gruppo della Trasgressione da circa 4 anni. Il 5 giugno scorso abbiamo avuto l’incontro collettivo con i nostri familiari, un evento dove noi detenuti cerchiamo di comunicare ai nostri congiunti quello che facciamo col gruppo. I temi che affrontiamo durante l’anno sono tanti (l’arroganza, il senso di onnipotenza, la bulimia della grandiosità, la presa di coscienza), ma in quella giornata, parlando con le nostre mogli, i nostri figli e i nostri genitori, cerchiamo soprattutto di buttare giù le maschere dietro le quali ci siamo nascosti per anni.

In quella giornata un componente del gruppo, raccontando il suo percorso in relazione al reato commesso, si è reso protagonista di un evento fuori dal comune e tale da commuovere anche la persona più dura. Alcune testate giornalistiche, però, hanno travisato la lettera da lui scritta e l’hanno riassunto in modo da suscitare scalpore e, soprattutto, rigetto fra i parenti della vittima.

Quando facciamo sentire la nostra voce al di là delle mura (scuole, centri culturali, teatri) non lo facciamo per comperare la nostra libertà; il nostro principale interesse è valorizzare il lavoro sulla coscienza effettuato in questi anni. Non è compito nostro decidere qual è la giusta punizione o se è giusto perdonare; il nostro obiettivo è dare valore all’uomo di oggi e al lavoro che ognuno di noi fa per riconoscere le proprie responsabilità e i propri errori.

Questo non equivale a cancellare il passato; sappiamo bene che non è possibile per le vittime dei nostri reati e non lo è per noi! Ma proprio perché impossibile, è da qui che inizia il nostro impegno sia nel riconoscere le nostre responsabilità sia nel recuperare quello che di buono c’è in noi e metterlo a frutto. Ricostruire come siamo arrivati ai nostri reati e dove abbiamo lasciato le nostre prime aspirazioni è quello che facciamo principalmente al gruppo. Credo che in questo modo riusciamo a recuperare la dignità e l’autostima che ci servono per tornare in società in modo responsabile.

Spesso penso alle vittime che si chiedono: “Perché proprio a me?”. Non c’è una risposta, non c’è una ragione. So di essere legato alle vittime dei miei reati, sono stato io a propagare il male senza nemmeno sapere il perché e a causare il loro male solo perché in quel momento eravamo sulla stessa strada. Progetti come quello del Gruppo della Trasgressione ci sono utili a ricucire, nei limiti del possibile, lo Strappo che abbiamo prodotto. Non ci sono pulsanti rossi, forse solo ago e filo, per chi ha voglia di usarli.

Giorgio Ciavarella e Angelo Aparo

Giorgio Ciavarella

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I bambini del 5 giugno

Sono sei settimane che frequento questo corso e quello che ho provato il 5 giugno è stato indimenticabile. Non vedevo bambini da 8 anni e ho ancora quella bellissima giornata davanti agli occhi. Il tempo ci insegna tante cose. Dopo tanto tempo ho capito che, dicendo la verità, ti senti libero anche se sei chiuso.

Antonio Parisi e Angelo Aparo

Antonio Parisi

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