Il bambino che non sono mai stato

Buongiorno a tutti, sono Nunzio. Ultimamente al gruppo si è parlato molto del contesto sociale dal quale proviene una persona e delle scelte di “vita”. Ripenso alla mia adolescenza deviante e, in fondo, non vissuta: collegio, carcere minorile e a San Vittore a 20 anni. Ripenso a quello che mi ha portato in collegio, a quello che poi ha permesso alla mia rabbia di prevalere su quella che poteva essere un’infanzia più tranquilla. Ricordo che, in comune con quasi tutti i bambini del collegio, avevo i genitori separati e trascorrevo i weekend uno con mamma e uno con papà, alternandoli. Nelle volte in cui toccava al secondo, tante volte quel weekend si trasformava in paura, orrore, attese varie e alla fine pure in realtà: mio padre non ci veniva mai a prendere, stavamo lì alla finestra a vedere gli altri che andavano a casa… E stai lì a distrarre il mio fratellino e consolarlo.

Quando andavo con mamma a casa sua, c’era sempre suo fratello, che ai tempi era un delinquente affermato, uno dei capi della zona di Giambellino. Con la sua presenza e il suo “affetto”, riusciva a mettere in ombra l’assenza di mio padre, mi sentivo sicuro: il suo essere presente anche economicamente mi portava a pensare, sognare che anch’io un domani avrei potuto prendermi cura di mamma e del mio fratellino.

Qualche anno dopo feci la mia prima esperienza al Beccaria (carcere minorile) per furto con altri cinque ragazzi. Arrivati lì, neanche il tempo di entrare che le guardie mi fecero sapere che mio zio Michele aveva detto di stare tranquillo, che tra pochi giorni sarei tornato a casa e che lui era molto orgoglioso di me. Oltre al messaggio, mi depositò un milione di lire sul libretto, per poter aiutare qualcuno che era in difficoltà: una cosa normale per uno come lui, entusiasmante per me. Penso, anzi oggi ne sono certo, che il carcere minorile sia la scuola di delinquenza più grande in assoluto, quella che forma un vero delinquente. La cosa che mi colpì di più in tutto questo, che mi rese orgoglioso di me stesso, fu la considerazione che quel falso “mito” aveva da parte di tutti: sempre più spesso dove andavo mi sentivo dire non che ero il figlio di Giovanni, ma il nipote di Michele.

Questa è stata la costruzione del “mito” di me stesso. Inutile raccontare quanto la mia vita criminale sia stata sempre a crescere, tant’è che oggi sono un ergastolano. Non do minimamente colpa a mamma o papà o alla compagnia; mamma lavorava dalla mattina alla sera per non farci mancare nulla, papà aveva una piccola impresa artigianale e mi ha sempre voluto al suo fianco (solo al lavoro) però io avevo “scelto” altro e tutt’ora ne pago le conseguenze. Però, come dice il Dottor Aparo, col tempo trovi quello che coltivi nell’orto. Oggi, l’importante è che uno, dalle sofferenze che ha creato e sta patendo, trovi il modo per costruire un presente meno cupo, come le tante mattine che mi alzo, girando e camminando, ammazzando il tempo per anni, non giorni, senza meta.

Oggi quando sento dire che il contesto sociale è il “motivo” di devianza, mi fa un po’ rabbia, anche se, a guardarla così, il contesto dove sono cresciuto sarebbe per me un’attenuante per i reati che ho commesso. Penso che il contesto sociale possa favorire la devianza, tenendo però presente che la scintilla è dentro di noi. Sicuramente oggi ho la consapevolezza di riconoscerla nella rabbia accumulata da bambino, assieme alla delusione di un padre assente che potevo solo immaginare, mentre aspettavo alla finestra tra la rabbia e le lacrime che rendevano buia anche una giornata di sole.

Mercoledì, come altre volte, il Dottor Aparo ha notato che sembra che io non partecipi agli incontri. Le chiedo scusa, questa non è una mia scelta, ma la voglia di capire, di imparare, di riflettere e di guardarmi più in profondità. Come vede non lascio tutto al tavolo: lo porto con me, in me, in quello spazio vuoto che è il carcere, per riflessioni come queste. Scrivere è un modo certamente più facile per me, che non nascondo di essere un po’ timido, ma sono più concreto con carta e penna, perché mi aiuta anche ad ascoltare me stesso come non avevo mai fatto prima: fragile, debole, ma anche tanto curioso di scoprire e di scoprirmi curioso come quel bambino che non sono mai stato.

Nunzio Galeotta

Percorsi della devianza

La paura di aprirsi

Non sono mai stata una persona chiacchierona. Sin da quando mi ricordo ho sempre preferito ascoltare gli altri, nutrendomi delle loro storie e senza dare nulla di me in cambio. Ho sempre utilizzato la scusa di avere una vita banale: una famiglia amorevole, un percorso scolastico nella media, un fidanzato stabile. Nulla che valesse la pena di essere raccontato.

Il tirocinio con il Gruppo della Trasgressione mi sta dando la possibilità di accorgermi che la mia è solo paura: paura di prendermi la responsabilità di aver detto una cazzata. Parlare di fronte ad altre persone mi provoca ansia e ho vissuto i primi incontri con un peso sullo stomaco che compariva alla mattina e se ne andava solo alle 17, ad incontro finito. Vivevo le tre ore dell’incontro con la paura che mi chiamassero in causa per avere la mia opinione, e avevo il terrore di dire inutili banalità.

Per un periodo ho anche pensato di annullare il tirocinio, bloccare le ore e trovare un altro ente più strutturato, dove qualcuno mi assegnasse un compito che avrei fatto fino alla fine delle 500 ore e basta. Sono andata a leggermi tutte le relazioni di tirocinio precedenti: molti dicevano che inizialmente si sentivano spaesati quanto me ma in seguito prendevano sicurezza e riuscivano ad integrarsi con il gruppo. Ingenuamente, ed egoisticamente, ho pensato che sarebbe arrivato anche per me il momento di svolta e che avrei dovuto solo aspettare. Mi sono accorta che non funzionava, anzi mi sentivo sempre più a disagio e quasi presa di mira. Poi, piano piano, ho iniziato a partecipare più attivamente, senza parlare perché ancora adesso mi terrorizza, prendendo parte alle interviste e alle trascrizioni delle stesse. Quando ho finito di trascrivere la prima intervista mi sono sentita utile per il gruppo, e vederla pubblicata sul sito mi ha fatto provare la soddisfazione di contribuire ad un lavoro comune.

Ho imparato ad apprezzare ciò che prima consideravo assenza di struttura, ovvero la molteplicità di argomenti trattati e la richiesta continua di partecipazione attiva. Mi sono resa conto che proprio questa è la forza del Gruppo poiché dà la possibilità a chiunque di esprimere la propria opinione e consente a tutti gli ascoltatori di arricchirsi. Non ci sono distinzioni tra detenuti, studenti e liberi cittadini: ci sono solamente persone che si confrontano su diversi temi per arrivare ad una soluzione finale comune.

Devo dire che per comprendere in pieno la forza del Gruppo mi sono servite le parole del professor Aparo: “Le persone s’innamorano e, quando sono innamorate, fanno cose. Dopodiché le persone si disinnamorano, però le cose che hanno fatto rimangono”. Ciò che mi ha fatto riflettere è stato l’utilizzare la parola amore per descrivere le relazioni interne al gruppo. In primo luogo, perché l’amore ha i suoi tempi: ci sono persone che s’innamorano a prima vista, c’è chi ci mette mesi o addirittura anni e c’è anche chi si nega l’amore, per paura o per orgoglio. Allo stesso modo, ci sono persone che s’innamorano del Gruppo sin dal primo momento, e altre, come me, che ci mettono un po’ di più, per il timore di lasciarsi andare. In secondo luogo, l’amore implica fiducia e apertura nei confronti dell’altro: solo donando qualcosa di se stessi si possono gettare le basi per costruire un rapporto solido. Io mi sono approcciata al gruppo con la pretesa di ricevere senza dare e mi sono resa conto di aver gettato le basi sbagliate, che portano alla costruzione di un rapporto instabile. Adesso so che devo lavorare anche su me stessa, provando ad aprirmi di più con gli altri senza avere la paura del giudizio e dandomi la possibilità di sbagliare.

Forse il peso sullo stomaco che sentivo, e sento ancora adesso, erano solo bruchi. E magari, quando si trasformeranno in farfalle mi consentiranno di parlare senza timore per una decina di minuti consecutivi. Speriamo che ciò avvenga entro la fine del mio tirocinio.

Anita Saccani

Tirocini

Le varie corde del dolore

Ho dei ricordi nitidi di quando avevo circa 3 anni. All’epoca i miei genitori non s’erano ancora separati. Forse giusto dire, mio padre non aveva abbandonato mia madre e di conseguenza me.

C’era mia zia Nadia, ancora non sposata, che ogni mattina mi faceva il bagnetto dentro una vasca di plastica azzurra e con l’acqua riscaldata nella lavatrice. Nel frattempo mio nonno paterno, si preparava per andare a lavorare e sistematicamente si soffermava con occhi gioiosi a guardare me che sguazzavo in quella vasca messa sopra il tavolo della cucina. Il suo era un rito: baciarmi e dichiarare che ero il suo primo nipote.

Questo, negli anni avvenire, creò non pochi problemi in famiglia poiché, anche dopo la nascita di altri nipoti, lui valorizzava sempre me, sicuramente anche perché i miei, dopo qualche anno si separarono ed io rimasi in casa con i nonni paterni. Questo suo, e a modo suo, attaccamento a me, mi distanziava dal resto della famiglia (dopo la morte di mio nonno ne masticai concretamente il distacco) e crebbi quasi esclusivamente con mia nonna paterna.

Forme di dolore che profanavano la mia intimità e paralizzavano il mio pensiero. Mi pesava tutto quello che accomunava genitori e figli e mi rifugiavo in casa a giocare spesse volte da solo.

Non ho potuto dare voce alla mia adolescenza pur desiderandolo e mi obbligai a spersonalizzare me bambino e a “costruire” l’adulto di casa responsabile. Ma il bimbo affiorava quasi quotidianamente e soffriva gli effetti di eventi esterni che appartenevano agli uomini e non a lui.

Inadeguatezza, vergogna e dolore iniziarono a stratificarsi in me in forma subdola, grazie anche alla complicità di alcuni bulli del quartiere.
Le varie forme di solitudine mi spinsero precocemente a mettere su famiglia, vestito da adulto, ma senza la consapevolezza e il senso della responsabilità che richiedeva una scelta così profonda.

Dovevo compensare la mia solitudine famigliare patita anche a costo d’essere egoista verso gli altri. Contemporaneamente o quasi, mi sentivo chiamato a riempire vuoti e solitudini di altri compagni e allora, oggi dico, non avendo la forza di allungare gli occhi oltre i limiti del mio quartiere, iniziai a prostituirmi a quel marciume fino a quando ne divenni parte integrante.

Credo che un altro aspetto dei miei dolori fu la fame. Infatti, durante i primi 14 anni della mia vita, per motivi economici, in casa non avevamo tante possibilità. Oggi non mi giustifico e non ho mai cercato giustificazioni.

A differenza di quello che si può pensare, c’è stato un tempo molto lungo dove mi sono odiato e autocriticato ancora prima che legittimamente lo facessero gli altri.

Oggi non mi odio più, mi mortifico quando la mente va in effimere perdizioni ,ma subito dopo mi accudisco. L’autocritica è vigile e dialoga spesso con il mio io. Sono consapevole di essere detentore di cicatrici e alla mia età, non potendole sanare, me le disinfetto tutti i giorni da solo e con tutti quelli che sento me le riconoscono.

Non sono divenuto uomo da bambino, ma uomo dalle mie macerie.

StorieLa banalità e la complessità del male

Roberto Cannavò

Il mondo della devianza

Viaggio di andata e ritorno
nel mondo della devianza

Traccia per un incontro con un gruppo di studenti
alla Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio cui prendono parte detenuti, studenti universitari, familiari di vittime di reato e comuni cittadini per

  • chiedersi insieme quali sono gli ingredienti che favoriscono l’ingresso nel mondo della devianza, con i comportamenti e i sentimenti che lo caratterizzano;
  • sperimentare attraverso il lavoro e dei progetti comuni le strade più utili per diventare membri attivi e riconosciuti della collettività.

A tale scopo,  i diversi componenti del gruppo, danno spazio ai sentimenti e alle loro eterogenee esperienze per chiedersi in collaborazione:

 

come si acquista il biglietto di andata:

  • Le condizioni familiari e ambientali, i conflitti, le turbolenze dei primi anni di vita;
  • le fragilità, il bisogno di conferme, la rabbia, il senso di rivalsa dell’adolescenza;
  • La brama di diventare grandi e l’urgenza di accorciare i tempi per sentirsi indipendenti dalle prime figure di riferimento;
  • la seduzione, gli attori, le forme, i meccanismi;
  • I modelli di riferimento e l’ambiente nel quale si ottengono i primi riconoscimenti dal boss, dalla banda;
  • L’iniziazione, la sfida, i gradini dell’ascesa all’interno del gruppo dei pari;
  • I meccanismi di assuefazione all’abuso con “la banalità e la complessità del male”;

 

come si lavora per quello di ritorno:

  • le attività, le aree di interesse e di intervento, i progetti;
  • le collaborazioni all’interno del gruppo e con le istituzioni;
  • le risorse interne e le alleanze possibili.

 

L’incontro con alcuni studenti della cattedra del prof. Francesco Scopelliti è stato registrato su Zoom ed è conservato negli archivi del Gruppo della Trasgressione.

Percorsi della devianza

Una giornata particolare

I film che abbiamo analizzato nel cineforum con il gruppo della trasagressione sono: Rocco e i suoi fratelli, Ladri di biciclette, Strane storie, I cento passi, Una giornata particolare.

Ho deciso di concentrarmi sull’ultimo, perché è quello che durante la visione mi ha stupito più volte, mi ha coinvolto e mi ha fatto immedesimare di più.

Con la mia opera scelgo di rappresentare la scoperta dello spettatore durante la visione del film, ma anche la riscoperta interiore dei protagonisti in quella che diventerà una giornata particolare. Sono inserite alcune citazioni e immagini dal film e alcune frasi da me trascritte durante l’incontro del cineforum con il Gruppo della Trasgressione.

I fogli da lucido rappresentano i passaggi e le evoluzioni del nostro pensiero attraverso l’analisi del film. Le due immagini sono posizionate in modo da coprire gli occhi di Antonietta, dapprima succube di un’ideologia di discriminazione, ma girando le pagine e avanzando con la lettura delle riflessioni che nascono si rivela il volto della protagonista che prende consapevolezza di se stessa.

Un’evoluzione ulteriore è rappresentata dai disegni semplificati e man mano acquistano forma. In conclusione la forma del mio elaborato vuole ricordare un libro, ad evidenziare l’elemento di cultura e di conoscenza mortificato nel contesto storico fascista e che è uno dei motivi che unisce i nostri due protagonisti.

Giulia Napodano

I contributi del Liceo Brera al cineforum

Pratica di cittadinanza

Lunghe fasi dominate dal distanziamento sociale, a cavallo tra due anni scolastici, nell’impossibilità di toccarsi, mesi a dannarsi per imparare nuove piattaforme, con ansie vissute in solitaria. Perdere per strada ragazzi più fragili o demotivati, smarriti nei labirinti dei supporti digitali inadeguati o mancanti, delle connessioni che saltano. Scoprirsi una timidezza nel guardarsi in uno specchio, nell’usare un microfono davanti ad una platea spesso invisibile e impiegare mesi a preparare materiali didattici adatti alla nuova situazione.

Insegno lettere nel liceo artistico di Brera, ho faticato a padroneggiare la didattica a distanza e, nella mia antichità, mi sono posta quest’obiettivo: usare ogni strumento per realizzare il “non uno di meno”. La domanda è stata: come trasformare il problema in una risorsa? La risposta possibile: scegliere tra le pratiche didattiche quelle che sono risultate, nel tempo, più coinvolgenti.  Gli studenti avvertono se quello che fai è per passione o per forza. La condivisione del piacere che nasce dalla curiosità per gli altri, dalla conoscenza è il privilegio del mestiere di insegnante, è una delle rare scintille che si accendono nei ragazzi quando qualcosa ha funzionato oltre l’apprendimento della nozione.

Ho sentito così che in questo periodo di pandemia in cui la reclusione è divenuta, nelle differenze, condizione comune, aveva senso portare avanti il gemellaggio Brera in Opera che conduciamo da anni tra il nostro liceo e il carcere nelle due attività del Laboratorio della trasgressione per il triennio e del Laboratorio di poesia per il biennio. Sapevo che il dottor Aparo (generoso psicologo fuori dagli schemi, con lunghissima esperienza nelle carceri milanesi e coordinatore del gruppo della trasgressione), nell’impossibilità di continuare le attività in carcere, aveva dato inizio nel lockdown ad un cineforum che promuovesse una riflessione su banalità e complessità del male. Sua ambizione era estendere ad una dimensione geografica più allargata il gruppo, costituito da studenti del liceo, detenuti ed ex reclusi, studenti universitari, vittime di reati comuni o di mafia, operatori culturali e sociali, insegnanti. Il tema richiama il testo di Hannah Arendt, che s’intende declinare in chiave di attualità e nei vissuti di ciascuno.

Ci siamo inseriti come progetto Brera in Opera con la proposta di un pacchetto orario sullo stesso tema ma calibrato su un percorso curricolare e interdisciplinare di italiano, storia, filosofia, educazione civica. Abbiamo proposto una rosa di film su neorealismo e “dintorni” in cui il male banale e complesso assumeva una dimensione storica, sociale, individuale nelle declinazioni delle sopraffazioni o della riduzione consumistica degli uomini ad oggetti. E così, anche se non è stato possibile avere nel nostro liceo il gruppo dei detenuti di Opera, né andare nel carcere dove sono cessate durante la pandemia le visite degli esterni, come quelle dei familiari (reclusione nella reclusione) abbiamo scoperto che lavorare con il gruppo della trasgressione poteva riservare sorprese anche nella didattica a distanza.

L’obiettivo ambizioso di far comunicare mondi diversi ha funzionato ancora una volta. Ci si è parlati, ci si è preparati vedendo film, leggendone recensioni, ragionando insieme. Cosa rende così importante il contatto tra i detenuti e i ragazzi? L’intensità dell’esperienza con cui il mondo degli adolescenti ha colto la differenza tra il delinquente di un tempo e l’uomo di adesso che ha fatto una scelta di campo: passare dentro il lancinante percorso di coscienza del male compiuto, che non era percepito come tale, quando il processo di empatia era inibito, il dolore della vittima non avvertito.

Questo hanno testimoniato i ragazzi nel raccontare l’esperienza. Il laboratorio della trasgressione, nei lunghi percorsi psicologici condotti nelle carceri milanesi dal dottor Aparo, libera l’umano sepolto nel carnefice anestetizzato al dolore dell’altro. Non è un percorso facile, si diventa infami agli occhi dei detenuti irriducibili, che etichettano con questo termine chi entra nei percorsi di recupero e sceglie di dare un senso all’educazione come uscita dal lager dell’assenza della propria anima, della propria umanità. Qualcuno può iniziare per tornaconto, per abbreviare la pena o avere permessi, ma il calcolo è sbagliato, il conto non torna: guardarsi dentro, andare al centro del male prodotto ad altri fa male al nuovo sé stesso, quello che sente com-passione.

Salvarsi vuol dire perdere il sé stesso di prima, è il lutto di chi ha prodotto lutto. È una lingua nuova appresa oltre l’odio che albergava tra vittima e carnefice ferendoli entrambi. In questa lingua parlano oggi Roberto, Adriano, che attraverso la cooperativa di frutta e verdura in cui lavorano durante i permessi dal carcere, prestano soccorso in questo tempo di nuove povertà da covid, distribuendo gratuitamente a chi non ha. E’ una pratica nuova il gratuito, è il senso dell’umano ritrovato.

La presenza negli incontri di persone molto diverse ha portato valore aggiunto, una ricchezza inestimabile a detta degli studenti, che raccontano la loro. Ed ecco il bilancio: ragazzi che non intervengono in classe hanno parlato davanti a una platea virtuale di 70 persone. Lo stesso è accaduto nel laboratorio di poesia per il biennio (con il poeta Vittorio Mantovani, ex recluso di Opera e la regista teatrale Roberta Secchi) sul tema “la ferita e la cura”: una ragazza ha rivelato che si taglia, cosa che nessuno sapeva; lo studente con sordità ha parlato di questa sua ferita. A me e alla mia collega veniva da piangere. E ancora un paio di miracolose situazioni, inattese. Come se il silenzio intorno consentisse una concentrazione diversa, come se un’esposizione paradossalmente meno diretta producesse qualcosa di inconsueto. Insomma, non ho una teoria rigida sulla didattica a distanza, dipende da che tipo di scuola si fa.

Credo che vadano considerate alcune varianti che ci sfuggono, situazioni nuove. Indubbiamente un liceo ha uno spaccato familiare privilegiato rispetto ad altre scuole e la didattica in presenza è insostituibile perché fuori dalle aule cresce il divario sociale. In dad i più piccoli non accendono la videocamera, continuano a sfuggire, ragazzi fragili e in condizioni di svantaggio si perdono. Siccome sono una stalker, uno di loro, introvabile in altro modo, vado a cercarlo su instagram nella disapprovazione di mia figlia a cui chiedo aiuto per usare il mezzo: “Claudia, secondo te mi risponderà? E lei di rimando:” Secondo te? Ma ti pare che rispondono alla professoressa su Instagram?” Infatti aveva ragione lei: non mi ha risposto. Però è venuto all’incontro di poesia e mi ha mandato sue composizioni. Insomma, mi sembra utile osservare tutto e valutare con sguardo sgombro.

Ora che nella scuola l’educazione civica è divenuta oggetto di valutazione, sta a noi riempire di significato non nozionistico questa “disciplina” trasversale, evitando di creare un controsenso. Cosa è educazione civica se non pratica di cittadinanza attiva?

Cosa vuol dire apprendere la Costituzione? Non fare recita arida di articoli scritti con il sangue di chi ha pagato per consegnarcene l’eredità, ma attuare i suoi articoli. Per noi fare cosa viva della Costituzione significa praticare l’articolo 27 che fa dell’educazione dei detenuti riscatto e ricostruzione di sé, che rende lo scambio di conoscenze, attraverso una comunicazione sensibile, il valore più fecondo.

Giovanna Stanganello

I contributi del Liceo Brera al cineforum

Fragilità e cooperativa

Adriano Sannino

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Il nostro Mito di Sisifo

Dalla complessità del male alla banalità del male;
dal delirio di onnipotenza alla presa di coscienza.

Il nostro Sisifo tratta temi ricorrenti nelle nostre vite da delinquenti, ma che si ritrovano anche in altre vite, non solo nelle nostre. Ma forse dovrei iniziare parlando di Sisifo e raccontarvi il suo mito…

Ci troviamo nella città di Corinto, in Grecia, dove il re Sisifo viene pressato dai suoi cittadini che protestano per la mancanza di acqua. Durante una delle sue passeggiate, egli assiste per caso a una scena i cui protagonisti sono Giove, massima divinità dell’Olimpo, ed Egina, figlia del dio delle acque fluviali Asopo. La giovane è appena uscita da una lite con il padre, assente e autoritario; la ragazza, arrabbiata e sfiduciata, scappa di casa e incontra Giove, il quale non si lascia sfuggire l’occasione di sedurla, promettendole vita facile fra le stanze dorate dell’Olimpo.

Prima i conflitti fra Asopo ed Egina e, subito dopo, la scena della seduzione mettono in evidenza l’importanza del rapporto genitori-figli e le possibili conseguenze sull’adolescente. L’adulto, che dovrebbe trasmettere valori positivi ed essere una guida per i ragazzi, viene invece vissuto come poco credibile e per nulla rispettabile. L’adolescente, non sentendosi accudito e sostenuto dalla famiglia, si lascia sedurre dalla mira del potere e dei soldi facili o, come diciamo noi, dal virus delle gioie corte, quando invece avrebbe bisogno dell’adulto per comprendere le proprie fragilità.

Sisifo, che ha osservato la scena di nascosto, incontra subito dopo Asopo in cerca della figlia e dopo una serie di reciproche accuse gli propone un compromesso: in cambio dell’acqua per il suo popolo, egli dirà al dio dell’acqua che la figlia Egina è stata portata via da Giove.

Tutto il dialogo è caratterizzato da un gioco di ruoli tra i due personaggi: Sisifo, travolto dalla rabbia per la trascuratezza di Asopo verso i cittadini di Corinto, ma anche dalla voglia di rivalsa e dalla sua stessa arroganza, cade in balìa del delirio di onnipotenza, supera i limiti arrivando a far inginocchiare la divinità ai suoi piedi, che per il bene della figlia si adeguerà alla richiesta dell’uomo.

Questa scelta è inconsciamente dettata da quello che è, come raccontano molti miti, il sogno di ogni uomo ed è, di sicuro, il delirio mai addomesticato di Sisifo: vivere senza limiti, raggiungere l’immortalità, poter decidere, come un dio, della vita e della morte degli uomini

Asopo viene indirizzato verso Giove il quale, accogliendolo con sufficienza, si inalbera quando viene a conoscenza dell’accaduto e decide, visti i problemi che Sisifo sta causando, di farlo uccidere.

Giove interpella il fratello Ade, dio degli inferi, che a sua volta, seppur titubante, si rivolge al suo braccio destro: Thanatos, il dio della morte, al quale comanda di portare Sisifo agli Inferi.

Viene quindi azionata quella che la celebre Hannah Arendt definisce “Catena di Comando”, basata sull’individuo che, succube della società, annulla la propria coscienza morale ed esegue quasi meccanicamente ciò che gli viene comandato.

La vita di Sisifo è ora nelle mani di Thanatos, che ha il compito di ucciderlo, ma che viene tuttavia ingannato e immobilizzato grazie alla furbizia con cui Sisifo circuisce e ubriaca il sicario.

Ma con Thanatos impossibilitato a svolgere il proprio compito, sulla terra non muore più nessuno; chiunque adesso diviene immortale! Giove viene immediatamente avvisato da Marte della gravità della situazione e, dopo una rapida consultazione fra i due, sarà lo stesso Marte a riprendere Sisifo e a portarlo da Giove.

A questo punto Giove, finalmente con Sisifo in suo potere, condanna l’astuto re di Corinto a spingere per l’eternità un masso su una montagna alta e scoscesa, che ricadrà giù ogni volta che arriverà in cima.

Così come avviene nei gironi infernali della “Divina Commedia”, dove le pene che affliggono i dannati dell’Inferno sono assegnate in base alle colpe commesse in vita, anche nel caso di Sisifo, la corrispondenza tra colpe e pene, fra peccato e punizione, pare essere regolata dalla legge del contrappasso: Sisifo, bramoso del potere di chi non muore mai, viene condannato a vivere in eterno una pena senza senso e senza fine.

Ma paradossalmente, quella che sembrava essere la fine della storia, prelude invece a un nuovo e inaspettato inizio: Sisifo, costretto a convivere con questa pena, inizia a dialogare con il masso (che nel nostro lavoro rappresenta la coscienza lasciata a tacere per lungo tempo). La comunicazione tra i due condurrà verso la crescita della coscienza di Sisifo e alla comprensione degli errori commessi.

La presa di coscienza costituisce il passo fondamentale affinché lo sbaglio non si ripeta. Ogni essere umano, infatti, ha la spinta a ripetere situazioni e/o azioni dolorose fino a quando non ne comprende il senso.

Museo di Addis Abeba

Così come avviene tra Sisifo ed il masso, al Gruppo della Trasgressione il detenuto all’interno viene guidato ad interrogarsi sempre e questo conduce all’evoluzione e al conseguente sviluppo della coscienza. Questo processo introspettivo, che a volte somiglia alla “maieutica” di Socrate, porta il soggetto a dar luce a verità interne, del tutto trascurate all’epoca dei reati, e questo renderà gradualmente più leggero il masso, il peso della pena.

Quando si fanno le scelte sbagliate le conseguenze sono inevitabili, questo un detenuto lo sa bene. Frequentare il gruppo comporta un lungo percorso alla scoperta di tematiche molto complesse e importanti, quali: il potere, il delirio di onnipotenza, i limiti umani, la banalità e la complessità del male, l’arroganza e tante altre. I continui reati, governati dall’arroganza, fanno perdere il senso e la misura di ciò che si sta compiendo e allontanano sempre di più dall’altro.

Via via che si pratica il male, si produce un’assuefazione, ci si abitua ed è proprio quando il male diventa abitudine che diviene pericoloso perché non viene riconosciuto come tale. Si assiste quindi al passaggio dalla complessità alla banalità del male.

Approfondendo il mito di Sisifo e conoscendo il personaggio che io stesso ho interpretato diverse volte, ho riscontrato molte affinità caratteriali e comportamentali, che mi hanno portato a riflettere.

Parlando di scelte, spesso non ci rendiamo conto di quanto esse siano importanti, partendo da quelle più piccole, le cosiddette micro-scelte, apparentemente insignificanti ma che conducono verso le macro-scelte, che apportano profondi cambiamenti nelle nostre vite. Possono essere positive o negative e conducono a strade diverse. Esse definiscono in parte chi siamo, ma soprattutto cosa stiamo cercando. Proprio come Sisifo, molti di noi si sono fatti guidare dal proprio delirio di onnipotenza oltre i limiti consentiti, dimenticando la complessità dell’impasto che porta ciascuno a praticare il male, fino ad assuefarsi al suo esercizio quotidiano e ad anestetizzare la propria coscienza.

Passando attraverso l’illegalità, si entra in contatto con realtà difficili, fatte non solo di soldi sporchi e violenza, ma anche di povertà e costrizioni, circoli viziosi in cui si entra con relativa facilità e da cui poi difficilmente si riesce a venir fuori. Ciò comporta l’annullamento della coscienza, proprio come è successo al protagonista del nostro mito e da questo seguono comportamenti messi in atto per il gusto di sentirsi potenti e invincibili.

Tuttavia, prima o poi bisogna necessariamente fare i conti con i propri errori, poiché si arriva inevitabilmente al capolinea e sopraggiungono le conseguenze delle scelte fatte precedentemente.

A questo punto, sono possibili due opzioni:

  • la prima è quella di coloro che, nonostante gli sbagli commessi, continuano a non rendersi conto del male causato e, imperterriti, non appena se ne dà l’occasione, imboccheranno nuovamente le strade della criminalità, senza alcuna presa di coscienza;
  • la seconda riguarda coloro i quali, trovandosi di fronte al grande masso con cui scontare la propria pena e, seppur consapevoli di poter fare ben poco per rimediare agli errori commessi, decidono, come il re di Corinto, di intraprendere un dialogo con la propria coscienza, cercano di ricostruire la  propria storia, di conoscere le motivazioni che avevano indotto alle scelte fatte e di ridare vita ai valori messi a tacere già nei primi anni dell’adolescenza.

Il cambiamento è possibile e le Istituzioni svolgono un ruolo fondamentale insieme a tutti coloro che hanno a che fare con i tribunali e i luoghi di detenzione. Tuttavia è proprio il detenuto a dover compiere dei passi in avanti, che daranno poi il via a tutto il resto.

L’obiettivo del gruppo è l’evoluzione dei detenuti e per questo è necessario che ognuno di noi abbia dei punti di riferimento, “un posto sicuro”, delle certezze e buone relazioni: questo è ciò che con l’Associazione e con la Cooperativa Trasgressione.net si cerca di fare all’interno e fuori dal carcere. Si promuove la cultura, il lavoro, la comunicazione, si torna indietro, nel passato, al male per raggiungere le emozioni dell’epoca perché si ha bisogno di “sentire”, di immergersi nelle proprie emozioni e riviverle per potersi guardare dentro con persone che ti accompagnano nella tua evoluzione.

Marcello Portaro, Katia Mazzotta e Angelo Aparo

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Il cineforum su “La banalità e la complessità del male”

Joker

Joker è un film che ho amato. L’escalation delle azioni del protagonista, accompagnate dalla risata impossibile da fermare, danno realmente il senso del solco che progressivamente si crea quando si comincia a camminare in una direzione, fino a sentirsi obbligati, ogni giorno di più, a camminare solo dentro quel solco e in quella direzione.

La risata non si può fermare. Mamma l’ha chiesto: ha detto che ha una missione, portare allegria e gioia. La prima maschera che Joker indossa è questa. Non può esimersi dal farlo, anche se questo significa non avere un contatto con le proprie emozioni, disconoscerle a tal punto da non poterle neanche contattare.

Una maschera, una gabbia. Un luogo in cui rimanere chiusi: da iniziale protezione a prigione invalicabile.

La seconda maschera è quella che vediamo dipinta, la seconda maschera è Joker. Talmente connaturata con chi la indossa da non vederne più un confine. Quella maschera diventa la sua identità. Quella maschera è il suo volto, non esiste altro oltre essa. Tutto ciò che può emergere, nascere, affiorare viene filtrato da quella maschera, l’unica certezza della sua esistenza. Al di fuori di essa lui è vulnerabile. Senza essa è stato picchiato e maltrattato. Perché dovrebbe lasciarla?

Lasciarla significherebbe tornare vulnerabile,  significherebbe soffrire per i rifiuti subiti. Con la maschera i rifiuti sono cercati. Con la maschera crea quella distanza che gli serve per mantenersi vivo. La maschera È la sua identità. Lui È Joker.

La scena più bella del film dura una decina di secondi e spiega il disagio meglio di mille pagine di psicologia. È la scena in cui assiste allo spettacolo comico: lui ride quando gli altri non ridono e non ride quando gli altri ridono. Avvertire di non essere MAI in sintonia col mondo, di non avere affinità, di essere “fuori”, un outsider. Questo è ciò che accade quando ci si avverte incompresi, quando ci si percepisce diversi. Questo è il primo passo verso quelle maschere che rischiamo di identificare con noi stessi. Maschere rigide, con regole precise al di là delle quali non si può andare, al di là delle quali c’è la disintegrazione del sé.

Jojo Rabbit

Lo sguardo di un bambino di fronte alla tragedia del Nazismo.

Di fronte al disconoscimento programmatico dell’altro, privo della presenza del padre e col bisogno di appoggiarsi a qualcosa che gli dia il senso della solidità, Joio cerca nell’ideologia nazista una traccia per non perdersi .

Si fa aiutare da un amico immaginario, un Hitler in versione buffa che dovrebbe aiutarlo a orientarsi in una realtà troppo difficile da comprendere e troppo in contrasto con i sentimenti che egli vive.

E la storia va avanti… fin quando qualcuno gli suscita dentro sentimenti così forti da non essere compatibili con l’oscurantismo che il Nazismo richiede.

Angelo Aparo

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