Marisa Fiorani e il gruppo Trsg

Credo che la giornata di ieri sia andata bene e che gran parte dei presenti sia stata contenta delle 3 ore spese insieme.

È stato benevolmente notato, tuttavia, che nel corso dell’incontro si è prodotto uno sbilanciamento, essendosi tanto parlato dei percorsi di chi ha praticato il male e molto meno di chi lo ha subito.

A me sembra, tuttavia, che tale sbilanciamento (che nella quantificazione dei tempi è netto) può risultare spiacevole se Marisa Fiorani viene pensata come rappresentante del polo delle vittime e i detenuti come rappresentanti del polo dei carnefici (pur se “redenti”).

Dal mio punto di vista, è invece opportuno presentare Marisa e i detenuti come due poli che si arricchiscono vicendevolmente mentre vanno verso la luce di cui parlava Don Gianluigi, una luce che, per come ho inteso io, completa il suo lavoro quando i poli si ricongiungono.

In altre parole, quando Marisa viene presentata come componente attiva del gruppo più che come parte offesa, lo sbilanciamento non c’è più. Nella mia ottica, la funzione di Marisa e di Paolo Setti Carraro all’interno del gruppo della trasgressione è quella di lievito della coscienza più che di memoria della colpa e della ferita, cosa che ieri Matteo Manna ha espresso in modo chiaro e toccante.

Forse io, essendone il coordinatore, esalto troppo il ruolo e il lavoro del gruppo, una cosa è però certa: la coscienza di Matteo, come lui stesso dichiara, è stata chiamata dalle voci di Marisa e di Paolo e dal lavoro di tutto il gruppo.

La vocazione di San Matteo, Caravaggio

Per finire, ieri Marisa ha avuto meno tempo a disposizione di Matteo, Antonio, Adriano, Raffaele. Certo che sì, ma credo che Marisa e la figlia che porta nel cuore vincono soprattutto quando i detenuti parlano come hanno saputo parlare ieri e riconoscono Marisa come madrina della loro coscienza. Non a caso, chi ha partecipato all’iniziativa su Dostoevskij che abbiamo svolto nel carcere di Opera non ha avuto difficoltà a riconoscere in Marisa la Sonia di “Delitto e Castigo”.

Caravaggio in cittàGiustizia Riparativa

L’altra giustizia possibile

Quanto coraggio ci vuole ad incontrare se stessi, quando tutto questo deve passare attraverso l’incontro con l’altro che ci ha ammazzato l’esistenza?

Credo di aver iniziato a pormi questa domanda solo 8 anni fa, accompagnando Marisa Fiorani, madre di Marcella di Levrano, uccisa dalla Sacra Corona Unita, ad un incontro al carcere di Opera con alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione, un tempo appartenenti alla criminalità mafiosa.

Prima, nella mia testa, abitava solo il ricordo di poche parole che un ragazzo mi confidò – in un campo profughi a Novo Mesto quando entrambi avevamo 22 anni – per cercare di spiegarmi cosa avesse provato ad uccidere un proprio simile. Avevo del resto affrontato tutto il percorso universitario incentrando la mia attenzione esclusivamente sul reo. E anche durante la tesi di laurea quello che mi aveva più appassionato, nella mia indagine presso il Tribunale per i Minorenni, era il dilemma di optare tra una giustizia rigorosamente punitiva, e pertanto definita paternalistica, e una che – in quanto più remissiva – era più simile ai tratti materni. Con una sintesi sicuramente oggi discutibile ma ancora viva nell’immaginario comune, avevo scelto di arruolarmi tra i fautori della prima tesi, salvo iniziare a ricredermi grazie a due eventi che come una benedizione hanno segnato profondamente, e quasi contestualmente, la mia esperienza di vita: essere diventato padre ed aver iniziato a camminare a fianco dei familiari delle vittime della criminalità organizzata.

Sono giganti, quest’ultimi, ai quali la vita ha lasciato in pegno – dopo la morte, per mano di altro essere umano, degli affetti più cari – un macigno di dolore, grande come una montagna. C’è stato un tempo, diverso per ciascuno di loro, durante il quale l’incontro con frammenti illuminati della Chiesa e della società civile ha offerto l’occasione per ricevere in dono scarponi e corde. Ma loro, quei doni, li hanno utilizzati non tanto per arrivare in cima alla montagna quanto per calarsi, ancora più in profondità, in quello che Dostoevskij definirebbe il sottosuolo dentro ciascuno di noi.

Come Margherita Asta, che proprio in un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” identifica l’esatto momento in cui ha iniziato a dare un senso alla morte dei suoi due fratelli gemelli: alla prima udienza del processo ai mandanti della strage di Pizzolungo, quando decise di ritrovare i tratti dei loro volti, sia pure trasfigurati, dentro lo squallore di un album fotografico. E proprio quel momento l’ha portata poi a voler incrociare anche il volto di chi, quei fratelli insieme a sua madre, aveva annientato per sempre.

Il coraggio delle donne non è, dunque, quello di affrontare il nemico in un campo di battaglia. Come voleva fare Giorgio Bazzega nell’alimentare la lista delle persone, legate all’uccisione di suo padre, che avrebbe dovuto – allo stesso modo – ammazzare. Fino a cambiare idea nell’incontro con Manlio Milani che era andato fino in Giappone perché voleva, lui invece, parlare con chi poteva essere responsabile della morte di sua moglie.

Prende forma, quel coraggio, con Daniela Marcone quando supera gli orizzonti di un dolore strettamente personale, e per questo necessariamente unico, per indicare con forza la necessità di costruire una memoria collettiva delle vittime delle mafie pugliesi.

Il coraggio delle donne passa dal saper fare i conti prima di tutto con i colori più scuri delle proprie emozioni, con quella loro capacità di saper dare a ciascuna di esse un nome esatto e, così, iniziare a lasciarsele dietro il cammino. Come Agnese Moro, in una delle pagine più dense del Libro dell’incontro, quando rilegge il referto dell’autopsia eseguita sul corpo di suo padre per essere certa di non averne tradito la memoria andando ad incontrare chi aveva contribuito ad ucciderlo.

Porta dentro di sé come elemento imprescindibile, il coraggio delle donne, il dono dell’accoglienza, capace – per loro stessa natura – di generare altra vita. E’ interessante che Paolo Setti Carraro abbia paragonato la sua esperienza di familiare di vittima di reato, attivo nei percorsi trattamentali in carcere, come simile alla attività di una ostetrica che aiuta – al più – a far nascere l’uomo dentro un criminale. Prendendolo per mano.

La giustizia riparativa ha bisogno delle mani di Marisa, Margherita, Daniela, Agnese e di tutte le altre donne che in tutti questi anni hanno tratto ispirazione dal loro coraggio. Ma ha bisogno anche delle mani di Manlio, Giorgio, Paolo e di tutti gli altri uomini che hanno deciso di scongelare il proprio dolore per provare a farne qualcosa di diverso.

Dentro di me e nella mia testa, ora, tutto torna: del resto Rembrandt regala alla sua più famosa immagine di accoglienza misericordiosa le mani di un uomo e di una donna.

Ma la giustizia riparativa ha bisogno che anche le nostre mani si uniscano alle loro: per accompagnare quella danza – come nel quadro di Matisse – affinché sia in grado di restituire un poco di senso a tutto questo sangue versato e, come in una trasfusione vitale, generare esperienze di pace.

[un estratto di questo contributo è stato pubblicato oggi su Avvenire, p. 4, a corredo di un intervista di Viviana Daloisio a Daniela Marcone dal titolo Fare pace con il dolore”. Daniela Marcone e le vittime di mafia]

Giustizia Riparativa

Caterpillar Radio RAI2 19/03/24

Signori, presto ci separeremo. Per qualche tempo io sarò con i miei due fratelli, dei quali uno sarà deportato e l’altro giace malato, in pericolo di morte. Ma ben presto lascerò questa città e, forse, per molto tempo. Stringiamo un patto qui presso il macigno di IlJusa: che non ci dimenticheremo prima di tutto di Iljuseeka e poi l’uno dell’altro. E qualunque cosa ci accada in futuro nella vita, anche se non dovessimo incontrarci per i prossimi vent’anni, dobbiamo sempre continuare a ricordare il giorno in cui abbiamo sepolto il povero ragazzo, al quale in passato avevamo tirato i sassi presso il ponticello – ve lo ricordate?- e di come poi abbiamo tutti preso ad amarlo. E, per quanto possiamo essere impegnati in cose della massima importanza, per quanto possiamo avere ottenuto grandi onori o essere precipitati in qualche grande disgrazia, in nessun caso dobbiamo dimenticare di come siamo stati bene un tempo, qui tutti insieme, uniti da un sentimento così nobile e buono, che ha reso anche noi, per il periodo in cui abbiamo amato il povero ragazzo, migliori forse di quello che siamo in realtà.

Aleksej da I Fratelli Karamazov

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

I Violini del mare contro l’indifferenza

Concerto Trsg.Band – 18/11/2023
Teatro della casa di reclusione di Milano-Opera

Come un’onda che risveglia le coscienze

Dal carcere di Milano-Opera e poi in giro per l’Italia, una serie di concerti che partono dalle parole di Don Luigi Ciotti (l’indifferenza nei confronti del male lo alimenta) e che, attraverso le canzoni di Fabrizio De André e gli interventi dei detenuti del Gruppo della Trasgressione, danno voce alla fragilità negata e all’importanza di riconoscerla come tratto che accomuna tutti gli uomini.

Le canzoni di Fabrizio De André vengono eseguite con gli arrangiamenti della Trsg.band e con alcuni degli strumenti ad arco che la liuteria de La Casa dello Spirito e delle Arti ha ricavato dal legno dei barconi dei migranti.

Ingresso gratuito; prenotazione obbligatoria entro il 10/11/2023.
Per prenotarsi, inviare fotocopia del proprio documento di identità a coord.liberamilano@gmail.com e ad associazione@trasgressione.net

I minorenni possono entrare solo se accompagnati da uno dei genitori o autorizzati  con una dichiarazione firmata da uno dei due.

Presentarsi all’ingresso del carcere di Opera alle 18:45. Per sveltire le operazioni di ingresso è meglio non avere con sé cellulari e oggetti elettronici.

Nei giorni immediatamente precedenti il concerto verrà pubblicata su questa stessa pagina la lista delle persone autorizzate.

GIUSTIZIA E CARCERE

Impressioni di maggio e violini del mare

Resoconto degli incontri
al Monumentale, alla Fabbrica del Vapore e al carcere di Opera

Il bel maggio si fa piovoso. E’ buffo, ogni volta che ci si incammina con i detenuti e gli studenti tra le sepolture del Monumentale il cielo è addensato di nuvole. E’ successo quando abbiamo girato le riprese finali di un percorso costruito in sette anni di collaborazione tra Liceo Artistico di Brera e Carcere di Opera, si è ripetuto nei due incontri di restituzione cittadina al Cimitero Monumentale e alla Fabbrica del Vapore di Milano. “Sposa bagnata sposa fortunata” verrebbe da dire e il matrimonio tra due mondi differenti come quello degli studenti e dei detenuti è stato felice per  significato e relazioni tessute.

Il percorso autobiografico sul mito al Cimitero Monumentale con Antonio Tango (che ha appena finito di scontare una lunga pena) è stato accolto con vivo interesse dalle molte persone di differenti fasce d’età in tutti e due gli appuntamenti. Mentre arrancavamo tra le sepolture infangate dalla pioggia, nel tempo stretto che ci doveva poi portare alla Fabbrica del Vapore,  seguendo Antonio veniva da cercare un senso al chi siamo e cosa ci facciamo al mondo. Con la poca scuola ritagliata in carcere, le cose apprese di straforo dalle guide ufficiali con curiosità insaziabile, ci ha condotto in un itinerario simbolico in cui ha illustrato i monumenti che hanno lasciato un segno in lui quando ha svolto servizio al Monumentale, scegliendo tra le sculture legate al mito i dettagli che gli hanno parlato: la Medusa, la spirale, il tradimento, Narciso, Amleto, la clessidra e il tempo fermo.

Antonio ha ricomposto i pezzi di una vita in cui è passato da un rapporto predatorio e rapace con la città d’adozione ad una dimensione estetica prima impensabile, dove può fermarsi a guardare e scoprire che la bellezza esiste: “Se oggi mi accorgo di una statua, lo faccio perché non sono pietrificato; ritenevo tutti responsabili del dolore che provavo. Solo comprendendolo, masticandolo, il dolore, sono riuscito ad elaborarlo. Oggi il dolore non mi pietrifica. Sotto la crosta, il rosmarino ha germogliato dentro di me, i dolori sono riemersi dalla pietrificazione del male e mi hanno permesso di riprendere a crescere perché la rabbia pietrifica anche la crescita, la voglia di curiosità. L’arte è anche quello che ci vede chi la guarda. La testa di Medusa la amo e la odio. Guardo quel grido che mi ha pietrificato la crescita. In alcune statue del Monumentale ho visto un Narciso con la mano sul mento che s’interroga sull’infinito, un ragazzo giovane che si specchia nell’acqua e entra nella sua morte. Cosa trovo io nella mia vita, in questa opera, in questo momento?”

La pietra e il soffio è il titolo del percorso al Monumentale. Un itinerario fatto di dettagli indicati dallo guardo di Antonio: una clessidra rovesciata, la sacchetta dei trenta denari sotto il tavolo dell’ultima cena, il viso di Medusa nel Monumento Fabé. Quest’opera mostra il peso del bronzo e l’immobilità della pietra in antitesi alla leggerezza e al brillio della ceramica smaltata in tenue azzurro dell’angelo di Fontana che, come la Nike di Samotracia, sopraelevata rispetto alla tomba, sembra liberarsi dal peso della materia per riprendere il volo, il respiro, il soffio di nuova vita.

Il lavoro di scavo intrapreso da Antonio e dagli altri detenuti del Gruppo della Trasgressione fa bene, prima però fa male: passare da quando non avverti il dolore dell’altro che annienti a quello in cui prendi coscienza di questo dolore, può indurti a disperazione. Il prezzo è alto, il vantaggio possibile.

Dopo il percorso al Monumentale eccoci arrivati alla Fabbrica del Vapore per la proiezione dei due filmati Eravamo cattivi, appunti sul gruppo della trasgressione, del regista Sandro Baldoni e Il teorema di Pitagora, esercizi su carcere e cittadinanza, docufilm che ripercorre tutta l’esperienza didattica. Il racconto dei due cortometraggi accosta universi distanti: un centro fatto di adolescenti liceali e una periferia al bordo dell’abitato che è città e non è più città: Opera, il carcere.

Sandro Baldoni, regista nastro d’argento che ha lavorato con noi in una lunga attività di volontariato, racconta dei due cortometraggi con la grazia di chi non si mette in mostra ma fa parlare le immagini, in stile sobrio con sprazzi di ironia. Ha il dono della sintesi e la pazienza dell’ascolto, anche se il treno non lo aspetta. Sandro è anche uno dei familiari delle vittime di una violenza cieca che priva delle persone amate.

Segue l’intervento di Paolo Setti Carraro, chirurgo nei paesi in guerra, vittima di mafia nell’attentato dove sua sorella Manuela ha perso la vita accanto a Carlo Alberto Dalla Chiesa. Le sue parole hanno la compostezza e la dignità che lo caratterizzano. Attualmente partecipa ad incontri settimanali in carcere nei percorsi di giustizia riparativa in cui familiari di vittime e rei tornano a parlarsi; uscire dai ruoli incomunicabili vittime e carnefici scollando l’aridità dell’anima è un modo per tornare a respirare e non incistarsi nel peso dell’odio e della vendetta.

Nella parte finale il suo intervento ha una nota nuova, un’incrinatura della voce quando riporta il racconto di Pasquale Trubia, che sconta delitti di mafia: uscito dal carcere dopo decenni per un frammento di tempo che gli consentisse di dare la sua testimonianza agli studenti, dal Palazzo di Giustizia (dove veniva richiesto il permesso di entrare a scuola) gli sono apparse all’improvviso le guglie del Duomo: come una rivelazione, una vertigine di luce dopo un secolo di assenza da se stesso. Ha tremato di emozione alla scoperta della bellezza, ha tremato di timidezza e responsabilità all’idea di parlare a ragazzi.

Questo sentimento è condiviso da Antonio, Rocco, Adriano, Roberto… non è più l’adrenalina di depredare la città ma la commozione per la sua luce, non è la durezza del non mostrare emozioni ma la pratica inedita della propria fragilità, violentemente espulsa dalla vita e da un carcere sovraffollato che può diventare scuola di altra devianza. A noi è toccato il privilegio di muoverci in esperienze pilota che cercano di attuare il dettato costituzionale dell’articolo 27 sulla funzione educativa della pena.

Seguendo il metodo Aparo chiamo le studentesse che con più intensa motivazione hanno partecipato al gemellaggio scuola-carcere a dire cosa resta loro delle cose fatte insieme. Le ragazze hanno nomi d’intonazione paradisiaca che fanno da ossimoro con quelli dei detenuti che vengono dalle periferie del Sud e che si chiamano Rocco, Antonio, Pasquale, Nuccio… Eccole, intimidite dal microfono: sono Chiara, Beatrice, Angelica, un’altra Angelica, e meno male che Celeste aveva un esame e non può esserci, che altrimenti ci piovevano addosso cascate di manna dal cielo e polvere di stelle! Qualcuna di loro è ancora in quarta liceo e aveva cominciato il percorso poco più che bambina, a quattordici anni, altre adesso sono studentesse universitarie. Niente di più distante da ergastolani e allora com’è che adesso Angelica abbraccia Nuccio e Pasquale stringe le mani a Chiara?

E’ che forse non sono più quel Pasquale assassino e quel Nuccio che la figlia non vuole vedere, è il Nuccio che ha letto una poesia in Siciliano dedicata proprio a quella figlia che lui andava a guardare di nascosto durante un permesso premio, mentre lei lavorava alla cassa del supermercato; è il Pasquale che ha cercato di morire quando è giunto alla coscienza del male fatto. Nell’autolesionismo pieno di tagli del detenuto si è rispecchiata Angelica che si tagliava a sua volta durante la pandemia. Eccole le ragazze dal profilo dritto e dagli occhi accesi mentre s’immaginano il Duomo attraverso gli occhi di Pasquale che lo sta raccontando dal vivo così come lo ha scoperto all’improvviso dal palazzo di Giustizia. Chiara sa la storia dell’arte e ci sarebbe venuta a piedi per essere presente a questo incontro, dalla sua Sicilia. Ed è venuta. Ha parole bellissime, le sentiamo in noi per la sua sensibilità. Come nel Gigante e la bambina di Ron, una delle due Angeliche ha ritrovato la parola accanto ad Antonio, è riemersa da una forma di mutismo a questo suo parlare di adesso, che vince una paralizzante timidezza.

Li ascolto mentre interagiscono, così diversi e così vicini, vengono in mente le note di uno spartito. Se Antonio Tango è stato protagonista di parte dei nostri filmati e della visita al Monumentale, i nostri incontri in realtà si chiamano Rocco, Pasquale, Roberto, Adriano, Pino, Angelica, Beatrice… si chiamano come tutti gli altri che abbiamo conosciuto e con cui ci siamo detti cose che contano. Insieme fanno una partitura corale, un concerto.

E non a caso con la musica terminano i nostri due incontri al Monumentale e alla Fabbrica del Vapore, con le parole poetiche di Fabrizio de André e i suoi canti degli ultimi, con il pescatore che non chiede il conto all’assassino, ma gli versa il vino e spezza il pane.

Proprio con questi testi, sempre nel filo della musica si apre, un mese dopo i nostri due appuntamenti al Monumentale e alla Fabbrica, la meritevole iniziativa I violini del mare contro l’indifferenza. L’interpretazione di Juri Aparo, calda e graffiante, risuona nel carcere di Opera, accompagnata dal violoncello del virtuoso violoncellista Issei Watanabe nel suo giovane viso ispirato. Li guardiamo, hanno entrambi gli occhi chiusi nella diversità delle loro caratteristiche, li ascoltiamo, viene anche a noi da chiudere gli occhi e da immaginare un mondo diverso, dove le cose possano cambiare come è stato per i reclusi che ci siedono vicini; possano cambiare le cose come crede don Luigi Ciotti, prete che costruisce ponti tra i diseredati. Quando parla, le sue parole sono pietre. C’è la sposa amata da Fabrizio, anch’essa una voce: Dori Ghezzi, che sarà testimonial in un tour per dire no all’esclusione e che ha apprezzato interpretazione e arrangiamenti della Trsg.band.

Nella liuteria del carcere di Opera il maestro liutaio Enrico Allorto fa realizzare ai detenuti i violini del mare, recuperando i legni dei naufragi, degli ammazzati dall’indifferenza dei privilegiati. Nel cimitero del Mediterraneo un papa venuto dalla fine del mondo ci ha ricordato cosa è pietas, cosa è ospitalità; di questa i greci fecero reciproca assicurazione sulla vita. Pegno di civiltà. Contava.

Ora c’è chi chiede agli scampati: ma lo sapevate che era pericoloso partire? Chi pensa al fastidio che dà trovare morti in mare, disturbano. Si è spezzata una corda. Non è così che ce lo immaginavamo, quando ci pareva ad un passo dal cambiarlo, quel mondo. Si è spezzata una corda; i liutai cercano di riannodarla. Siamo creature fragilissime, che si possono rompere da un momento all’altro. Non ce lo ricordiamo. Solo l’amore resta, nessun potere, nessuna ricchezza sopravvivono.

Ora, poiché arrivi nella nostra città e nel nostro paese,
non ti mancherà una veste o cos’altro
è giusto ottenere arrivando da supplice sventurato. […]

Ma costui è un infelice, qui arrivato profugo,
che ora ha bisogno di cure: mendicanti e stranieri
sono mandati da Zeus. Il dono sia piccolo e caro.

(Odissea, VI, XI).

Giovanna Stanganello

Incontri con gli studenti

Il canto dei barconi

Quello che ho visto e vissuto martedì 13 giugno dentro il teatro del carcere è stato per me una sostanza rivoluzionaria. La bellezza di questi progetti porta novità dentro il carcere e fuori. Le alleanze che si costruiscono portano sempre una crescita, per la società e per noi stessi.

Vedere sul palco Marisa Fiorani e sentire il suo dolore per la figlia uccisa dalla criminalità trasmette valore e coraggio, utile nella crescita di noi detenuti, e dà fiducia nel ritrovare un riscatto dal male che siamo stati. Una mamma, una donna, così piena di gioia e forte, crea un’alleanza che offre ad ognuno di noi detenuti l’opportunità di riflettere: costruire insieme sul dolore, per tirare fuori quel male che abbiamo prodotto, quel silenzio buio che vive dentro le carceri.

Anche Paolo, ogni volta che sento il suo racconto, mi porta a ricordare il passato. Ero adolescente e vivevo in Sicilia, era accaduto qualcosa di terribile a Palermo: l’omicidio del Generale Della Chiesa e della sua compagna, sorella di Paolo. Oggi Paolo dovrebbe odiarci, invece è qui con noi detenuti al teatro e si commuove con noi. Paolo è un componente del Gruppo della Trasgressione e averlo insieme a noi è un vero successo: allearmi con Paolo è significativo per il percorso che ho scelto e che voglio vivere, la legalità. Il contributo che posso dare a Paolo, alla sua famiglia e anche ai miei figli e futuri nipoti è riconoscere che il generale Della Chiesa e la sua compagna sono e saranno il simbolo della legalità. L’importante è capire i nostri sbagli e si può avere sempre una ripartenza. Il tempo che Paolo mette sul tavolo ci aiuta a stimolare la coscienza. Mentre noi raccontiamo il nostro passato deviante scopriamo chi siamo stati e di non fare più errori.

Anche Don Ciotti, con il suo linguaggio sicuro verso di noi detenuti, è stato emozionante. Le sue parole danno ricchezza al nostro cammino di vita, come questo progetto dedicato a quei barconi pieni di persone e bambini dispersi nei nostri mari e quei migranti che arrivano in cerca di un futuro. Doveva essere per loro un luogo di speranza; invece, è diventato un luogo di disperazione. Don Ciotti è meravigliato dalla trasformazione di quei barconi che sono stati recuperati nel mare: oggi sono qui a Opera, dentro al carcere, per far sì che quelle vite, perse sopra quei barconi per un futuro mai raggiunto, abbiano un riconoscimento per i sogni persi. Per dare dignità e speranza anche da vittime, quelle specie di zattere, quel legno da bruciare, è stato trasformato in un violoncello, donando anima e dignità alla loro memoria.

Ma cosa esce da quei violini? Una vera rinascita!  In teatro ho percepito qualcosa dentro al cuore, non avevo mai visto e sentito suonare uno strumento così da vicino, ma per me la novità è stata vedere il nostro Dott. Aparo seduto al centro del palco, pensieroso e in silenzio. Appena abbassa la testa e si mette a cantare “Marinella”, mi ha caricato i pensieri: non staccavo l’orecchio dalla sua voce.

Mi ha portato all’amore che ho perso, anche io, nella vita, ho provato a bussare a qualcosa che volevo rivedere; quella canzone l’ho ascoltata molte volte ma non ho mai sentito questa connessione. Questa volta ho dato valore e significato, pescando qualcosa da dentro di me: ero preso dalle parole, per cercare qualcosa che mi potesse appartenere e ritornare indietro a sistemare il mio passato. Marinella, la sua storia vera, mi ha coinvolto perché anche io sono partito per costruire dei sogni: lei costretta a fare la prostituta fino a perdere la vita; la mia prostituzione, diversa e di mia scelta, è stata per aumentare il denaro e il successo, fabbricando male per me e la società.

Ecco perché mi sono rimesso in gioco, la nostra vita e la rivoluzione del nostro cambiamento si nutre di quello che nel passato è stato un male per le persone e per noi stessi. Oggi faccio uso della coscienza, mi sono dato dei nuovi valori per essere utile e dare consistenza al mio cambiamento.

La bellezza e le risorse che offrono questi progetti e queste alleanze creano un’aria pulita, delle vere emozioni, come quel violoncello suonato dal ragazzo giapponese: era strano nei suoi movimenti, ma forte era la sua potenza. Si vede che lui ama tirare fuori dal violoncello quei suoni, io ho chiuso gli occhi e ho pensato a quegli uomini e bambini che hanno perso la  libertà e la  vita per cercare un futuro migliore.

Ignazio Marrone

I violini del mare contro l’indifferenza

Caro Don Luigi

Caro Don Luigi Ciotti,

quando ti ho sentito parlare guardavo intensamente il tuo viso e i tuoi occhi da vicino.

Parlavi di quei migranti disperati che scappano dalla guerra, dalle violenze o dalla dittatura e attraversano il mare con dei barconi vecchi, cercando una vita migliore. Parlavi della gente che guadagna soldi su questo, non capendo, o facendo finta di non capire, che quei barconi sono pericolosi, che affondano e che ci sono tanti bambini, donne incinte, ragazzi giovani e padri di famiglia che perdono la vita.

Il tuo discorso mi ha fatto tornare al mio passato, perché non si può dimenticare, nessuno può.

Io ho avuto la fortuna di conoscere Paolo Setti Carraro e Marisa Fiorani, che fanno parte del Gruppo della Trasgressione. Paolo ha perso sua sorella Emanuela e suo cognato, il Generale Carlo Alberto della Chiesa e Marisa Fiorani ha perso sua figlia Marcella. Quando ho sentito le loro storie sono rimasto senza parole per il male che ho causato.

Marisa Fiorani una volta mi disse: “Vito, vai sempre avanti, quando sento parlare di Lea, vedo un pezzo di mia figlia Marcella”. Marisa Fiorani mi è stata vicina nei momenti tristi.

Il giorno 13 giugno 2023, dopo lo spettacolo del Gruppo della Trasgressione e di Libera, al Teatro di Opera, sono andato a salutare Marisa e lei, quando mi ha visto, mi ha detto: “Vito, ma non ti vedevo!”, io le ho risposto che l’avevo vista quando era salita sul palco. Era contenta, mi ha preso per la mano come un bambino e mi ha fatto conoscere Don Ciotti.

Come ci siamo incontrati, ci siamo guardati e di istinto ci siamo abbracciati. È stato come se mi stesse abbracciando mio papà.

Mi ha chiesto come stavo, come mi trovavo e gli ho risposto che stavo bene, che mi aveva dato tanta forza e tante emozioni forti; gli ho detto che sono padre di tre figli e nonno di quattro nipotini e che vorrei dargli un abbraccio e un bacio e invece gli ho dato solo sofferenza e dolore.

Oggi penso che anche mia nipote Denise avrebbe potuto dare un abbraccio a sua madre, così come Lea avrebbe potuto abbracciare i suoi familiari. Penso al dolore e al male che ho creato togliendo a una figlia sua mamma.

Quando si fece il mio processo, vedevo l’Associazione Libera a tutte le udienze e mi chiedevo: “Ma questi cosa vogliono? Perché sono qui al mio processo?”. Li guardavo male. Poi ho saputo che era di parte civile ed io ero molto arrabbiato, gli dicevo di andare via. La vedevo come un’avversaria.

Quando c’è stata la prima sentenza e sono stato condannato, in aula c’era pure Don Ciotti. Lo guardavo con occhi diversi e gli dicevo: “Tu che sei un prete, cosa ci fai qua?”. C’era anche Marisa Fiorani, la prendevo a parole: “Ma perché non te ne vai?”, lei mi guardava, io mi mangiavo le caramelle e ridevo.

Dopo tutti questi anni di carcere, di sofferenza e di solitudine, ho riflettuto molto sul male e sul dolore che ho causato a Lea e alla sua famiglia, oggi ne sono consapevole e mi prendo la mia responsabilità.

Oggi sento sentimenti forti e prendo coscienza; oggi capisco perché Libera e Don Ciotti vennero al mio processo e fecero le manifestazioni e le fiaccolate contro la mafia e la violenza sulle donne e capisco perché aiutano i migranti che vengono nel nostro paese.

Oggi vedo Libera e Don Ciotti come una grande risorsa e li voglio ringraziare per il lavoro che fanno e per essere venuti al Carcere di Opera.

Ringrazio anche il Gruppo della Trasgressione, coordinato dal Dott. Aparo, che in questi anni mi sta aiutando molto, Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro che nel mio percorso mi sono stati vicino e sono due grandi stelle e infine l’Istituto di Opera che mi ha dato questa opportunità.

Chiedo scusa alla famiglia di Lea, a mia nipote Denise, alla mia famiglia e a tutta la società civile.

Vito Cosco

I violini del mare contro l’indifferenzaIncontri tra vittime e autori di reato

 

Sotto il testo originale di Vito Cosco

Rinascita e trasformazione

Egregio Dottore Aparo, frequento da poco il suo gruppo e il 13 giugno scorso ho potuto assistere allo spettacolo “I violini del mare contro l’indifferenza”.

Credo che il progetto che lei chiama “Gruppo della Trasgressione” sia qualcosa di eccezionale e penso che nemmeno lei si rende veramente conto di cosa ha creato, facendo sedere allo stesso tavolo vittime e carnefici. Quando vengo al corso e stringo la mano a una persona come il Dottor Paolo Setti Carraro avviene qualcosa che mai avrei creduto possibile nella mia vita.

 Il gruppo della trasgressione è una realtà che vive solo negli istituti di Milano e aggiungo che, se mentre ero detenuto in altri istituti mi fosse stato raccontato da altri l’esistenza di questo corso, non ci avrei creduto. E’ una realtà troppo difficile da immaginare per chi è detenuto altrove.

 L’evento del giorno 13 giugno è stato bellissimo, con vittime e carnefici allo stesso tavolo. Tutti gli interventi sono stati gradevoli e sentiti, ma quello che mi ha colpito di più è stato quello di Padre Ciotti, forse anche perché da lui non mi sarei aspettato (essendo padre Ciotti coordinatore dell’associazione Libera) parole cosi profonde e incoraggianti verso noi carnefici.

 Inoltre il nostro progetto punta sulla rinascita, sulla trasformazione e, proprio per questo, la presenza di uno strumento come il violoncello costruito con il legno proveniente dai barconi affondati è stata la ciliegina sulla torta.

Vedere con i propri occhi che il legno che in un primo momento ha dato morte alle persone è stato trasformato in strumenti musicali che regalano invece momenti di gioia, è meraviglioso e dimostra oggettivamente che il cambiamento è possibile.

Tra un intervento e l’altro, tra una canzone e l’altra, guardavo il violoncello e più di una volta ho pensato che, se c’è l’ha fatta il legno della barca a passare da strumento di morte a strumento di piacere, può farcela anche l’essere umano.

Oscar Pecorelli

  • Don Luigi Ciotti e Dori Ghezzi
Da Andrea Spinelli

I violini del mare contro l’indifferenza

Indifferenza e metamorfosi

Il giorno 13 giugno, presso il teatro del carcere di Opera di Milano, il gruppo della Trasgressione con la collaborazione della direzione del carcere, della Fondazione Casa delle Arti e dello Spirito, dell’associazione Libera, della Fondazione Fabrizio De André e del progetto “Lo strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” ha tenuto un incontro intitolato “I violini del mare contro l’indifferenza“.

Due sono i concetti che hanno tracciato il filo rosso dell’intera serata: l’indifferenza e la metamorfosi.

L’indifferenza è neutralità, ostentata assenza di partecipazione ed interesse. L’indifferenza è oggi tra gli atteggiamenti preferiti della maggior parte dei consociati, soprattutto nei confronti del male. E così come c’è stata e ancora oggi persiste indifferenza verso migliaia di vittime dei naufragi, verso coloro che hanno perso la vita, ma non la speranza; così anche c’è e continua ad esserci indifferenza nei confronti del carcere, più precisamente, nei confronti dei ristretti, che lo popolano.

Proprio come i migranti, non hanno avuto la possibilità di scegliere dove nascere, così anche, molti detenuti hanno scelto la strada della criminalità, non avendo avuto la possibilità di sviluppare un pensiero e strategie d’azione diverse da quelle che purtroppo hanno tenuto. Eppure, dalle ceneri è sempre possibile risorgere. Anche i fatti irreversibili, come la morte, sia essa derivata da un naufragio o da un assassinio, possono conoscere sviluppi positivi.

Il maestro liutaio Enrico Allorto ci ha infatti insegnato che a volte “l’impossibile è possibile”. Nessuno credeva nella possibilità di recuperare il vecchio e inzuppato legno dei barconi, eppure, grazie alla speranza e dedizione di chi ci ha creduto, la stessa è stata lavorata e trasformata in strumenti musicali.

Questi strumenti oggi, non sono più mezzo di distruzione, ma di creazione. Creazione di unità e sintonia tra tutti coloro, che ascoltano i suoni emessi dal delicato tocco di chi li sa suonare.

In molti negano la possibilità di un cambiamento da parte dell’essere umano: “un uomo che ha ucciso, non potrà mai essere una persona normale”. E invece “l’impossibile è possibile”. Numerose sono le testimonianze di ex criminali, tra cui assassini e affiliati ad organizzazioni criminali a dimostrare che il cambiamento non è un’utopia, bensì realtà. Sono sufficienti gli stimoli, i luoghi, le parole e gli incontri con le persone giuste, affinché tutto ciò si realizzi.

L’obiettivo è quello di demistificare le narrazioni diffuse sulla realtà carceraria, narrazioni che provengono da parte degli indifferenti, da parte di chi il piede in carcere probabilmente non lo ha mai messo, lo sguardo verso un detenuto non l’ha mai rivolto, privandosi così della possibilità di scorgere dietro a quel “mostro”, un essere umano che ha sbagliato. Un essere umano che ha scelto il male, ma che è ancora in grado di scegliere il bene.

A tal proposito, è doveroso acquisire la consapevolezza che non esistono persone crudeli in assoluto, bensì persone che sbagliano, e che in quanto tali, non sono uno scarto da buttar via. In quest’ottica il carcere potrà essere l’occasione, che la vita non è stata in grado di dare a queste persone: una seconda possibilità, in cui attraverso lo studio, il dialogo e l’apprendimento di una professione nuova possono crearsi il loro spazio nel mondo.

Il carcere non deve mai rappresentare un parcheggio in cui attendere inermi, la soluzione privilegiata per eliminare dalla società il disagio, che non si vuole vedere e nemmeno risolvere.

Ecco, “i violini del mare contro l’indifferenza”, costituisce uno dei tanti progetti, che si inserisce in un percorso più ampio, necessario ad attuare un grande cambiamento, che richiede uno sforzo da parte dell’intera collettività, la quale non può rimanere neutrale, non può rimanere indifferente. Questo grande cambiamento, a cui si ambisce, potrà dirsi pienamente raggiunto, soltanto quando ciascun cittadino prenderà veramente consapevolezza di ciò che vuol dire vivere in un Paese democratico e si impegnerà nel diffondere e promuovere i valori su cui la democrazia si fonda, senza lasciare ai margini nessuno.

Per concludere con le parole del protagonista virtuale (Fabrizio de André) del progetto, bisognerebbe farsi “carico di interpretare il disagio rendendolo qualcosa di utile e di bello”. E’ questa la missione di ciascun uomo che non vuole essere indifferente.

Giulia Varisco

  • Lucilla Andreucci
Da Andrea Spinelli

I violini del mare contro l’indifferenza